IDEATO E DIRETTO
DA ANTONIO CANTARO
E FEDERICO LOSURDO

IDEATO E DIRETTO DA ANTONIO CANTARO E FEDERICO LOSURDO

L’analisi. Nel tempo della seconda guerra freddo-calda

Naviganti senza bussola, gli improbabili eredi della sinistra italiana hanno prima divorziato dal pacifismo politico e giuridico e poi sposato un inquietante fondamentalismo etico-democratico.

La prima guerra fredda aveva prodotto, a suo modo, un ordine mondiale. La seconda si presenta sotto il segno dell’incertezza, come momento particolarmente intenso del disordine che caratterizza il declino del globalismo e dell’ordine internazionale neoliberali. Oggi a differenza del passato il mondo non è propriamente diviso in due. Molti Stati, lungi dall’essere marginali, sono lontani dai due contendenti della prima guerra fredda ma sono più importanti dei “non allineati” del passato. E questo vale per giganti come Cina e India, ma anche per interi continenti come l’Africa e parti del Medio Oriente. Niente di paragonabile ai monoliti granitici dei due blocchi del passato. Indebolendo la Cina e rafforzando l’alleanza occidentale, gli Usa vogliono mostrare al mondo che la loro egemonia non è in declino. E qui si apre la possibilità tragica di un conflitto aperto tra una potenza discendente e una potenza ascendente. Nel concetto strategico statunitense il baricentro del confronto egemonico è, infatti, ormai da tempo l’Indo-Pacifico, e non più l’Atlantico. La lotta contro la Russia è un fronte importante, ma tutt’altro che l’unico. Il convitato di pietra di ciò che accaduto dal 24 febbraio 2022 continua ad essere la Cina. È la seconda guerra fredda. “Freddo-calda”. E Taiwan potrebbe diventarne uno dei simboli.

Quando il pacifismo era la “seconda potenza mondiale”

All’alba del terzo millennio, il 15 febbraio 2003, si svolge la più grande manifestazione per la pace di tutti i tempi. Le piazze di tutto il mondo sono invase da milioni di manifestanti – 110 in tutto il mondo, 3 a Roma – che, sotto un unico slogan (“Not in my name”), si battono contro la seconda guerra del Golfo. Non riusciranno a fermarla. Tuttavia, per un celebre editoriale del New York Times quella manifestazione segnava la nascita della seconda potenza mondiale del pianeta. L’eccezionale consenso contro la guerra in Iraq ha certamente le sue specifiche caratteristiche ma si nutre anche della memoria, di una storia di mobilitazioni popolari che attraversa in occidente tutto il secondo dopoguerra. La prima mobilitazione, quella contro gli esperimenti nucleari, tra la metà degli anni ‘50 e l’inizio degli anni ’60. La seconda, quella contro la guerra in Vietnam, tra la fine degli anni ‘60 e l’inizio degli anni ’70. La terza, quella contro la progettazione e l’impiego di una nuova generazione di armi nucleari, tra la fine degli anni ’70 e la metà degli anni ’80. La quarta, quella contro la prima guerra del Golfo, all’inizio degli anni 90. Mobilitazioni di massa, transnazionali, legate a movimenti progressisti (della sinistra, del mondo cristiano) e della società civile (il movimento per i diritti civili, il movimento studentesco, il movimento ambientalista) con cui interloquiscono e da cui sono alimentati (B. Klandermans)
Anche il pacifismo d’inizio nuovo millennio ha i suoi interlocutori sensibili con i quali ‘dialoga’ e dai quali è ‘sostenuto’. Quei movimenti per un’altra globalizzazione (giovanili, sindacali, metropolitani, ecologisti) che si battono contro le istituzioni della globalizzazione neoliberista (WTO, FMI, WB), contro le ingiustizie da questa prodotte in termini di solidarietà, libertà, diseguaglianze. Più, si disse allora, di una semplice contestazione. Quell’insieme di mobilitazioni si svolgono all’insegna di un orizzonte di senso riassunto nell’accattivante formula “un altro mondo è possibile”. Movimenti non solo No global ma New Global che ambiscono a confrontarsi con la dimensione istituzionale in modo conflittuale e costruttivo, immaginando di edificare una nuova società dallo spazio locale a quello globale. E che mettono al centro il tema di uno spazio continentale alternativo all’unilateralismo statunitense, del quale si trova una significativa eco tanto negli appelli di Derrida e Habermas a rifiutare l’eurocentrismo bellicoso e imperialista in nome della costruzione di una opinione pubblica europea, quanto nei variegati filoni del “pensiero critico” attenti a instaurare un dialogo con i movimenti pacifisti (G. Allegri, 2022).

