Il prossimo Forum Italia-Africa, in programma a Roma nel mese di ottobre, dovrebbe essere l’occasione per la presentazione del famoso Piano Mattei, più volte annunciato dalla Presidente del Consiglio. Gli organi di informazione (si fa per dire) più impegnati nell’amplificare ogni iniziativa governativa sono piuttosto reticenti al riguardo in questo periodo. Alcuni di loro mostrano addirittura un certo scetticismo (il Foglio). Chi invece non perde occasione per avanzare “costruttivamente” dei suggerimenti alla Meloni è Marco Minniti. Dopo l’intervista a Limes, l’ex ministro dell’interno del governo Gentiloni torna a sollecitare un’iniziativa italiana urgente per il varo di un piano per la “stabilizzazione, la crescita economica e la prosperità dell’Africa”, attraverso la mobilitazione di “risorse importanti e immediatamente utilizzabili”. Che si tratti di un’idea in sintonia con il meloniano Piano Mattei lo riconosce Minniti stesso, osservando compiaciuto come le due visioni “non siano così distanti”. E d’altra parte le motivazioni che sono alla base delle “visioni non-così-distanti” sono effettivamente le stesse: innanzitutto l’emigrazione da mettere sotto controllo; poi la partita geopolitica. L’Europa, infatti, rischia di perdere l’Africa, annuncia con enfasi Minniti, e questo sarebbe addirittura un “disastro per l’equilibrio demografico e la sicurezza del pianeta”. Al confronto il cambiamento climatico è un’inezia.
A chi serve il Piano Mattei
Perché poi l’Africa dovrebbe appartenere all’Europa (e non agli africani, ad esempio) non è detto. Forse per i meriti che gli europei hanno accumulato con la tratta degli schiavi, la colonizzazione, le guerre e lo sfruttamento neocoloniale? Ciò che invece emerge con chiarezza è la preoccupazione per l’allargamento a 11 dei Brics, cioè per il rafforzamento di un polo alternativo al club G7 e al predominio planetario degli Stati Uniti e dei loro alleati. È chiaro che il riequilibrio che si va profilando con l’allargamento dei Brics e la potenziale costruzione di un’area di scambio commerciale e cooperazione de-dollarizzata rappresenta una sfida inedita per l’Occidente. Non è chiaro però perché questa prospettiva dovrebbe rappresentare un rischio per la sicurezza del pianeta. Meno ancora si capisce perché tutto ciò dovrebbe allarmare l’Africa. Visto, tra l’altro, che il formato Brics allargato comprenderebbe tre paesi africani, contro lo zero assoluto del G7. A essere minacciato sarebbe semmai il controllo occidentale ed europeo sul continente africano e i vantaggi economici e strategici che tutto ciò comporta. Tutto il resto – la crescita economica e la prosperità degli africani – sono solo cattiva retorica che copre malamente la riproposizione delle politiche neocoloniali che hanno caratterizzato tutto il periodo che va dal secondo dopoguerra a oggi. Politiche nelle quali hanno avuto un ruolo essenziale le istituzioni europee, oltre naturalmente a quelle internazionali, come il FMI e la World Bank.
