Questa anima ‘pacifista’ è stata quella prevalente nei decenni che precedono il Trattato di Maastricht. Ma lo sarà anche di molti di coloro che contribuirono alla sua firma. L’idea di Jacques Delors era che la maggiore crescita economica derivante dal completamento del mercato unico e dall’unione monetaria avrebbe ulteriormente consolidato la pace. D’altronde, si diceva, l’URSS non era stata sconfitta su di un campo di battaglia. Ma al contrario, economicamente e la Comunità Europea vi aveva contribuito approfondendo la logica dell’integrazione, e non armandosi fino ai denti. Tuttavia, già subito dopo la ratifica di Maastricht l’idea del processo di integrazione economica come veicolo in sé di pace comincia a vacillare. Mentre il continente europeo veniva retoricamente rappresentato come unito e libero, conflitti minori nascono in diverse parti del vecchio Continente. Se la Cecoslovacchia si era divisa pacificamente, la Jugoslavia si era sgretolata in tanti piccoli pezzi macchiandosi di crimini di guerra e pulizia etnica. E gli anni successivi mostravano quanto problematica fosse l’idea di un automatismo tra massimo sviluppo dell’integrazione economica e pace all’interno e all’esterno dei confini dell’Ue.
Cionondimeno, nell’epoca di Maastricht, la guerra, non ha costituito un elemento-cardine della politica degli Stati europei, lasciando spazio solo a tipi residuali e marginali di conflitti armati. Da una parte, guerre civili combattute al di fuori dello spazio centrale del sistema internazionale da fazioni a propria volta marginali delle rispettive società; dall’altra, guerre di polizia condotte dai paesi occidentali nelle aree periferiche, attraverso l’uso di strumenti militari incomparabilmente superiori per capacità tecnologiche e organizzative ai propri nemici. Un terreno che escludeva che l’Europa sarebbe stata coinvolta in una dinamica di ri-militarizzazione e che la sua fondamentale vocazione continuava ad essere quella di una potenza civile, di una “potenza gentile”.