Identità nazionale. Un significante vuoto?
L’espressione identità nazionale è una scatola vuota, un significante che può essere riempito di molteplici, opposti, significati. Tuttavia, come tante ‘formule magiche’ (populismo, resilienza, e così via), i significanti vuoti si prestano, proprio in virtù della loro indeterminatezza, ad essere riempiti di significati pregnanti, ‘normativi’, lato sensu costituenti.
Quando? Quando, veicolano una domanda di senso alla quale viene attribuito, a torto o a ragione, un superiore significato.
La domanda alla quale ci riferiamo oggi quando parliamo di identità nazionale è una domanda di appartenenza ad una comunità, la Nazione. Una comunità candidata a coprire le insicurezze e lo smarrimento degli uomini del mondo globalizzato, specie di quelli che si sentono esclusi dai suoi benefici. Gli orfani della belle époque della globalizzazione, da tempo esemplarmente incarnati da quegli americani che al grido di USA USA hanno nuovamente incoronato le scorse settimane Donald Trump capo della nazione americana.
È questo l’auspicio anche di coloro che oggi cantano le “magnifiche e progressive sorti” dell’identità italiana. Un tema, dunque, da prendere sul serio. Ma che per essere preso sul serio sino in fondo esigerebbe che i suoi provinciali ‘apostoli’ giocassero a carte scoperte, rivelando innanzitutto le fonti intellettuali e ideologiche del significante identità nazionale.
E invece no. I neo-apostoli dell’identità italiana si ‘astengono’ dall’indicare persino la fonte internazionale più autorevole, lo scrittore nippoamericano Francis Fukuyama, della riabilitazione del tema dell’identità nazionale. Preferiscono rifugiarsi in citazioni aneddotiche e fuori contesto sul nazional-popolare, tema che andrebbe rimeditato anche alla luce delle perspicue considerazioni di Massimo Baldacci sulla pedagogia gramsciana (https://www.ospiteingrato.unisi.it/wordpress/wp-content/uploads/2021/05/9.4.-BALDACCI-La-scuola-attraverso-Gramsci.pdf.).
Nella bibliografia allegata a Insegnare l’Italia. Una proposta per la scuola dell’obbligo (Morcelliana, 2023), Ernesto Galli della Loggia e Loredana Perla si guardano bene dal citare non solo il globalmente celebre La fine della storia e l’ultimo uomo (Utet, 1922), ma anche i successivi, cruciali, scritti di Fukuyama: Identità (trad. it. Utet, 2019) e Il liberalismo e i suoi oppositori (Utet, 2022).
Una omissione alla quale proveremo a porre parziale rimedio. Senza questo retroterra minimo, si capisce poco del significante identità nazionale, del perché meriti di essere preso sul serio. E poi problematizzato nella sua declinazione generale e criticato in quella specifica di identità italiana di Galli della Loggia e Perla. Perdonali Signore! Non sanno bene di che parlano!
Il rifugio identitario de l’“ultimo uomo”
Già ne La fine della storia, Fukuyama aveva sollevato il tema che l’esaurirsi della dialettica della Guerra fredda avrebbe esasperato il «vuoto morale» della modernità, il nichilismo di nietzschiani “uomini senza petto” che passano la vita nell’incessante ricerca della soddisfazione consumistica. Aveva, insomma, avanzato il sospetto che il ‘paradiso’ dell’ultimo uomo – la società aperta del globalismo liberista – si sarebbe rilevato assai meno ‘paradisiaco’ di quanto annunciato urbi et orbi. Un “inferno” di radicali e incomponibili conflitti, lontano dagli ideali e auspici del liberalismo classico.
Un quarto di secolo dopo Fukuyama prende atto che il suo timore sul carattere tutt’altro che pacificato del globalismo liberista e neoliberale si stava avverando. Prende atto che l’astratto principio di una cittadinanza cosmopolita agita dal mercato stava concretamente cedendo il passo ad una diffusa domanda di appartenenza a gruppi particolari ed esclusivi. Ad una domanda di Identità, come seccamente recita il titolo del suo scritto del 2019, seguito dall’altrettanto eloquente sottotitolo La ricerca della dignità e i nuovi populismi[1].
Questa generalizzata domanda di identità è oggi un presupposto che accomuna trasversalmente discorsi che intellettualmente e politicamente si autorappresentano come alternativi tra loro. Vale la pena riferirne, seguendo nei suoi snodi essenziali il discorso di Francis Fukuyama.