Quello che sappiamo dalle anticipazioni sul “piano Mattei” non fa che confermare la tradizionale impostazione eurocentrica delle politiche italiane ed europee in Africa. Infatti, a sentire il governo, già gli accordi siglati con Algeria e Libia rientrano nella cosiddetta “formula Mattei per l’Africa”. Si tratta in effetti di una prosecuzione delle iniziative avviate da Draghi con l’Algeria nell’estate del 2022 per far fronte alla parziale interruzione delle forniture russe in conseguenza della guerra in Ucraina. Anche gli accordi con la Libia sottoscritti da Meloni non fanno che sviluppare un’iniziativa già avviata in precedenza. In questo caso si può partire addirittura dall’accordo italo-libico del 2008, sottoscritto da Berlusconi e Gheddafi. Tale accordo prevedeva l’ampliamento delle forniture di gas e il contenimento dell’immigrazione. In seguito a tale accordo fu avviato un sistema di pattugliamento delle coste libiche per contenere il traffico clandestino di disperati in fuga dai paesi subsahariani, pur non avendo la Libia aderito alla Convenzione sullo status dei rifugiati del 1951. Dopo la guerra del 2011 e l’assassinio di Gheddafi l’Italia si è trovata in una posizione molto più marginale. Nonostante ciò, e nonostante la spaccatura in due del paese nordafricano, in mano a gruppi armati contrapposti e sempre più preda di potenze straniere, l’allora ministro Minniti ha ottenuto la firma di un memorandum che ha affidato alla cosiddetta guardia costiera libica il compito di bloccare il flusso dei migranti via mare. Con le spaventose conseguenze che ciò ha prodotto per le persone intrappolate in Libia. Analogo discorso si può fare per le intese tra il governo italiano e l’Egitto per le forniture di GNL. Anche in questo caso l’attuale governo italiano si inserisce sulla scia dell’iniziativa della Von der Leyen della fine della primavera del 2022. Insomma, l’idea guida del “Piano Mattei” di fare dell’Italia l’“hub del gas dell’Unione Europea” – la stessa formula utilizzata dal Governo Draghi per reclamizzare gli accordi con Algeri del 2022 – non è altro che la riproposizione della medesima linea politica seguita in passato dall’Italia.
Anche l’incontro con la delegazione angolana del maggio scorso è stato comunicato dalle autorità italiane come un ulteriore step del piano Mattei, che sarebbe basato su un “modello di cooperazione non predatorio in cui entrambi i partner devono poter crescere e migliorare creando catene di valore e aiutando le nazioni africane a vivere meglio delle risorse che hanno a loro disposizione”. Secondo questa impostazione, dunque, il Piano Mattei riproporrebbe il tradizionale ruolo di esportatori di materie prime che ai paesi africani è stato assegnato dai progetti di cooperazione finora realizzati. Progetti che proprio basandosi su questa logica e sul principio di reciprocità, hanno finora contribuito a mantenere l’Africa in uno stato di subordinazione economica e politica. Forse il Piano Mattei non è altro che un involucro propagandistico con il quale il Governo vuole di fatto rinominare interventi e finanziamenti europei già avviati dall’Ue. D’altra parte, è piuttosto improbabile che l’Italia possa mettere a disposizione risorse proprie. Mario Monti, con il suo pragmatismo tecnocratico, ha già consigliato al governo di mettere l’Italia in una posizione il più possibile efficace e autorevole nei tanti progetti esistenti, evitando di enfatizzare troppo il suo protagonismo per evitare di rimanere isolata. Anche nell’ipotesi che dietro il nome di Mattei non ci sia altro che l’ennesima operazione furbesca “de noantri”, ciò che conta è la palese continuità tra le logiche coloniali e le pur parziali indicazioni finora emerse, che a loro volta non fanno che riproporre le politiche europee, basate sulle relazioni asimmetriche e le politiche protezionistiche dell’Europa verso i paesi africani e della riva sud del Mediterraneo. Questa continuità è documentata ampiamente dalla ricerca di Gustavo Gozzi.
