IDEATO E DIRETTO
DA ANTONIO CANTARO
E FEDERICO LOSURDO

IDEATO E DIRETTO DA ANTONIO CANTARO E FEDERICO LOSURDO

Non siamo condannati a perdere la sfida produttiva di Fabrizio Barca

Per non recitare la parte in commedia assegnata dagli altri, è necessario ridare un ruolo strategico alle imprese pubbliche e risolvere la strozzatura del trasferimento tecnologico alle piccole e medie imprese.

«Domanda: Già prima che la crisi economica da coronavirus si palesasse, l’Italia rispetto al 2007, aveva perso tra il 20 e il 25% della capacità produttiva manifatturiera. Il tema della creazione di nuovi posti di lavoro, a tempo pieno e indeterminato ed in particolare in quei settori dell’industria che sono “ricchi” sul piano del valore aggiunto e del contenuto tecnologico è assente dall’orizzonte politico delle classi dirigenti nostrane. (…) Il termine “sviluppo” ha osservato Gianpasquale Santomassimo, assumeva nell’accezione defeliciana, “un significato particolarmente ampio che ovviamente va molto al di là del momento economico, ma abbraccia – come è giusto – fattori sociali culturali e civici, anche se non sempre essi si amalgamano in forma armonica”.
Sviluppo – per la sinistra odierna – è invece un termine sostanzialmente impronunciabile, svuotato e risignificato dal trentennio neoliberista, che ha finito per assumere un’accezione regressiva: si è soliti riferirsi allo sviluppo come ad un generico cambiamento che non risponde ai bisogni primari di chi lavora, quanto a quelli delle merci e dei capitali. Nel momento in cui manca un’elaborazione sullo sviluppo e quindi un’esatta cognizione delle opportunità che un paese con le caratteristiche dell’Italia può avere nello scenario globale, come noto, si finisce per recitare la parte in commedia assegnata da altri. In questa prospettiva può leggersi la sostanziale e passiva adesione italiana al manifesto di politica industriale franco-tedesco nel febbraio 2019 e al suo fulcro: la modifica delle regole della concorrenza comunitaria per consentire la nascita dei cosiddetti “campioni europei”, player imprenditoriali che per dimensioni e forza possano competere con Stati Uniti e Cina.

Rimanendo quindi al momento economico, come può convivere la nascita di campioni europei con un tessuto socio-produttivo di piccole e medie imprese come quello nostrano? L’architettura istituzionale europea e il disegno politico del suo principali azionista, in questo quadro, renderanno più periferica e subalterna l’economia italiana? Che opinione ti sei fatto sulle suggestioni relative a una nuova Iri circolate, sulla scorta di questo confronto in materia di concorrenza, anche in Italia?