L’estensione planetaria del libero mercato ha aperto – ricorda lo scrittore nippoamericano – straordinarie opportunità per paesi come Cina e India, ma ha nel contempo prodotto uno spaventoso aumento delle diseguaglianze nelle cosiddette democrazie sviluppate. Ciò anche perché, a partire dagli anni novanta, i partiti di sinistra dell’Occidente euroamericano, hanno accettato la logica del mercato globalizzato, senza capire che l’arricchimento prodotto dal globalismo finanziario stava facendo crescere la ricchezza nel suo complesso, ma stava, allo stesso tempo, impoverendo le classi lavoratrici.
. «L’ultimo uomo» è così diventato un «uomo invisibile». Un cittadino amareggiato, stretto tra le élite che non lo vedono più e gli strati ancor più poveri della società nei quali teme di precipitare. Un disagio non solo economico ma anche politico e civile, una perdita complessiva di dignità sociale.
È a questo tornante della storia che l’uomo invisibile – dice Fukuyama – non si accontenta più del pari e universale riconoscimento, dell’eguale valore («isotimia»). E reagisce alla perdita di dignità rivendicando una sua eccezionalità («megalotimia»), una seconda identità con coloro che sente più vicini. Un riconoscimento ai partecipanti ad una certa entità (una presunta identità originaria ed esclusiva) di un valore superiore che rassicura chi vi ‘appartiene’ anche al là della sua sofferente condizione materiale e spirituale.
Una vera e propria “macchina mitologica” che si manifesta in due direzioni. Una di “sinistra” e una di “destra”.
La sinistra occidentale, riconciliata con il capitalismo, ha progressivamente spostato il proprio focus politico sul riconoscimento psicologico di gruppo, su politiche identitarie incentrate su diversità rappresentate come inconciliabili. I neri che si ritengono i soli in grado di comprendere fino in fondo la discriminazione razziale di cui sono stati vittime per secoli. Le donne che si sentono accomunate dall’«esperienza vissuta», non universalizzabile, della soggezione al maschio. E così via, all’infinito.
Sul versante opposto, un identitarismo etnonazionalista in difesa degli interessi dei popoli di fronte agli effetti perversi della globalizzazione. Una nuova destra sociale che cavalca il vuoto prodotto dall’eclissi dei programmi socialdemocratici e che – aggiungo io – non teme più di flirtare con idee maligne quali quella del suprematismo bianco.
L’identità nazionale secondo Francis Fukuyama
Il più recente Il liberalismo e i suoi oppositori è alla ricerca di una ‘terza via’. O meglio, di un punto di conciliazione tra liberalismo classico e destra sociale. Un’urbanizzazione della triade Dio, Patria e Famiglia che fa leva su quella che oggi viene considerata la più ampia identità politica concepibile: l’identità nazionale, un «contratto sociale» per la protezione dei cittadini.
La responsabilità morale individuale difesa dal liberalismo classico è – sostiene Fukuyama – compatibile con «un’ampia gamma di protezioni fornite dallo Stato». Gli Stati nazionali possono e debbono supplire ai beni che il mercato non offre e le loro istituzioni si rivelano in questo compito assai più utili e controllabili di quelle globali.
Per questa ragione è opportuno non negare la rilevanza delle identità.
Per lo scrittore nippoamericano si tratta di muovere dal presupposto che ciascuno di noi ha identità multiple e di favorire sul piano pubblico quelle maggiormente capaci di integrazione. E le nazioni sono la più estesa «cerchia di solidarietà» oggi pensabile, in grado di ispirare istintivamente sentimenti di comunità e fedeltà.
Un’identità nazionale escludente, basata su razza, etnia, tradizione religiosa continua ad essere per Fukuyama incompatibile con il vero liberalismo. Mentre lo sono identità nazionali condivisibili in forma più ampia, basate su tradizioni letterarie, lingua, cibo, sport. Identità nazionali intese come costrutti sociali culturali, come «comunità immaginate» (B. Anderson Comunità immaginate. Origini e fortuna dei nazionalismi, Laterza, 2018).
In questa prospettiva si colloca la proposta di un rafforzamento dell’educazione civica nelle scuole e quella di chiedere a tutti i cittadini un «servizio nazionale» come segno di impegno e sacrificio e strumento di integrazione tra i diversi gruppi culturali.