La costruzione europea e la prosecuzione delle politiche coloniali
“Eredità coloniale e costruzione dell’Europa”, infatti, ha innanzitutto il merito di mostrare come il processo di formazione delle istituzioni europee sia fin dall’inizio legato strettamente al problema delle colonie africane e dei loro rapporti con le potenze europee. Il progetto di costruzione di un’Europa economica fu infatti l’occasione per i francesi per proporre ai loro partner di associare questi territori al nascente Mercato comune, così da condividere l’onere degli investimenti pubblici che la Francia vi sosteneva. Naturalmente i negoziatori francesi motivavano la richiesta di coinvolgimento dei partner europei nella spesa, che avrebbe dovuto superare l’ammontare degli investimenti francesi, con la realizzazione di un grandioso piano di aiuto ai paesi sottosviluppati; Schuman parlò di “un atto politico rivoluzionario a base economica”. Si trattava, però, di argomenti retorici poco persuasivi alle orecchie degli altri europei. Che furono invece molto più sensibili al rischio, acutizzato dalla politica di Nasser e dall’inizio del conflitto algerino, di non riuscire a mantenere i paesi africani “nell’orbita occidentale”. Così il principio dell’associazione dei territori d’oltremare fu accolto e il trattato di Roma, agli articoli da 131 a 136, lo consacra; con l’obiettivo, manco a dirlo, dello sviluppo economico, sociale e culturale di quei territori. Infatti, oltre a Francia, Italia, Lussemburgo, Olanda e Germania, la CEE comprendeva alla sua creazione anche i possedimenti coloniali dei paesi membri. Questa soluzione si inquadrava nel progetto della cosiddetta “Eurafrica”, teorizzato a partire dagli ani Trenta in Francia e poi ripreso dopo la fine della seconda guerra mondiale. Tale dottrina, fondata su una presunta comunità di interessi tra i due continenti, mirava invece a garantire la sopravvivenza geopolitica dell’Europa, grazie allo sfruttamento dei territori e delle risorse africane. Ciò valeva anche dal punto di vista strettamente militare (l’Africa era concepita come retrovia, in caso di conflitto con l’URSS, una sorta di Siberia dell’Europa). Sul piano geopolitico ciò significava contrastare la diffusione del panarabismo e del comunismo. Lo sviluppo dei movimenti indipendentistici venne perciò visto come una minaccia esistenziale per la presenza europea.
Quando gli stati africani conquistarono la loro indipendenza il progetto di “Eurafrica” fu sostituito dai progetti di cooperazione: l’indipendenza di molti Stati africani nel 1960 “indusse l’Europa a ridefinire i propri rapporti con l’Africa, ma senza che gli Stati europei rinunciassero alle proprie politiche di dominio e sfruttamento; e senza che ammettessero le loro responsabilità nel passato coloniale” (p. 217). Gozzi ricostruisce analiticamente questa lunga fase che va dalla Convenzione di Yaoundé (1963) all’accordo di Cotonou del 2000 e i successi incontri preparatori del febbraio e marzo 2020 per il suo rinnovo (il testo del nuovo accordo non è ancora firmato ufficialmente dai soggetti coinvolti).
Le alterne fasi della “cooperazione”
Il primo periodo va dal 1963 al 1975 ed è regolato dagli accordi di Youndé, che superano il sistema di “associazione coercitiva” imposto alle colonie europee con il trattato di Roma del 1957, basandosi su accordi formalmente rispettosi della sovranità da poco conquistata dalle diciotto ex colonie africane. Il sistema di aiuti finanziari previsto da Youndé è affidato all’European Devolopment Fund (EDF), senza che ciò modifichi la strutturale asimmetria economica dei rapporti tra i due continenti. I paesi associati (ACP) infatti rimangono esportatori di raccolti, mentre le esportazioni di prodotti lavorati dei paesi europei crescono molto più delle importazioni. Inoltre, solo il 4% degli investimenti EDF è dedicato al settore industriale. Insomma, già la prima convenzione tra CEE e paesi africani associati ha come effetto il mantenimento di quest’ultimi nella condizione di esportatori di prodotti agricoli e materie prime per le industrie europee. Infatti, il trattato prevede che le proposte di progetti da finanziare da parte dell’EDF non devono “essere in competizione con imprese private e i fondi ricevuti devono essere spesi nella CEE”. (p. 246) Inoltre all’EDF viene espressamente negata la possibilità di agire come attore industriale “ritenendo che solo il settore privato [sia] in grado di operare in ambito industriale”. (p. 247)
L’ingresso della Gran Bretagna nella CEE portò alla prima convenzione di Lomé, a cui seguirono Lomé II (1980), Lomé III (1985) e Lomé IV (1990). Anche in questo caso assistiamo alla prosecuzione di una politica che ripropone e anzi approfondisce l’asimmetria tra Europa e Africa, confermando il tradizionale ruolo di fornitori di prodotti agricoli e materie prime dei paesi ACP. Nel periodo di vigenze delle quattro convenzioni di Lomé, però, si verificò un importante cambiamento: le restrizioni creditizie e l’innalzamento dei tassi di interesse americani provocarono la crisi finanziaria dei paesi del 2° e 3° mondo. (Giovanni Arrighi, Il lungo XX secolo, Saggiatore, pp. 345-356). Di conseguenza, a partire dai primi anni Ottanta si registrò un crescente indebitamento dei paesi africani, che ostacolò ulteriormente il loro sviluppo. Tant’è che Lomé IV previde uno speciale fondo per la realizzazione dei “programmi di aggiustamento strutturale” diretti dal FMI e dalla Banca Mondiale. Le condizioni imposte ai paesi debitori nel quadro di questi programmi di aggiustamento strutturale andavano a realizzare i presupposti del modello neoliberale, nel quale la logica di mercato è l’unica alla quale viene affidato il compito di realizzare lo sviluppo.