L’auspicio di una superpotenza pacifista europea che avrebbe legittimato la funzione costituente del movimento pacifista si infrange presto di fronte alla decisione del Presidente statunitense Bush di avviare la nuova guerra in Iraq con la cosiddetta Coalizione dei volenterosi. Alla quale, nonostante il veto in seno al Consiglio di sicurezza dell’Onu di Francia e Germania (la vecchia Europa), oltre che di Russia e Cina, aderiscono gran parte dei Paesi fino al 1991 gravitanti nell’orbita sovietica e in via di adesione all’UE e alla NATO (la nuova Europa) che mostrano una netta preferenza in politica estera in favore degli Usa e dell’Alleanza atlantica. La guerra irakena fa in un sol colpo terra bruciata tanto della speranza della vecchia Europa di ergersi a superpotenza pacifista impregnata ai principi del multilateralismo quanto delle ambizioni costituenti del nuovo movimento pacifista a ergersi al rango di seconda potenza mondiale. Non a caso, nel successivo ventennio un lungo sonno avvolge i movimenti per la pace. Nonostante che sempre più numerosi conflitti attraversino il mondo in maniera endemica (la “guerra mondiale a pezzi”). Nonostante la perdurante attualità dei temi del disarmo, delle spese militari e del commercio di armamenti. Che, tuttavia, non riescono a essere oggetto di un’ampia partecipazione popolare e di attenzione da parte di forze politiche di una certa rilevanza (A. Algostino, 2022).

C’era una volta in Italia…

Se il pacifismo politico piange, il pacifismo giuridico non ride. Come testimoniano i preziosi contributi contenuti nel volume curato da Gaetano Azzariti “Il costituzionalismo democratico può sopravvivere alla guerra?” L’inequivoco “ripudio” della guerra contenuto nell’art. 11 della nostra Carta fondamentale (un prius che orienta ancora la postura internazionale e il profilo identitario dell’Italia: C. De Fiores, 2022) e il principio pacifista codificato nell’ordinamento internazionale che il pianeta si era dato alla fine del secondo dopoguerra (l’impegno degli Stati a regolare i loro conflitti mediante negoziati e accordi) sono sempre più frequentemente sottoposti a “interpretazioni” che ne relativizzano il valore al fine di subordinarli alle logiche di potenza. Un capovolgimento delle finalità perseguite dal pacifismo giuridico. Da tempo le operazioni di intervento armato vengono rappresentate e qualificate come prassi ordinaria di risoluzione delle controversie internazionali.

Le ragioni della messa all’angolo del pacifismo giuridico sono analoghe a quelle del pacifismo politico. La normatività dei principi costituzionali si fonda sulla diffusa convinzione sociale che essi costituiscano un indispensabile tassello di un programma etico-politico fondamentale, di un progetto di umanizzazione e civilizzazione che va da ogni generazione inverato nella prassi. Ma è proprio la ‘giustezza’ di questa convinzione ad essere diventata problematica. Sostituita da un nuovo senso comune che giustifica il ricorso alla guerra con “considerazioni storiche” sul mutato contesto e con “argomentazioni di principio”, con verità morali globali. Presunto realismo versus presunto utopismo pacifista. Un orientamento diffuso tra i media, presente anche in parte della cultura giuridico-filosofica e propagandato con stucchevole enfasi dagli “eredi” di quella sinistra che aveva a lungo interloquito con le ragioni universalistiche del pacifismo.

La vicenda italiana è emblematica. In Assemblea costituente Togliatti perora la necessità di mettere definitivamente la guerra “fuori legge”, fuori dalla storia (P. Togliatti, 2014). Il mondo comunista si contrappone allora al mondo occidentale, che si presentava come “mondo della libertà”, come “mondo della pace” La pace come valore primario, elemento di divisione e di contrasto e, allo stesso tempo, tema centrale dell’agenda politica. Tanto da obbligare presto i governi occidentali a prendere in seria considerazione le preoccupazioni dell’opinione pubblica sull’arma atomica, a esaminare l’ipotesi di campagne volte a informare i cittadini delle politiche di sicurezza nucleare, a contrastare gli slogan sovietici contro la bomba con campagne positive, come quella americana degli “Atoms for peace” del 1953. Il Partito comunista riesce a fare della lotta per la pace una delle armi della sua sfida politica facendo leva tanto sulla diffusa atmosfera di rifiuto della guerra e del militarismo provocata dal fallimento dell’ideologia nazionalista e bellicista del fascismo quanto sui timori del Paese di essere esposto più di altri, dal punto di vista geopolitico, ad un conflitto (R. Moro, 2012).

Lo stesso nome che comunisti e socialisti scelgono per il loro movimento, Partigiani della pace, evoca, collegandosi all’esperienza resistenziale, una forma concreta e ravvicinata di lotta contro il partito della terza guerra mondiale (“contro il Patto Atlantico”, dice nel 1949 Pietro Nenni). Vengono avviate campagne di raccolta di migliaia di firme, pubblicati i racconti dei testimoni oculari di Hiroshima e Nagasaki, rese note previsioni dettagliate di ciò che poteva accadere alle città se sottoposte a bombardamento atomico, amplificate le prese di posizione delle chiese cristiane contro la guerra, promosse visioni di film per la pace, organizzate mostre d’arte e fotografiche, rappresentazioni teatrali. Utilizzando un linguaggio semplice e diretto, il pacifismo della sinistra dimostra sin dallo scoppio della guerra in Corea di saper intercettare ansie, bisogni e speranze presenti in vaste masse, di saper scompaginare i rigidi schieramenti della Guerra fredda, di fare breccia nel fronte avversario. Le forze cattoliche,‘ontologicamente’ sensibili alla questione della pace, sono costrette a prendere atto che i comunisti stavano riuscendo con armi terrene ad “agitare le coscienze” assai più di “una vaga predicazione moraleggiante” e che era, pertanto, necessario rispondere alla “propaganda comunista” in termini di idee e di simboli (l’olivo grigio contro la mimosa gialla, la colomba biblica contro quella di Picasso). In una prima fase, solo una minoranza di avanguardia accetta il dialogo, ma ben presto la “pressione comunista” sull’illegittimità della guerra costringe prima la sinistra dossettiana a porre l’esigenza di rivedere la posizione cattolica sulla guerra e poi la dirigenza democristiana ad accedere, insieme ai socialisti, ad una interpretazione più difensiva del Patto Atlantico e ad appoggiare tutte le iniziative dirette a riavvicinare Est ed Ovest. La sfida comunista aveva indotto la cultura e il partito cattolico a considerare la pace una questione non solo etica ma l’oggetto di un conflitto politico, ideologico, “religioso” tra due visioni del mondo, contribuendo a radicare ulteriormente il tema a livello popolare e a desacralizzare una antica, mistica, percezione della guerra (R. Moro, 2012).