Una chiara presa di distanza nei confronti della sinistra neoliberale occidentale che in nome dell’autodeterminazione ha dato vita a politiche identitarie basate su razza, etnia, genere, sviluppando una perniciosa forma di «sovranità dell’io» e cataloghi di nuovi diritti sempre più spesso l’un contro gli altri armati.
Una sorta di religione civile, quella di Fukuyama, che rispolvera l’aspra polemica che le filosofie neoconservatrici hanno condotto, a partire dagli anni settanta dello scorso secolo, contro le culture politiche della Nuova sinistra rappresentate come l’esito estremo del moderno nichilismo e come responsabili del declino morale dell’Occidente. E alla quali si contrappongono candidandosi quale nuova avanguardia rivoluzionaria: un’élite machiavelliana avente l’obiettivo di infondere nel popolo una fede comunitaria basata su valori condivisi (G. Borgognone, Il ritorno di Fukuyama: identità nazionale e liberalismo, in “Storia del pensiero politico”, n. 3, 2022).
“Insegnare l’Italia”, la quotidianità come identità
Ad una prima lettura di Insegnare l’Italia si avverte ‘una certa aria di famiglia’ con l’orizzonte intellettuale e ideologico contenuto negli scritti recenti di Fukuyama, a partire dal grido d’allarme per il riemergere di tribalismi anche in società “che ne sembravano immuni” e della necessità di porvi rimedio riabilitando il valore coesivo dell’appartenenza nazionale.
Non c’è motivo per non discuterne. Il punto è che la rivendicazione dell’identità italiana, posta a cappello della proposta, si risolve in larga parte del volumetto in una ossessiva tautologica petizione di principio. L’identità dell’Italia – si ripete sino alla noia – è l’Italia, sono gli italiani. «L’identità italiana non è altro che l’Italia. La sua storia, la sua geografia, la sua lingua e le sue espressioni artistiche, la quotidiana varietà della sua vita e della sua gente».
Come non essere d’accordo? C’è tutto, tutto il passato e tutto il presente. Troppo, come l’hegeliana notte in cui tutte le vacche sono grigie. Niente, cioè, niente che serva – come pure di sfuggita auspica Galli della Loggia – «a educare persone capaci di pensare con la propria testa».
Non è con la lista della spesa che si definisce una identità. Con la lista della spesa si fa rifornimento degli alimenti che servono per sopravvivere una settimana. Per fare una pietanza bisogna, invece, selezionare ed elaborare gli ingredienti che la rendano inconfondibile. Che le diano, appunto, una identità.
Un deficit parzialmente giustificabile in un impianto “teorico” come quello di Fukuyama, non in un impianto “pratico”. L’identità nazionale – il genus – come significante vuoto ci può stare; l’identità italiana – la species – che si vuol porre a fondamento della scuola dell’obbligo non può essere solo una scatola vuota.
Dunque, sotto il vestito niente? Non proprio. Un’indicazione di metodo il volumetto, in verità, la contiene. Trasmettere ai nostri adolescenti “tutte le cose” a loro “familiari”, tutte le cose di cui hanno “vivezza immediata”.
. Ho cercato, allora, in una seconda lettura qualcosa che anche solo vagamente somigliasse a una narrazione, formula magica anch’essa ripetutamente evocata. Senza la pretesa di trovarvi un ethos costituzionale, ma almeno qualche pagina compiuta che mantenesse la ripetuta promessa di svelare i tratti della storia d’Italia, della sua geografia, della sua lingua, delle sue espressioni artistiche, della quotidiana varietà della sua vita e della sua gente.
Le esemplificazioni contenute in Insegnare l’Italia hanno accresciuto in me il dubbio che veramente sotto il vestito non ci sia niente.
Una tra le più bizzarre è quella che affida la rivalutazione della storia per l’identità italiana alla tradizione in uso «in moltissimi luoghi d’Italia» di «celebrare la ricorrenza del santo patrono con una festa e con una serie di cerimonie che in genere hanno al centro una processione, secondo un rituale che in genere si ripete sempre lo stesso da un gran numero di anni, spesso da secoli».
Un unicum “frutto della storia”, secondo Galli della Loggia. Così come un unicum idoneo a forgiare l’identità italiana dei nostri ragazzi è “la straordinaria varietà delle cucine locali”, il fatto “che non esiste un posto al mondo dove si mangia dappertutto la pasta come da noi e dove sono presenti le verdure come sulle nostre tavole e sui nostri fornelli”.