Neoliberismo e condizionalità degli aiuti
Anche l’insistenza da parte delle istituzioni finanziarie sulla trasformazione in senso democratico delle istituzioni politiche dei paesi africani e la tutela dei diritti umani rimase associata “con il paradigma neoliberale, che non ha nulla a che vedere con lo scopo umano dello sviluppo e […] accresce in modo estremo la tensione “al loro interno. (p.238) In altre parole, il modello di sviluppo promosso per la lotta alla povertà dal FMI e dalla Banca Mondiale è il modello neoliberale, inevitabilmente in contrasto con la tutela dei diritti umani.
Dopo la convenzione di Lomé IV si è aperto un dibattito su come impostare una nuova partnership, nel corso del quale i rappresentanti dei paesi ACP cercarono di definire una posizione unitaria da presentare all’UE. In particolare, essi denunciarono i meccanismi di protezione dei mercati dei paesi ACP dell’UE e del WTO che favorivano i paesi industrializzati e non soddisfacevano gli interessi degli ACP. Inoltre, pur ribadendo l’impegno per i valori democratici e i diritti umani, rifiutavano di accettare la revoca unilaterale dell’assistenza allo sviluppo nel caso in cui l’Europa ritenesse che questi principi fossero stati violati. Infine, i paesi ACP sottolineavano come il problema della crescente disuguaglianza imponesse un approccio differenziato e flessibile alla liberalizzazione commerciale promossa dal WTO, che le rendesse compatibili con gli obiettivi dello sviluppo. Altrimenti il WTO non sarebbe stato un arbitro sensibile all’equità, ma un bastone di oppressione sempre più nelle mani del più forte. (p. 252). Infine, i paesi ACP ribadirono l’importanza dell’industrializzazione per lo sviluppo economico, sottolineando la necessità di superare questa lacuna presente nelle precedenti convenzioni.
Ma le loro istanze non furono accolte. Al contrario, la convenzione di Cotonou (2000) liberalizzò tutto il commercio, secondo quanto previsto dall’articolo XXIV del Gatt e ristabilì il principio di reciprocità tra prodotti europei e africani. Contemporaneamente l’Europa aumentò l’importanza attribuita al problema della sua sicurezza, a fronte dell’incremento del fenomeno dell’emigrazione, percepito come un rischio per i paesi europei. Sia la Road-map 2014-2017 che il Summit on Migration del 2015 hanno messo come primo obiettivo la sicurezza e solo al terzo e al quarto posto lo sviluppo umano e lo sviluppo sostenibile e inclusivo. Insomma, lo sviluppo dell’Africa è stato posto come condizione della sicurezza e della prosperità europea.
Questa impostazione ha guidato in particolare le missioni di sicurezza e difesa nel Sahel, con l’obiettivo, perseguito anche con la presenza militare nella zona, di esternalizzare i confini meridionali dell’Europa e controllare i flussi migratori.
Anche per ciò che riguarda le politiche euro-mediterranee Gozzi rileva che il modello adottato fu quello delle relazioni asimmetriche che impedì di svilupparsi ai settori produttivi in posizione di vantaggio rispetto alle controparti europee. A ciò vanno aggiunte le misure protezionistiche adottate negli anni Ottanta dalla PAC e gli effetti negativi dell’area del Franco CFA. Questa impostazione venne mantenuta anche nelle incarnazioni delle politiche euro mediterranee successive all’originaria Global Mediterrenan Policy del 1972, tutte fortemente eurocentriche, protezionistiche e basate sulle condizionalità degli aiuti. Di fatto ancora una volta un’impostazione neo-coloniale.