IDEATO E DIRETTO
DA ANTONIO CANTARO
E FEDERICO LOSURDO

IDEATO E DIRETTO DA ANTONIO CANTARO E FEDERICO LOSURDO

Ma veramente l’Europa è tornata?

È assai difficile rispondere. Quello che, però, sembra sicuramente cambiato è lo spirito di fondo dell’impresa europea.

Dopo aver sfiorato l’Hamiltonian moment con il NGEU adottato dall’UE per reagire alla crisi pandemica, la guerra in Ucraina sta offrendo all’UE un’altra – tragica – occasione per costruire sulle crisi un’integrazione federale, come confusamente auspicato dai “Padri fondatori” delle Comunità progenitrici dell’attuale Unione.

La Commissione, per bocca del Commissario europeo all’economia Gentiloni, ha affermato l’intenzione di prorogare ulteriormente la sospensione del famigerato Patto di stabilità e crescita proprio al fine di fronteggiare le conseguenze economiche della guerra in corso. La Presidente della BCE Christine Lagarde, premesso che «L’Unione bancaria e l’Unione dei mercati dei capitali sono gli obiettivi fondamentali per l’Unione Europea», ha affermato che «La congiuntura attuale è favorevole e va sfruttato questo momento per fare passi avanti».

Potrebbe apparire cinico vedere nella sanguinosa guerra in corso un’occasione positiva per l’economia degli Stati dell’UE, specie per quelli legati ai più stringenti vincoli dell’Eurozona; tuttavia, non va dimenticato l’incredibile potenziale geopolitico e, soprattutto, geoeconomico che la guerra ha avuto nel recente passato.

La gestione economicamente punitiva della vittoria dei Paesi alleati nella Prima guerra mondiale ha gettato i semi del male da cui sbocciò la creatura mostruosa del nazismo in Germania, come tragicamente previsto da Keynes ne “Le conseguenze economiche della pace” del 1919. La gestione della vittoria riportata nella Seconda guerra mondiale evitò quell’errore fatale e condusse gli Stati Uniti a inondare di sovvenzioni la gracile economia europea. Ma questo non si produsse per mera lungimiranza degli USA, i quali, fra l’altro, avevano nel frattempo perduto il loro Presidente “keynesiano”, F.D. Roosevelt. Ciò si produsse anche e soprattutto per la controspinta geoeconomica provocata dall’espansione dell’Unione sovietica: come sembra abbia affermato il generale americano Clay nel 1947, dopo aver letto il rapporto sulla Germania, «non vi è scelta fra l’essere comunisti con 1.500 calorie giornaliere e il credere nella democrazia con un migliaio.»

Ebbene, allargando lo sguardo all’intero processo che determinò la quarta ondata di espansione del capitalismo nel mondo, senza la minaccia del nemico sovietico, i grandi capitali privati USA difficilmente avrebbero accettato di invadere il mondo di dollari e di accollarsi le non facili conseguenze di una politica economica stabilmente espansiva (Arrighi, p. 360). Si può discutere su quanto quella minaccia fosse stata ingigantita e creata ad arte, o quanto essa fosse reale; sta di fatto che le istituzioni di Bretton Woods funzionarono durante i c.d. “Trenta gloriosi” grazie all’esigenza degli USA, e dei capitalisti occidentali in genere, di contrastare il modello alternativo del socialismo nell’U.R.S.S. La guerra fredda, per quanto angosciosa poteva essere la minaccia del conflitto nucleare, ha coinciso con l’affermarsi delle socialdemocrazie europee e con un certo grado di potere economico delle classi meno abbienti negli stessi USA.

Ma anche dopo la rivincita del capitale e la svolta neoliberista di Reagan, il sistema economico globale ha continuato a reggersi su tendenze espansive dell’economia USA: Reagan, lungi dal ridurre il debito pubblico, lo ha ampliato, ovviamente reindirizzando la spesa pubblica su obiettivi diversi da quelli redistributivi, in particolare verso le spese di guerra.

L’Unione europea esibisce una caratteristica unica, che nessuno Stato con ambizioni e responsabilità geopolitiche potrebbe permettersi: l’obbligo del pareggio di bilancio. A ciò si aggiunge l’unanimità per l’approvazione del bilancio e il divieto per la Banca centrale europea di monetizzare il debito pubblico. Con questi vincoli, gli Stati Uniti, dopo la Seconda guerra mondiale, non avrebbero mai potuto stabilizzare il capitalismo globale e reagire alla sfida del socialismo sovietico.

L’attuale Presidente della Commissione europea ha dichiarato orgogliosamente che l’UE finanzierà per la prima volta l’acquisto e la cessione di armi a un Paese sotto attacco. Come influirà questa voglia di protagonismo militare sul ruolo geopolitico dell’UE? Come potrà la fragilissima architettura fiscale e di bilancio dell’UE supportare simili ambizioni? Quale sarà il ruolo che assumerà la politica monetaria in tutto questo?

Negli USA, i consistenti aumenti di spese militari vengono approvati in modo eccezionalmente bipartisan dal Congresso, anche per il fatto che per tali spese non c’è praticamente bisogno di copertura, visto che si finanziano a debito, con il fiancheggiamento della Fed (Kelton, p. 373s.).

Come troveremo, nell’UE, quello spirito bipartisan, quando a contrapporsi non saranno due grandi partiti uniti da un comune patriottismo, bensì Francia e Germania?