Con buona pace della opinabile ma densa religione civile di Francis Fukuyama, qui l’identità e la storia degli italiani è una identità ‘popolana’ e ‘provinciale’. Rispettabilissima e da preservare, per carità. Ma che scuola noiosa e inutile! Così, rileggendo Insegnare l’Italia mi è venuto alla mente quanto dice Alfred Hitchcock in una celeberrima intervista a Francois Truffaut. Non c’è magia in quel cinema che si limiti a narrare la stanca e ripetitiva vita quotidiana.
Lo spettatore a quel punto preferirà restare a casa, in cucina o comodamente seduto in salotto. E invece, a sentire una martellante campagna televisiva di una nota Università telematica, è a questo che si intende ridurre il diritto costituzionale allo studio: un diritto al successo formativo assistito da amorevoli mamme (italianissime, naturalmente) che amorevolmente servono la colazione alle loro figlie mentre ascoltano una lezione preregistrata da sconosciuti tutors. Di fama internazionale, si precisa, senza alcun timore di Dio per la spudorata bugia.
“Insegnare l’Italia”, geografie e storie
Ad un certo punto, Galli della Loggia sembra rendersi conto che tradizioni e costumi dell’Italia ‘popolana’ e ‘provinciale’ non esauriscono l’identità italiana. E che se la storia vuole essere – bontà sua – “uno strumento per spiegare la complessità realtà umana” è necessario attingere anche ad altro.
Ed ecco allora spuntare, come una sorta di deus ex machina, la matrice ultima della storia italiana: la geografia.
È la nostra straordinaria posizione – una penisola di passaggio tra Europa orientale e occidentale – che spiegherebbe due fondamentali cose della nostra identità (tanto che l’ineffabile Loredana Petra auspica che nella scuola che da Lei rifondata sia obbligatorio regalare ad ogni bambino un mappamondo).
La prima cosa che la geografia ci insegna è, ohibò! il suo carattere multietnico. La seconda cosa, la vocazione italiana a essere da sempre un centro di transito e di scambio di merci, di idee, di modelli di ogni tipo.
E «sempre poi a un altro aspetto della geografia, alla particolare conformazione dei suoli che favorisce alcune coltivazioni come il grano, la vite, l’ulivo, si deve poi la presenza centrale del vino, dell’olio e del pane nella nostra alimentazione ma non solo: perché a quegli stessi alimenti è associato otre che l’immagine stessa degli italiani qualcosa – ci risiamo! – di più profondo che riguarda il loro modo di stare nella quotidianità della vita».
Certo, aggiunge Galli della Loggia, anche la «storia vera e propria» – Roma, il Cristianesimo, secoli di frantumazione geopolitica – hanno pesato «nel ritardo con cui da noi si è formato lo Stato unitario».
Un peso che si sente nella secolare debolezza delle istituzioni pubbliche, nella persistente forza dei legami localistici, corporativi, familiari. È la storia, bellezza! Galli della Loggia non lo dice proprio così, ma questo è l’esito ultimo del suo discorso: teniamoci questa Italia politica e consoliamoci con l’ottima pasta che solo noi sappiamo fare e per la quale siamo ricercati da tutto il mondo. Italiani brava gente! Quegli “Italiani spaghetti e maccheroni” che da ragazzo mi è capitato sentire urlare da arrabbiati turisti tedeschi e che allora contribuì non poco a consolidare la mia scelta di essere un comunista. Un comunista italiano.
“Narrare l’Italia”, l’umiltà al vertice del mondo
Torniamo a cose più serie e attuali. L’odierna vocazione delle destre, non solo italiane, a flirtare con identità ‘popolane’ e ‘provinciali’ e la deriva delle sinistre progressiste, non solo italiane, a declinare la politica in termini di politiche identitarie sono una conseguenza della crisi delle grandi ideologie universalistiche della modernità (liberalismo, socialismo). Una vocazione e una deriva entrambe iscritte nello spirito dei nostri tempi postmoderni.
Dalla politica ufficiale è difficile oggi aspettarsi altro, ma da intellettuali seri e sani sarebbe lecito attendersi di più. Ho già detto del parzialmente autocritico discorso degli ultimi scritti di Fukuyama. Ma anche tra gli intellettuali di casa nostra – pochi in verità – non mancano tentativi di andare oltre una rassegnata e subalterna accettazione dello spirito dei tempi.
