Una nuova forma di economia di guerra
Proprio nel momento in cui si registravano sia pur timidi segnali di ripresa, dopo l’incubo della pandemia, è deflagrata la guerra in Ucraina: una “guerra per procura” alla quale l’Unione partecipa per “cieco” rispetto del vincolo atlantico anche contro il suo interesse strategico.
Lo scenario che si profila forse non è ancora pienamente equiparabile ad un’“economia di guerra”, se si assume un’interpretazione letterale di questa espressione come conversione dell’intero sistema economico-produttivo alle necessità prioritarie di una guerra. Ma è lecito usare questo sintagma per alludere all’insieme dei fenomeni, inflazione strutturale, recessione (e spettro della stagflazione), razionamento energetico, crollo produttivo ed occupazionale, la cui portata, complessivamente considerata, richiama alla mente la situazione di un paese in guerra.
Le immense sfide sottese all’ “economia di guerra”, a cui si aggiunge negli ultimi giorni anche l’esigenza di organizzare un’accoglienza “decorosa” dei migranti in fuga dalla fame (come si converrebbe a chi si erge a campione dei diritti umani), richiederebbero una capacità fiscale che trascende le possibilità offerte dalle fonti ordinarie dei bilanci nazionali.
Il discorso in merito a possibili forme d’indebitamento comune si è, fin ora, “incagliato” nella contrapposizione tra la proposta avanzata dagli Stati del sud Europa di incorporare nei trattati la strumentazione innovativa del programma NGEU e l’opposizione degli Stati “frugali” del nord per i quali tale programma è eccezionale e irripetibile. Nella stessa direzione muovono altre innovative proposte, quali quella di istituire un’Agenzia europea del debito che dovrebbe assorbire progressivamente i debiti nazionali, in modo tale da garantire agli Stati membri un maggiore spazio fiscale per finanziare politiche infrastrutturali di crescita o quella, ancora più radicale, della “cancellazione” dei debiti nazionali (o di parte di essi).
Il “convitato di pietra” di queste e altre proposte continua ad essere il principio posto alla base di molte vicende del costituzionalismo moderno “no taxation without representation”. È indubbio che se questo principio è assunto, come tende a fare la Germania, nel senso che un debito comune non sarebbe possibile fino a quando le istituzioni sovranazionali non abbiano un grado di legittimazione democratica paragonabile a quella dei governi nazionali, il discorso può essere tranquillamente archiviato, almeno nel prossimo futuro.
L’interrogativo vero da porsi è se possa esserci un qualche elemento identitario, diverso da quelli tradizionali (popolo, Stato, nazione), in grado di legittimare agli occhi dei cittadini europei gli effetti redistributivi tra i bilanci nazionali sottesi alla messa in comune del debito. Sapendo che un’identità collettiva non presuppone necessariamente la comunanza di una lingua, di una religione, di costumi ma può discendere anche da ragioni ideali, culturali, economico-sociali.