L’inverno nucleare

Il pacifismo dei successivi decenni è l’erede di questa de-sacralizzazione della guerra. A lungo esso riesce ad argomentare che nel momento in cui diventa tecnicamente possibile una guerra assoluta e totale, che tutto uccide e distrugge, viene meno radicalmente la capacità della guerra di dare senso, di offrire, a suo modo, un orizzonte (l’illusoria poetica e metafisica di poter vincere la morte, di poterla uccidere). Di fronte alla prospettiva dell’autodistruzione nucleare del genere umano, il pacifismo italiano, malgrado il declino dell’URSS, continua ad essere moralmente autorevole e politicamente in campo, capace di condizionare l’agenda dei poteri forti dell’economia e degli Stati tentati di usare l’amore per la guerra ai fini dell’accrescimento della propria potenza. Un pacifismo ancora divisivo ma ancora in grado di mostrare che la guerra lungi dal rimuovere l’angoscia della morte stava diventando, semmai, un suo moltiplicatore.

Un pacifismo persuasivo nel denunciare i rischi di un’incombente distruzione globale, magari non voluta, probabilmente casuale, un incidente tecnico, un computer che va in tilt. Un pacifismo in guerra contro la guerra che conquistava all’impegno giovani e intellettuali di ogni Paese. Sono uno scrittore, scrive Alberto Moravia nel volume postumo L’inverno nucleare del 1986 e mi è sembrato naturale servirmi della scrittura per combattere una guerra di liberazione dalla guerra. Eletto nel 1984 parlamentare europeo (indipendente nelle liste del PCI), si batte contro l’atomica, sottolineando come alla minaccia nucleare si accompagni quella ecologica. «La fine della Terra è già cominciata», scrive in un articolo del suo Diario europeo, uscito il 9 settembre del 1984 sulle colonne di quel Corriere della sera, oggi campione di un atlantismo cieco, senza qualità, senza memoria di ciò che di “nobile” ha, a suo modo, storicamente rappresentato. Un atlantismo che ha rimosso la sua originaria natura di alleanza difensiva e dimenticato quanto scritto nella lapide dei martiri della bomba sganciata a Hiroshima: «Riposate in pace perché non ripeteremo l’errore».

Fondamentalismo etico-democratico

Nel corso della guerra in corso questo capovolgimento di senso intorno al significato della guerra ha raggiunto il suo apice. Da parte russa, da parte ucraina, da parte occidentale. A vacillare è il presupposto che l’unica posizione moralmente seria (M. Dogliani, 2022) non potesse essere che quella politica, altamente politica, per cui le guerre, se si vuole essere fedeli al dovere giuridico-costituzionale di perseguire la giustizia tra le Nazioni, vanno ripudiate e fermate il più presto possibile. Questo presupposto ha vacillato e continua a vacillare. L’origine autentica della guerra, lo scontro tra potenze antagoniste, è stata occultata a vantaggio di una rappresentazione di essa come l’esito di un irriducibile conflitto il Male e il Bene. Nel lessico di Putin tra nazificazione e de-nazificazione, tra purezza dei valori sacri della tradizione e i valori degenerati di un Occidente corrotto. Nel lessico ucraino-occidentale, tra democrazie e autocrazie, tra liberalismo e regimi illiberali. Entrambi i lessici fautori di una morale globale senza politica, fautori dell’esistenza di un unico “dentro” che dipinge i nemici come criminali. E come complici coloro che provano a ragionare sulle origini della guerra. In un profluvio di rappresentazioni denigratorie e caricaturali sul pacifismo, sempre e in ogni caso dipinto come cinico.

Pacifismo da portafoglio, quello di coloro che osano avanzare riserve sulla ragionevolezza ed efficacia dell’invio di armi all’Ucraina. Pacifismo a senso unico, quello dell’antiamericanismo per principio che non sottolinea mai abbastanza il ruolo bellicoso della Russia in Afghanistan, Siria, Cecenia, Georgia, Crimea e adesso Ucraina. Pacifismo dell’indifferenza e della viltà, quello di coloro che dimenticano che le vittime vanno sempre e comunque soccorse. Pacifismo senza memoria, quello di coloro che hanno rimosso le guerre di resistenza al nazifascismo e di liberazione nazionale “senza mai piegarsi alla brutale legge del più forte” (R. Braidotti, 2022). Rappresentazioni in larga misura caricaturali alle quali è, tuttavia, sbagliato rispondere con rappresentazioni caricaturali di segno opposto. È necessario, invece, interrogarsi sulla natura divisiva, ancora oggi, dell’evento guerra. L’operazione militare speciale di Putin e la resistenza Ucraina hanno prodotto lacerazioni profonde persino nei rapporti con persone con le quali abbiamo sempre pensato di condividere un inscalfibile sentire comune, una comunanza di giudizio, di sentimenti. Uno smarrimento sul quale il pacifismo deve interrogarsi, se vuol essere all’altezza dei tempi.