A distanza di pochi mesi dall’uscita di Insegnare l’Italia, Luigi Zoja ha pubblicato un denso volume sulla Storia d’Italia che, pur non condivisibile in tutti i suoi passaggi, muove da tutt’altre premesse e va in tutt’altra direzione. Sin dal titolo, Narrare l’Italia. Un autentico, non voluto, documentato e argomentato controcanto del discorso di Ernesto Galli della Loggia e Loredana Perla.
«L’onore acquisito dall’Italia con Rinascimento e Umanesimo è – scrive l’illustre psicoanalista e scrittore – un valore in sé, così alto, disinteressato e poco imperialista, da assegnare al paese un immenso credito».
Cosa intende dire Zoja con questa audace affermazione? Gramsci probabilmente non la sottoscriverebbe nella sua interezza, specie per ciò che concerne l’umanesimo. Ma ciò che importa è che Zoja, come Gramsci, ci dice che l’identità che dobbiamo assumere a modello non è iscritta in tutta la storia d’Italia, in quella imperiale di Roma antica e in quella moderna del debole Stato risorgimentale. Bensì è quella della cultura forte che la pose, come felicemente recita il sottotitolo di Narrare l’Italia, al vertice del mondo. L’Italia che dal Medioevo fino al suo apice, il Rinascimento, ha conosciuto una crescita evidente nel campo della letteratura, delle arti e della ricchezza materiale che ha fatto sì che essa superasse qualunque paese dell’Occidente.
In primo luogo, dunque, la lingua. Il volgare toscano di Dante.
Una lingua che all’inizio del ‘300 esisteva solo in forma parlata dal popolo. E Dante invece di usare la lingua colta, il latino scrive, per raccontare la complessità della condizione dell’uomo – nella lingua del popolo. Per dire che è nell’umile che si nasconde il sublime, così come – Agostino nelle Confessioni – aveva ricordato che il linguaggio delle Sacre Scritture, rozzo rispetto ai classici, è una scelta voluta, tutt’altro che casuale.
Con la Commedia in volgare (non la Tragedia, forma di scrittura alta), l’uomo della strada poteva imparare versi e poi recitarli, mettersi alla pari con il principe dei poeti. Non era mai successo prima, era gratis, era democrazia. Democrazia inclusiva. Anche perché nella «Commedia troviamo l’opposto della faziosità di un poema nazionale. Dante parla di tutti i tempi, di tutto il mondo, di tutte le classi sociali, dei malvagi e dei sublimi». E «l’umiltà, che Dante associa all’Italia, non è una caratteristica negativa. Non indica una assenza, ma una qualità umana, non invadente (…) l’uomo sempre capace di dialogo». Un’alternativa al potere arrogante che «procura lacrime, fiamme e macerie», un potere umile che Dante auspicava potesse rilevarsi la principale qualità del Paese.
E saranno gli umili a contribuire direttamente al primato del Paese nel primo Rinascimento, motore del processo di urbanizzazione che farà uscire l’Italia, prima degli altri paesi europei, dal feudalesimo.
I centri che nascono dopo l’anno Mille, e che sino alla prima metà del primo millennio faranno dell’Italia un modello, non sono, infatti, una semplice somma di contadini e signori, ma un agglomerato funzionale nuovo che pone tutti a contatto con tutti. Una proto-democrazia composta di città governata da gente che si aduna in piazza, discute, decide. O quantomeno ricorda ai potenti che essi governano in nome del popolo.
È questa forma sociale a conferire all’Italia un carattere che per secoli l’ha posta al vertice del mondo per cultura, per arte, per benessere. Più ricca di quanto non sia mai stata sino alla vigilia della prima guerra mondiale, per poi diventare alla fine della rovinosa seconda guerra mondiale più povera che nel Cinquecento.
Eppure è proprio dopo la seconda guerra mondiale – ricorda Luigi Zoja – che l’Italia riconquisterà primati assoluti quando gli umili torneranno ad essere i principali protagonisti del processo di modernizzazione. Un cinema, popolato da antieroi, riconosciuto come il migliore al mondo e che affollava di umili le nostre sale. Uno sviluppo basato su manufatti semplici, tipi ideali del disegno industriale perché eleganti e semplici, economici e geniali insieme: frigoriferi e automobili prodotti in larga misura da umili e da umili largamente utilizzati.