L’inversione di rotta della Germania, tanto nella politica energetica che nella spesa militare, sembra più il coronamento della politica USA tesa – da sempre – a impedire la nascita di un “grande spazio” europeo (per dirla con il Carl Schmitt del Nomos della terra), che non la realizzazione di una politica comune europea (energetica o di difesa comune), mentre è assai dubbio che la Francia voglia “comunitarizzare” l’arma atomica, come a suo tempo volle la comunitarizzazione del marco e della Bundesbank in cambio dell’assenso alla riunificazione tedesca.

Se c’è una tendenza di fondo dell’UE, che accomuna la gestione delle precedenti crisi (economica e pandemica) all’attuale crisi bellica, è forse quella di fare troppo affidamento sulla politica monetaria e sulla BCE, stavolta utilizzata come arma con cui sganciare l’inedita “bomba economica” del congelamento delle riserve estere della banca centrale russa. Un ordigno assai dirompente anche per chi lo sgancia, capace di minare la fiducia nel dollaro e nell’euro, sminuendo l’affidabilità delle banche centrali occidentali e di incoraggiare Cina e Russia ad aggirare l’infrastruttura finanziaria occidentale, nonché a incentivare monete internazionali alternative come il bitcoin (Münchau).

Il ricorso alla più tradizionale arma economica del blocco delle importazioni dallo stato “canaglia” è operazione politicamente assai più delicata, per gli effetti redistributivi sperequati che essa produce tra gli Stati membri dell’UE. Se le sanzioni economiche del blocco delle importazioni energetiche dalla Russia venisse concordato unitariamente dall’UE, quali sarebbero gli strumenti di compensazione interna in grado di evitare che solo le imprese e i cittadini di alcuni Stati europei paghino il prezzo di tale scelta comune?

La guerra in Ucraina ha esaltato le contraddizioni interne all’UE anche su un altro fronte della politica estera, o “esterna”, dell’UE: emblematica l’iniziativa unilaterale dei tre capi di governo (di Polonia, Repubblica ceca e Slovenia) che hanno provocatoriamente fatto visita al governo ucraino (il Presidente polacco, il Primo Ministro sloveno e quello slovacco), facendo correre elevati rischi di escalation anche agli altri Stati membri.

Ma altrettanto contraddittoria è l’incredibile prova di solidarietà della Polonia nell’accoglienza dei profughi di guerra ucraini, in chiaroscuro con il trattamento disumano riservato ai profughi non bianchi né cristiani lasciati al gelo nelle foreste al confine con la Bielorussia: accanto all’esaltazione della solidarietà si consuma la violazione dell’“europeissimo” principio di non discriminazione!

La contraddizione più grave, però, risiede nella promessa dell’adesione dell’Ucraina all’UE (Spinelli). Ancora una volta, come già accaduto negli allargamenti dell’inizio degli anni 2000, si scommette sulla futura “occidentalizzazione” di un Paese le cui credenziali democratiche sono ancora fragili, per usare un eufemismo, silenziando la perdurante crisi in corso con le “democrazie illiberali” di Polonia e Ungheria. Il TUE consente l’entrata di uno Stato candidato che ha superato le “prove di democrazia liberale”, ma con la regola dell’unanimità richiesta dal suo art. 7, rende pressoché impossibile la “neutralizzazione” dello Stato che si trasformi in democrazia illiberale o peggio. Se proprio si vuol compiere questo passo, occorrerebbe proporre la contestuale modifica delle procedure di accertamento e sanzione degli Stati membri responsabili “di una violazione grave e persistente […] dei valori di cui all’articolo 2» (art. 7.2 TUE), sostituendo l’unanimità con la maggioranza qualificata.

Anche a ipotizzare la praticabilità di un simile passo, e sperando in una rapida “(ri)conversione” di Polonia e Ungheria ai valori europei iscritti nell’art. 2 TUE – in primis, l’indipendenza della magistratura –, non sembra concepibile una politica estera e di difesa dell’UE davvero autonoma dalla NATO, con un blocco di Stati membri dell’Est Europa così nutrito. Il problema, dunque, non è l’assimilazione di questi ultimi, bensì quello della fattibilità di una cooperazione rafforzata tra gli Stati “già assimilati” ai valori dell’art. 2 TUE. Peccato che per autorizzare la cooperazione rafforzata occorra l’unanimità degli Stati membri, compresi quelli dell’Est Europa, i quali dovrebbero consentire alla nascita di una politica di difesa comune non solo senza di loro, ma anche, eventualmente, contraria alle proprie aspirazioni difensive.

Dunque, alla domanda “L’Europa è veramente tornata?” è assai difficile rispondere.

Quello che, però, sembra sicuramente cambiato è lo spirito di fondo dell’impresa europea, in cui, dopo la precoce abiura della Comunità europea di difesa nel 1954, la narrativa è sempre stata volta all’elusione della sovranità e dei concetti legati allo Stato (Cantaro), sia pure in versione federale. Un dato su tutti: il territorio. I Trattati europei riferiscono il territorio sempre agli Stati membri (o ai paesi terzi), tranne nel caso marginale dell’art. 153.1.lett. g), del TFUE, in cui si parla di «condizioni di impiego dei cittadini dei paesi terzi che soggiornano legalmente nel territorio dell’Unione». A essere esaltato, nei Trattati, è invece quel concetto postmoderno di «spazio di libertà, sicurezza e giustizia senza frontiere interne» (art. 3.2 TUE; art. 67.1 TFUE: Supiot).

Ma agli ucraini in fuga dalla guerra non interessa uno spazio aperto alla competizione e al mercato, bensì un territorio i cui confini siano tanto netti quanto ben presidiati.

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