Vino vecchio in otri nuovi?
Alla luce di questa breve ricostruzione possiamo chiederci se le nuove regole superino effettivamente i limiti riconosciuti di quelle esistenti e, soprattutto, quale tipo di rapporto tra paesi e istituzioni comunitarie esse configurino.
Non c’è dubbio che l’abbandono di un impianto complesso e opaco a favore di un approccio “negoziale” (e quindi potenzialmente adattabile alla complessità delle diverse situazioni) con obiettivi più nitidamente definiti, rappresenti per molti versi un passo avanti. Prima di concludere che si tratti dell’uovo di colombo, capace di superare l’annoso dilemma tra flessibilità e regole, occorre tuttavia dar risposta almeno a due interrogativi.
Il primo riguarda l’aspetto, almeno apparentemente tecnico, dell’individuazione del percorso di riferimento predisposto dalla Commissione, punto di partenza della negoziazione che porta alla formulazione del piano finanziario-strategico di medio termine. Come ben sa chi abbia studiato dal punto di vista strategico i processi negoziali, l’opzione che si applicherebbe in assenza di accordo è quella che definisce la forza contrattuale delle parti. Le modalità con cui la Commissione e il suo apparato tecnico definiranno il percorso di riferimento diventa dunque un aspetto centrale. Nel documento della Commissione si fa riferimento a valutazioni che si baserebbero su pratiche consolidate di valutazione della sostenibilità e del rischio di debito. Tuttavia, non sarebbe la prima volta se pratiche consolidate sul piano tecnico-scientifico si rivelassero inadeguate nel momento in cui diventano riferimento per scelte politiche fondamentali. È stato così anche per l’output gap. Il concetto di sostenibilità del debito e la sua misurazione si appoggiano su stime non meno incerte e scelte metodologiche non meno opinabili.
Il secondo aspetto riguarda l’ingresso delle scelte di investimento e delle riforme “strutturali” come elemento di definizione degli impegni di bilancio nei confronti dell’Unione. Come abbiamo sottolineato, il sistema è concepito in modo che gli stati possano ottenere “sconti” sui propri impegni di riduzione del debito nella misura in cui perseguiranno gli obiettivi strategici europei (a cominciar dalla transizione ecologica e digitale) e seguiranno le indicazioni contenute nelle raccomandazioni “country specific”. Potrà così capitare che interventi in campo pensionistico, nel campo della regolazione del mercato del lavoro o altre riforme “di struttura” diventino elemento di giudizio da parte della commissione nel momento in cui deve dare l’assenso ai piani nazionali. Il potere di controllo delle istituzioni di Bruxelles sui bilanci nazionali, giustificato dalla necessità di evitare gli “spillover” tra paesi che condividono una stessa moneta, rischia di diventare in questo modo un vero e proprio potere di indirizzo sulle politiche economiche nazionali tout court. Si potrebbe rispondere con buona ragione che in fondo, anche in assenza di troika o MES, questa è già da tempo la realtà: l’attuazione delle riforme “strutturali” come condizione per il sostegno ai paesi con debito elevato è qualcosa cui siamo abituati fin dai tempi della crisi dei debiti sovrani e dalla lettera della BCE dell’estate del 2011. Eppure, la prospettiva che tale modello di governance venga sancito in modo così esplicito non può non preoccupare chi, in presenza di una tanto debole accountability democratica delle istituzioni europee, guarda con timore allo svuotamento del ruolo della politica nazionale.