Per un patriottismo costituzionale di nuovo tipo
L’importanza dei soggetti umili, una felice particolarità e specificità dell’identità italiana, non è l’unico filo conduttore della nostra storia. E giustamente Zoja nella sua lunga narrazione dedica altrettanta ed eguale attenzione a quel misto di rassegnazione e arroganza che ha caratterizzato il carattere degli italiani nei lunghi periodi in cui non sono stati al vertice del mondo: dalla fine del Cinquecento sino alla fine della seconda guerra mondiale, dalla seconda metà degli anni settanta dello scorso secolo ai nostri giorni.
Questa storia va raccontata nella sua interezza e complessità per non ricadere nel provincialismo nazionalista che ha in passato impregnato libri e programmi di scuola. Chi dimentica il potere degli umili nella storia d’Italia non è semplicemente critico con la declinazione retorica del patriottismo costituzionale sulla quale – mi perdoni Presidente Ciampi – è certamente lecito nutrire delle riserve. Più nel profondo, amputa l’idea di identità nazionale codificata nella Carta degli italiani.
Quando i nostri padri costituenti definirono la nostra identità nazionale sapevano bene che non potevano liberarsi con un tratto di penna delle strutture politiche, amministrative, mentali dell’Italia liberale e fascista.
Ma non fecero un minestrone, non misero a bollire insieme tutta la nostra storia. Polemizzarono aspramente con l’identità passata, guardarono al presente che avevano già cominciato a costruire dopo l’8 settembre del ’43, pensarono al futuro che si accingevano a edificare. Basta leggerlo, scevri da pregiudizi, l’incipit della Carta del 1948.
Art. 1. «L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo che la esercita nei modi e nei limiti previsti dalla Costituzione». Art. 11. «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra le nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo».
Sostantivi, verbi, aggettivi, espressioni che segnano inequivocabilmente una cesura netta con la passata identità italiana, con quella fascista non meno che con quella liberale e risorgimentale. C’è tutta la cosciente e critica rielaborazione della nostra identità nazionale. Tutto quello che non volevamo più essere. Tutto quello che ci apprestavamo a diventare. Dalla Monarchia alla Repubblica. Dalla dittatura alla democrazia. Dalla proprietà privata al lavoro come fondamento di legittimazione sociale dello Stato. Dalla postura bellicista alla postura pacifista nelle relazioni con le altre nazioni. Questa sì una narrazione, e che narrazione!
Una narrazione con cui venivano rielaborati e selezionati gli elementi che si auspicava avrebbero riportato l’Italia al vertice del mondo. Quel programma che in larga misura, sino agli anni Settanta, sia pur in mezzo ad aspre contraddizioni e conflitti, si è realizzato grazie anche grazie al contributo di una scuola divenuta finalmente di massa.
Agli insegnanti e studenti di oggi si propone, invece, di adottare la lettura di Cuore quale testo di educazione civica. Mettendo sotto silenzio che i valori evocati dal libro Cuore – sostanzialmente il trittico Dio, Patria, Famiglia – non hanno affatto contribuito, se non in modo immaginario e illusorio, all’unificazione dell’Italia post-risorgimentale. Né, a maggior ragione, si capisce come Cuore potrebbe oggi parlare a bambini e ad adolescenti alle prese con famiglie e maestri che nemmeno retoricamente assomigliano a quelli dell’Ottocento.
Un grave errore di grammatica pedagogica, se mi è consentito dire. L’indottrinamento purchessia scambiato per egemonia. Più che l’aneddotica gramsciana sul nazional-popolare agli autori di Insegnare l’Italia andrebbe consigliato di ripassare la sferzante previsione marxiana: “la storia si ripete sempre due volte: la prima volta come tragedia, la seconda come farsa”.
[1] Identità ha sullo sfondo la crisi che ha investito, alla fine del ventesimo secolo, il liberalismo classico a causa della declinazione neoliberista che di esso che ha prevalso nella belle époque della globalizzazione. Quel neoliberismo basato sull’estremizzazione della dottrina liberale dell’autonomia che semplifica all’estremo la spiegazione del comportamento umano. Quel neoliberismo per il quale il benessere del consumatore è una priorità assoluta e che lascia morire piccole attività di fronte ai giganti del commercio elettronico. Quel neoliberismo che mitizza l’ordine spontaneo, senza tenere conto che non tutto deriva dal mercato. Quel neoliberismo che guarda alle persone esclusivamente come massimizzatori dell’utilità razionale, senza tener conto che non meno importanti nelle scelte umane sono la ricerca del riconoscimento e i fattori emotivi.