In guerra si tratta di uccidere

Quali sono le ragioni di questo smarrimento? Ci sono ragioni generali che attengono ad ogni guerra e ragioni che attengono a questa specifica guerra. La prima ragione di ordine generale per cui ogni guerra è profondamente divisiva è che la guerra ci appare come un evento presente in tutte le epoche, un fenomeno trans storico. E, di conseguenza, divaricate e divaricanti sono le interpretazioni di essa nella misura in cui prendono il sopravvento giudizi aprioristici sull’eterna vocazione bellicista del potere, per alcuni benefica (“se vuoi la pace prepara la guerra”), e la contrapposta e radicale condanna di coloro che postulano la naturale vocazione pacifica degli uomini non corrotti dalla brama di potenza. Teorie della guerra giusta versus teorie della pace. Una guerra dei valori che alimenta quella combattuta nei campi di battaglia e che non ha mai contribuito a far vincere nessuna guerra e nessuna pace. C’è una essenza della guerra rimossa da generali, filosofi, studiosi di relazioni internazionali. Una essenza che la grande letteratura ha condensato in tre semplici e fulminanti parole. “In guerra si tratta di uccidere”, ha detto Elias Canetti. Le parole più oneste e risolutive mai dette sull’argomento, ha aggiunto Luigi Alfieri in un libro del 2012, La stanchezza di Marte. “In guerra si tratta di uccidere” significa, innanzitutto, che c’è un abisso incolmabile tra la guerra come esperienza concreta, estrema ed ultima, di uomini, donne e bambini e qualsiasi possibile teoria della guerra.

“In guerra si tratta di uccidere” significa che tutte le teorie della guerra non sono mai innocenti riguardo all’evento guerra e sono sempre complici dei suoi periodici scatenamenti. E questo vale tanto per i tre famigerati, ma poco letti, discorsi di Putin del 2021 e del 2022 quanto per i documenti licenziati dalla Nato a Madrid lo scorso mese di giugno. “In guerra si tratta di uccidere”. Una prosa diretta, essenziale, senza fronzoli che Fabrizio De André ha reso in versi e musica in quell’insuperato componimento letterario che è la Guerra di Piero. Scritta nel 1964 e diventata subito un inno antimilitarista, la ballata dell’”antieroe” cantata dagli obiettori di coscienza. La guerra vista da un soldato che non perde la sua umanità; che non riesce a sparare a un soldato con “la divisa di un altro colore” per il quale prova compassione e pietà. Un gesto, una “premura”, che a Piero costa la vita. L’altro non gli “ricambia la cortesia” e gli spara, uccidendolo. Nel campo di battaglia la cortesia e la politica – la complessa arte del conflitto e della mediazione – sono bandite. Nel campo di battaglia, non c’è possibile messa in forma del conflitto. Il conflitto è ontologicamente distruttivo. Mors tua, vita mea.

La compassione e la pietà di Piero ci commuovono. Tutti coltiviamo buoni sentimenti quando ascoltiamo al teatro o nel nostro salotto buona musica e parole toccanti. Ma c’è veramente meno umanità nel “soldato con una divisa di un altro colore” che non ricambia a Piero la cortesia? No, niente affatto. Piero e il soldato con la divisa di un altro colore sono entrambi di fronte a scelte tragiche. Non possiamo, non dobbiamo, rimuovere questa primordiale e cruciale sfida politico-esistenziale. Quando siamo di fronte a questo livello essenziale dell’evento guerra, anche la risposta del pacifismo assoluto e integrale è, al pari delle risposte apprestate da tutte le teorie della guerra giusta, elusiva. Dobbiamo scrivere in tutte le costituzioni del mondo, nella Carta delle Nazioni Unite, che la guerra va bandita per sempre dalla faccia della terra, ma non abbiamo alcun titolo morale per tacciare di disumanità nessun soldato – russo o ucraino che siano – che per mettere in salvo la propria vita sacrifica quella di un altro soldato.

Sostiene Luigi Alfieri- ed io concordo – di sentire odore di banalità quando il pacifismo pensa di cancellare con un tratto di penna l’orrore della morte prodotta in guerra. Così la consapevolezza morale dell’orrore viene ridotta a semplicismo moralistico, a qualunquismo sentimentalistico: siamo tutti cattivi, violenti, portatori di “aggressività”, manipolati e ingannati dal potere. No, così non si capisce più niente. Così non riusciamo a vedere quello che di drammaticamente grande c’è nella guerra. La capacità del più inerme perché più consapevole tra tutti gli esseri viventi di trasformare l’oggetto onnipresente e ossessivo del suo continuo terrore, la morte, nel più potente e seduttivo oggetto di desiderio. E quest’illusione, poetica e metafisica, rende più di ogni altra la misura abissale della condizione umana, mostrando che l’uomo, con la guerra, può essere all’altezza della propria tragedia. Ancor oggi quando sentiamo i “resistenti” ucraini, quelli autentici, gridare a sé stessi “libertà o morte”. E, guardando i loro volti, non dubitiamo di questo orizzonte che anima il loro eroismo. Come non dubitavamo ieri di tutte le guerre fatte in epoca moderna in nome di quello stesso grido. Da quelle anticoloniali a quelle di liberazione dal nazismo.