Risposta: Vado dritto alle domande. Ossia: è inevitabile in Italia, data la sua struttura produttiva, perdere il passo quando la partita competitiva si gioca con grandi player favoriti da scelte politiche pubbliche? No, penso io, ma ci vuole molta testa pubblica. Anche qui guardiamo alla storia. Quando il credo neoliberista predica contro l’idea e le pratiche della programmazione economica pubblica o della politica industriale, non sta dicendo che non deve esservi l’intervento pubblico, ma che esso non deve avere una testa autonoma, che lo stato non deve “disturbare il mercato” con scelte sue proprie. Come abbiamo visto, lo Stato, magari ancora ben grosso, deve adeguarsi agli indirizzi e alle scelte che vengono dal mercato, il che poi nella concretezza del neoliberismo non vuol dire in realtà da un mercato concorrenziale ma da un mercato dove l’impresa è “libera”: libera anche di monopolizzare il mercato stesso. Nei fatti, molti paesi, incluse due potenze come Stati Uniti e Germania, pur adattandosi al nuovo credo, non hanno in realtà mai rinunciato a programmare e sancire missioni strategiche, piani e obiettivi industriali; certo decisamente più influenzati o condizionati di prima dalle grandi corporation, ma sempre declinati da apparati tecnici, da competenze e capacità esistenti dentro lo Stato o comunque nella sfera pubblica. Non così noi.
Noi, che, stanti proprio le caratteristiche della nostra imprenditorialità, avevamo nel dopoguerra affidato gran parte di questa missione alle grandi imprese pubbliche, ai centri di comando e cultura di Iri o Eni, o all’intelligenza del Mediocredito Centrale o di altre istituzioni pubbliche, abbiamo sistematicamente eroso questa capacità, sia privatizzando in modo frettoloso, sia rinunziando a dare missioni strategiche alle imprese che sono restate di nostra collettiva proprietà. La colonna vertebrale della grande impresa in Italia è fatta da imprese pubbliche: demolirle o fiaccarle è stato ed è un atto contro gli interessi nazionali.
Certo, alla scelta delle privatizzazioni concorre fortemente la progressiva degenerazione della conduzione delle imprese pubbliche, che in modo graduale già da fine anni sessanta prendono a svolgere una funzione non di sviluppo ma di compensazione del disagio sociale attraverso assunzioni e investimenti dissennati, al servizio o in collusione col potere politico. Nella Storia del capitalismo, abbiamo dedicato un’attenzione particolare a questo aspetto. Marcello De Cecco era convinto che la degenerazione fosse dovuta all’uscita di scena della leva di grandi manager della prima fase repubblicana. Io ho sempre pensato che la causa vada piuttosto cercata in un cambio di politica della Democrazia Cristiana, in un’interpretazione infelice della lezione keynesiana e nel modo in cui viene risolto, con la creazione del Ministero delle partecipazioni statali, il problema del controllo sull’operato del management pubblico. Ma comunque stiano le cose, è evidente che quella degenerazione poteva e doveva essere affrontata modificando i meccanismi di governance di quelle imprese e non rinunciando al loro ruolo. Specie in un paese dove la grande impresa privata non riesce a svolgere una funzione nazionale.
Il secondo errore italiano, sempre negli anni Novanta, rimanda invece alla perenne oscillazione della cultura della nostra classe dirigente fra esaltazione delle magnifiche sorti della piccola e media impresa e suo svilimento. Dove, invece, è indubbio che, da un lato, è questo il punto di forza potenziale della nostra economia, rispondente alla natura antica di imprenditorialità diffusa dotata di forti capacità di flessibilità e adattamento alla domanda; dall’altro, lo abbiamo anticipato, questo potenziale è fiaccato da un’eccessiva incombenza della famiglia proprietaria, che frena l’emersione di management più giovane e capace e, con il cambiamento avvenuto nella tecnologia, dalla difficoltà di accesso alle novazioni. Quest’ultimo aspetto sta dietro alle attuali difficoltà.
Fino agli anni Settanta è convincimento diffuso e fondato che il modello socio-produttivo italiano sia particolarmente efficace perché disponiamo di imprese piccole distrettuali, che comprando le macchine acquistano quella tecnologia su cui innestano un’organizzazione del lavoro “partecipata”, che sconvolge i crismi e le rigidità del capitalismo anglosassone. Gli imprenditori parlano non soltanto coi lavoratori ma anche tra loro, trasferendo conoscenza, clientela e lavoro. Un amalgama particolare di cooperazione e concorrenza, che entra in crisi nel momento in cui la tecnologia si dematerializza, venendo scorporata dalle macchine. Quando l’Italia aderisce all’accordo Trips non è chiaro alle nostre classi dirigenti che stiamo colpendo il nostro sistema produttivo e che almeno va trovato un rimedio. Come mostrano Ugo Pagano e Alessandra Rossi (2009) l’aumento della protezione della proprietà intellettuale, innalza una barriera elevata per l’accesso delle Piccole medie imprese all’innovazione, non più incorporata nelle macchine. La Germania se ne avvede e dà vita al Fraunhofer, grazie alla quale si opera in modo consorziale per tutte le piccole medie imprese comprando il producendo brevetti per tutte. Nonostante tutto ciò, come si è visto, una parte significativa del sistema delle Pmi, sfidando ogni ricorrente lugubre previsione, innova, esporta con successo e accresce produttività: i nostri progressi nel settore alimentare e la tenuta della forte posizione mondiale nel settore meccanico ne sono segni. E allora? Per la nostra competitività e per non farci mettere al margine, ma anzi partecipare a ogni disegno industriale europeo, ci sono due strade complementari: ridare missioni strategiche alle nostre imprese pubbliche; rafforzare e rendere sistematiche le esperienze esistenti di trasferimento tecnologico dalla ricerca alle nostre Pmi, promuovendo il rinnovamento del loro management. »

[Fabrizio Barca, Disuguaglianze, conflitto, sviluppo. La pandemia, la sinistra e il partito che non c’è. Un dialogo con Fulvio Lorefice, Donzelli, 2021]

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