Prima e seconda guerra fredda, analogie e differenze

Lo scarto tra la mistica della guerra e il desiderio di pace non va rimosso, ma messo a tema. È necessario adoperarsi in tutti i modi per accorciare questo scarto, per far sì che non diventi un abisso incolmabile. Capire le ragioni di entrambi questi due opposti sentimenti. Questa è la prima e fondamentale bussola che abbiamo smarrito e ritrovarla è tutt’altro che facile. Ma non impossibile. Nei primi decenni del secondo dopoguerra, il conflitto tra guerra e pace è stato dialettizzato e messo in forma dal pacifismo (da quello italiano, ma non solo). Ciò è stato possibile anche grazie ad una postura bellicista dei due principali protagonisti della guerra fredda che avevano nel loro Dna anche le ragioni della pace e della giustizia delle nazioni. Una storia dimenticata, quanto mai istruttiva.

Lo scorso 17 maggio, nel Gran Anfiteatro della Sorbona si è svolto un Colloquium sulla guerra in Ucraina. Una delle cose più interessanti l’ha detta nell’incipit del suo intervento Georges-Henri Soutou, storico delle relazioni internazionali: “questo non è un ritorno alla Guerra Fredda”. E aggiungo: ahimè!”. Non ha detto altro, ma avrebbe potuto aggiungere: “ahimè per l’Europa!”. La mia deduzione è lo sviluppo della sua principale affermazione: “Non siamo assistendo ad un semplice ritorno alla Guerra Fredda”. Siamo di fronte ad una seconda guerra fredda, come poche settimane dopo l’avrebbe definita Carlo Galli (C. Galli, 12 luglio). Una seconda guerra fredda che condivide tratti di rilevante analogia con la prima, ma anche cruciali differenze che stanno pesantemente penalizzando il Vecchio continente.

La prima analogia è che anche la guerra in atto si presenta come uno scontro tra blocco eurasiatico e blocco atlantico, un scontro dipinto con tinte fortemente fondamentalistiche. Il sano mondo slavo-ortodosso contro il decadente occidente, democrazia liberale contro autocrazia. Ma con una differenza cruciale. La prima guerra fredda si svolge ancora nell’era delle grandi ideologie universaliste aperte con le rivoluzioni americana e francese del 18° secolo. Il liberalismo e il comunismo erano fratelli nemici. Nemici, ma con certi legami storici e filosofici. Le ideologie erano allora una garanzia di prudenza. Dato che la vittoria del comunismo era scientificamente provata e, dunque, inevitabile, si poteva essere pazienti perché, in ogni caso, alla fine il comunismo avrebbe prevalso. Annota Henri Soutou: Stalin era davvero iper cauto. Krusciov viene licenziato per il suo avventurismo nella crisi cubana del 1962. Putin, viceversa, è un uomo di fretta, decide da solo. I leader sovietici decidevano collettivamente e associavano i partiti fratelli delle democrazie popolari. L’intervento in Ungheria nel ‘56 è oggetto di acceso dibattito all’interno del Politburo, come quello in Cecoslovacchia nel ’68, in Afghanistan nel ’79, in Polonia nel 1980.

Geopolitica, economia politica, ideologia politica avevano ciascuna – annota Carlo Galli – una doppia dimensione. Fu il confronto imperturbabile, bloccato, ma in un certo senso equilibrato, di due universalismi progressisti, che vedevano ciascuno nel proprio nemico un concorrente nell’impresa umanistica di razionalizzare il mondo, di costruire giustizia, pace e prosperità. La Prima Guerra Fredda è stata certo combattuta in un clima di angoscia (la minaccia nucleare) e talvolta d’isteria (l’anticomunismo occidentale era forte, l’anticapitalismo era terroristico in altre parti del mondo), ma anche di fiducia nelle risorse di sviluppo sociale che ciascuno dei due mondi si attribuiva. Putin è molto più imprevedibile. Un indecifrabile nazionalismo e uno strumentale anti leninismo hanno preso il posto della coerenza ideologica del comunismo. Mentre noi occidentali nel frattempo abbiamo perso, anche a livello di intelligence, ogni capacità di decifrazione e di decodificazione di quale sia la razionalità che guida oggi la politica russa.

La seconda analogia è che anche la seconda guerra fredda vorrebbe essere un intreccio di ideologia e realismo. Stalin non separava ideologia e geopolitica. Lo stesso facevano gli Stati Uniti e sono i loro interessi concreti, strategici ed economici, che li portano dal 1945 a reagire fermamente ma con prudenza contro Mosca. Con prudenza ancora sino all’inizio dagli anni novanta. Prudenza che viene progressivamente meno quando Washington comincia a pensare che è nel suo interesse una separazione completa tra Russia e Ucraina. È in questo quadro che si capisce la Georgia nel 2008, la Crimea nel 2014. E che si coglie un’altra cruciale differenza della seconda guerra fredda rispetto alla prima. Oggi, e non solo a Washington, alcuni pensano che dovremmo andare fino in fondo e sradicare il tumore: cacciare i russi dal Donbass, dalla Crimea, il regime russo.

In questi mesi autorevoli esperti di geopolitica si sono guadagnati un meritato successo con un volume dal titolo La Russia cambia il mondo. Questo successo sarebbe stato ancor più meritato se fosse stato accompagnato da un sottotitolo che recitava che anche il mondo atlantico/occidentale ha contribuito a cambiare la Russia. E che l’Unione ci ha messo del suo in tempi recenti per un eccesso di furore e sciagurato revisionismo. Basti pensare alla risoluzione del Parlamento Europeo del 19 settembre 2019 che equipara nazismo e comunismo e riscrive la Storia della Seconda guerra mondiale. Una risoluzione che rovescia quelle precedenti dello stesso Parlamento che aveva sino ad allora riconosciuto il contributo decisivo dato dall’URSS alla sconfitta del nazifascismo.

L’Unione forse sopravvivrà. E l’Europa?

Alla luce della postura bellicista con cui le attuali classi dirigenti europee stanno affrontando la guerra in Ucraina non si è, tuttavia, trattato solo di un grave errore di giudizio storico-politico, ma dell’annuncio di una correzione del paradigma con cui anche l’Unione aveva a lungo tematizzato la questione della pace e della guerra. L’ordine di Maastricht è, infatti, giunto a maturazione nell’epoca del dopo guerra fredda (il progetto era, in verità, in cantiere sin dai tempi dello Sme, 1978) e grazie al dopo guerra fredda. Grazie ad un contesto che rendeva plausibile declinare, in primis da parte della Germania, la ‘filosofia’ ordoliberalista della competizione economica come una ‘continuazione’ della politica di potenza con altri mezzi. Con mezzi non bellicisti, pacifici, cooperativi anche nei confronti dell’ex Unione sovietica le cui forniture ai paesi del Vecchio Continente di gas e petrolio hanno costituito sino a ieri il concreto simbolo di un’apertura di credito anche geopolitico e non solo economico. Com’era chiaro alla non a caso dimenticata e sempre più stigmatizzata Angela Merkel.

Ancor più inequivocabilmente, al processo di integrazione europea era stato affidato nei trenta anni precedenti a Maastricht la missione politico-umanistica di porre le basi per impedire lo scoppio di un’altra Guerra Mondiale. All’origine, l’integrazione sovranazionale era stata, invero, lanciata con l’espresso scopo di traghettare i settori industriali di guerra – carbone, acciaio, nucleare – al di fuori della sfera degli Stati nazionali. L’intero processo era stato progettato per limitare rivalità di potere, dispute territoriali, e narrative di esclusività che avevano contribuito allo scoppio della Prima guerra mondiale e alla lunga guerra civile europea conclusasi con la sconfitta in armi del nazismo. È vero, con la firma dei trattati di Roma del 1957 questi obiettivi pacifici non vengono affidati alla esplicita costruzione di una comune identità politica. E, tuttavia, agiscono sotto traccia. Si punta sull’integrazione economica, sulla prosperità derivante dallo sviluppo dei commerci che insieme al benessere economico e sociale derivante dalla costruzione di robusti welfare nazionali costituiscono il veicolo per favorire una cooperazione più integrata tra i governi europei. La comunità europea ha in questa fase il dichiarato scopo di diluire nazionalismo e rivalità di potere, aiutando tutti nel prosperare, sostituendo la logica a somma zero della politica di potenza con quella a somma positiva di un processo decisionale comune. E di relazioni cooperative con i paesi extracomunitari, con l’Africa.

Questa anima ‘pacifista’ è stata quella prevalente nei decenni che precedono il Trattato di Maastricht. Ma lo sarà anche di molti di coloro che contribuirono alla sua firma. L’idea di Jacques Delors era che la maggiore crescita economica derivante dal completamento del mercato unico e dall’unione monetaria avrebbe ulteriormente consolidato la pace. D’altronde, si diceva, l’URSS non era stata sconfitta su di un campo di battaglia. Ma al contrario, economicamente e la Comunità Europea vi aveva contribuito approfondendo la logica dell’integrazione, e non armandosi fino ai denti. Tuttavia, già subito dopo la ratifica di Maastricht l’idea del processo di integrazione economica come veicolo in sé di pace comincia a vacillare. Mentre il continente europeo veniva retoricamente rappresentato come unito e libero, conflitti minori nascono in diverse parti del vecchio Continente. Se la Cecoslovacchia si era divisa pacificamente, la Jugoslavia si era sgretolata in tanti piccoli pezzi macchiandosi di crimini di guerra e pulizia etnica. E gli anni successivi mostravano quanto problematica fosse l’idea di un automatismo tra massimo sviluppo dell’integrazione economica e pace all’interno e all’esterno dei confini dell’Ue.
Cionondimeno, nell’epoca di Maastricht, la guerra, non ha costituito un elemento-cardine della politica degli Stati europei, lasciando spazio solo a tipi residuali e marginali di conflitti armati. Da una parte, guerre civili combattute al di fuori dello spazio centrale del sistema internazionale da fazioni a propria volta marginali delle rispettive società; dall’altra, guerre di polizia condotte dai paesi occidentali nelle aree periferiche, attraverso l’uso di strumenti militari incomparabilmente superiori per capacità tecnologiche e organizzative ai propri nemici. Un terreno che escludeva che l’Europa sarebbe stata coinvolta in una dinamica di ri-militarizzazione e che la sua fondamentale vocazione continuava ad essere quella di una potenza civile, di una “potenza gentile”.

Questa relativa autonomia dell’Unione è diventata sempre più problematica. Nei trent’anni dell’ordine di Maastricht sono maturati nel mondo processi che hanno minato alcuni dei presupposti a fondamento della postura pacifista dell’Unione. Processi di ri-militarizzazione dei rapporti tra gli stati che sono progressivamente diventati anche processi di ri-militarizzazione dei rapporti tra le principali potenze. Una seconda bipolarizzazione del sistema internazionale all’insegna della retorica dello scontro tra democrazie ed autocrazie che ha un suo chiaro antecedente nella guerra globale al terrore. Questa bipolarizzazione ideologica lungamente perseguita nei primi due decenni del XXI secolo dalla potenza statunitense spiazza la vocazione dell’Europa quale potenza civile e con essa la sua deontologia multilaterale nelle relazioni internazionali, la sua flessibilità diplomatica quale strumento privilegiato per la risoluzione dei conflitti. Con l’oggettiva, tutt’altro che innocente, conseguenza di intrappolare il Vecchio continente in una competizione regionale con la Russia e in una globale con la Cina, rendendo ulteriormente problematiche le sue deboli velleità di una autonomia politica e strategica. La seconda guerra fredda sta mettendo la parola fine all’illusione che l’annunciato nuovo ordine internazionale liberale del dopo prima guerra fredda ne avrebbe ulteriormente alimentato i margini. L’attuale guerra in Ucraina è l’apice di una seconda guerra freddo/calda che vuol mettere fuorigioco il progetto di un’occidente europeo alleato ma distinto dall’occidente atlantico. In nome di un altro progetto, un progetto di marca statunitense.

Guerra ucraina e disordine internazionale

I segnali rivolti alla Russia sono parte integrante di questo progetto. All’inizio, sono stati segnali contraddittori. Da un lato, non è mancata nel primo decennio del dopoguerra fredda la suggestione di coinvolgerla in un’architettura comune di sicurezza europea al fine di evitare lo spettro di una “Russia weimeriana”. Ma, dall’altro lato, i successivi allargamenti a Est della Nato, la guerra unilaterale della Nato alla Serbia nel 1999, la ripetuta allusione al possibile ingresso dell’Ucraina nella Nato hanno spinto sempre di più la Russia ai margini di quell’architettura. Ci abbiamo messo del nostro nel cambiare la Russia. Dopo l’adattamento del primo decennio del dopoguerra fredda, culminato nel Concetto strategico del 1999, la Nato ha arrancato per trovare un posto nell’architettura della guerra globale al terrore e ha condiviso con gli Usa il clamoroso fallimento in Afghanistan. Il rilancio dell’alleanza in funzione antirussa è il sigillo finale del tentativo americano, oggi irresponsabilmente condiviso dalle attuali classi dirigenti dell’Unione, di riportare indietro le lancette della storia, a prima dell’89. Una seconda ri-militarizzazione e bipolarizzazione del mondo, che intende riportare al punto di partenza le relazioni tra Occidente e Russia e improntare alla stessa logica quelle con la Cina. Questo c’è scritto nero su bianco nelle risoluzioni del Consiglio Nato di Madrid del giugno 2022.

La retorica unionista si sforza di rappresentare l’attuale ri-militarizzazione del mondo come l’occasione per un inedito e storico protagonismo dell’Europa come potenza geopolitica. Ma la nuova era glaciale, l’assoluta incomunicabilità nelle relazioni internazionali, fa oggi molto più male all’Europa di quanto accaduto nella prima guerra fredda. È la NATO dal punto di vista organizzativo e istituzionale che sta tornando in vita, con gli Usa al timone. La declamata autonomia strategica europea dei mesi precedenti la guerra in Ucraina è un pio desiderio se i Paesi dell’Ue non preservano un potere di valutazione autonoma e si acconciano a diventare i subappaltatori dell’industria della difesa americana.

Il conflitto tra Oriente e Occidente sembra riaffermarsi come un destino, con toni ancora più duri di quelli del passato. Ma le somiglianze sono, ha osservato Carlo Galli, più superficiali che sostanziali. A medio e lungo termine, ma anche a breve dal punto di vista strettamente economico, gli interessi degli Stati Uniti non coincidono più come nella prima guerra fredda con quelli europei. L’invasione dell’Ucraina ha fornito agli anglosassoni un’occasione d’oro per indebolire la Russia con una guerra di logoramento e accerchiamento e tentare di estrometterla dal grande gioco delle potenze mondiali, in cui vorrebbe reintegrarsi. Ha inoltre consentito agli Stati Uniti di esercitare un controllo più stretto sull’Europa, a basso costo politico. Ma l’Europa a medio e lungo termine avrebbe bisogno di un rapporto costruttivo con la Russia, per non essere squilibrata sulla dimensione atlantica e proiettata sul Nord-Est sul piano militare. E razionalmente dovrebbe essere nell’interesse russo continuare ad essere, come in epoca zarista e sovietica una potenza europea. Bruciare i ponti non è nell’interesse né dell’Europa né della Russia. E di questo Putin porta grandemente la responsabilità storico-politica.

Il ritorno del rischio nucleare

È tempo di fare un primo bilancio. La NATO ha interesse ad estendere la sua azione al sistema di alleanze americane in Estremo Oriente. Il che naturalmente finirà presto o tardi per sconcertare i paesi europei, per i quali il compito di presidiare in armi il confine orientale è più che abbastanza. L’”amico americano” potrebbe, insomma, aver sbagliato a lungo termine i suoi calcoli con l’Europa, come tante volte è avvenuto in tante altre parti del mondo negli ultimi decenni. Oggi, ancor più di ieri, l’universo è un pluriverso sempre meno disponibile a piegarsi alla logica della bipolarizzazione a guida statunitense, a subire i suoi diktat. La tentazione di fronte a questo rifiuto di passare dalle minacce più o meno velate ai fatti, dalla minaccia dell’uso dell’arma nucleare al suo uso effettivo, potrebbe diventare una tragica e “realistica” opzione per un Occidente sempre più apertamente contestato dai grandi paesi non occidentali nella sua pretesa di parlare a nome dell’intera comunità internazionale, di dettare la soglia di accesso alla piena appartenenza e i criteri di normalità politica, economica e culturale validi per tutti. Per questa ragione, il rischio di una catastrofe nucleare globale potrebbe presto tornare di drammatica attualità. E se vogliamo farci trovare pronti, è necessario che il movimento pacifista ritrovi quegli interlocutori nelle istituzioni politiche e nella società civile che in passato hanno rappresentato una sponda per le sue mobilitazioni. È nell’interesse dell’intera umanità disporre di un movimento pacifista consapevole della complessità della posta in gioco, dei suoi tempi, dei pericoli a breve e medio breve termine (il rischio nucleare tattico) e di quelli a medio e lungo termine (la catastrofe nucleare globale).

In verità, il rischio nucleare “tattico” esiste già. Anzi è già un piano. L’opzione nucleare – secondo il generale Fabio Mini, già comandante della missione KFOR in Kosovo – non è esclusa e le simulazioni di lanci da Kaliningrad di missili con gittata di 500 km sono test operativi preliminari ad un attacco. L’ammiraglio Charles Richard, comandante delle forze strategiche Usa, di fronte alla Commissione del Senato ha ammesso che siamo di fronte ad “una crisi di deterrenza” mai vista. Se la Russia fosse certa di non scatenare una ritorsione sul proprio territorio “limitandosi” alle armi nucleari tattiche, potrebbe usarle per prima. Non è escluso che nel frattempo gli Usa si siano convinti che l’Ucraina non vale il rischio di un conflitto nucleare che coinvolga i territori Usa. Biden lo ha detto più volte, per quel che vale. E anche gli Usa possono aver ricevuto assicurazioni che l’impiego nucleare tattico non porterebbe all’escalation, purché rimanga in Europa, Russia esclusa. E Putin si è rasserenato, per quel che vale.
La logica dei grandi detentori di armi nucleari si basa sulla mutua deterrenza strategica, tutto il resto è diventato spendibile. La Nato sta cercando di costruire una deterrenza “convenzionale” basata su centinaia di migliaia di uomini e migliaia di sistemi anticarro, antiaerei e antinave a ridosso dei confini russi per dissuadere la Russia dal continuare la guerra in Ucraina. Ma è proprio ciò che paradossalmente rende ancora più probabile e “vantaggiosa” l’opzione nucleare in Europa: maggiore è la massa di truppe e sistemi da colpire maggiore è l’efficacia che ogni testata può produrre. Insomma, non vale la pena usare la deterrenza convenzionale al posto di quella nucleare. La Nato, infatti, conta anche sull’arsenale nucleare tattico di Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti. Perciò, mentre sembra facile eliminare il rischio di guerra globale termonucleare con un semplice “gentlemen agreement” fra Usa e Russia, è praticamente impossibile escludere il rischio di una guerra nucleare tattica in Europa. La Nato non dispone in proprio di ordigni nucleari. Quelli di Francia e Gran Bretagna sono prettamente nazionali e di quelli messi a disposizione dagli Usa con il sistema nuclear sharing è responsabile la sola nazione detentrice. E mentre la Gran Bretagna ha un vincolo d’impiego per i sistemi strategici, per quelli tattici Francia e Gran Bretagna non ne hanno e Londra è sembrata sin qui disposta a portare il conflitto ucraino alle estreme conseguenze. Con o senza la Nato. Per questo non è necessario che la Russia lanci il primo colpo. Ed è un pio desiderio che la Russia stia bluffando e che la deterrenza convenzionale sia sufficiente a dissuaderla. La Russia ha sia la capacità sia la volontà di ricorrere all’opzione nucleare. Non tanto perché con le spalle al muro, ma perché più economica. Lo stesso vale per Usa e Nato. Non perché più economica ma perché più distruttiva e con conseguenze fuori del territorio statunitense.

Che fare?

A questo arduo interrogativo dedicheremo presto una seconda ‘puntata’, a partire da un ulteriore approfondimento e aggiornamento degli eventi più recenti. Che rischiano di rendere sempre più calda la seconda guerra fredda.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

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