IDEATO E DIRETTO
DA ANTONIO CANTARO
E FEDERICO LOSURDO

IDEATO E DIRETTO DA ANTONIO CANTARO E FEDERICO LOSURDO

Quale giustizia? La sfida è quella delle nuove esclusioni

Mentre la sinistra politica è uno sbiadito ricordo, incombe la tentazione di una sinistra giustizialista. Con scandalo o come ultima speranza, ma senza fondamento. Altre sarebbero le idealità che dovrebbero guidare oggi la magistratura

Non è una novità, ma il portato di alterni umori della politica e di una vicenda storica complessa. Basti guardare all’ultimo mezzo secolo, in cui la politica e il Paese sono cambiati fino ad essere irriconoscibili. Nei primi anni Settanta la sinistra guardava ai magistrati con diffidenza (o con aperta ostilità), fiorivano i manuali di autodifesa per militanti incappati nelle maglie della giustizia e Fabrizio De André cantava “Il giudice”, mentre la magistratura aveva il sostegno incondizionato della destra e delle varie maggioranze silenziose. A fine secolo e nei primi anni del nuovo millennio il quadro sembrava capovolto. La giustizia era tra i pochi temi capaci di mobilitare una sinistra smarrita, divisa e priva di idee e ad attaccare giudici e pubblici ministeri, con un accanimento a dir poco inconsueto, erano la destra e suoi paladini. Oggi, nella stagione della crisi, prevalgono -a destra e a sinistra – diffidenza e insofferenza, mentre l’immedesimazione (per lo più acritica) con giudici e tribunali caratterizza, paradossalmente, la principale forza antisistema (o almeno tale alle sue origini). Si tratta di mutamenti intervenuti non per caso né per bizzarria della storia ma all’esito di una stagione, per molti aspetti straordinaria, di elaborazione culturale, di passione civile, di tensione ideale ma anche di insufficiente attenzione alla cultura delle regole e delle garanzie e, per altro verso, di resistenze sorde e senza risparmio di colpi. Superfluo dire che la domanda resta quella di sempre, formulata sin dal titolo della prima rivista di Magistratura democratica uscita nel gennaio ‘70: quale giustizia?

Quando i giudici erano servi e strumento del potere.

A cosa servono i giudici (e, più in generale, i giuristi)? Gli studiosi non hanno dubbi. Se per il barone R.C. Van Caenegem «è innegabile che i giuristi siano spesso stati servi e strumento del potere, qualunque esso fosse», non meno esplicito è il grande storico del diritto inglese F. Maitland: «I giudici delle corti erano stati i servitori del re […]. Il re era la fonte di ogni giustizia; quelli non erano che i suoi deputati: era quella la teoria fondante del sistema, secondo la tradizione, ed era impossibile rompere con essa». E ad essi faceva eco, negli anni Cinquanta, un magistrato prestato alla letteratura come Dante Troisi che, nel Diario di un giudice (pubblicato nel 1955 per i tipi di Einaudi) scrisse: «Alle nostre spalle e di tutti gli altri giudici ora in funzione c’è il crocefisso e la scritta: “La legge è uguale per tutti”; domani, in luogo del crocefisso potrà esserci un’altra cosa, ma sarà ancora un simbolo del potere che ci proteggerà le spalle. Giacché noi siamo sempre da quella parte». Era questa l’impostazione, per quanto riguarda il nostro Paese, dello Statuto albertino che – concesso da Carlo Alberto nel 1848 – ha accompagnato la storia nazionale fino alla metà del Novecento: basta guardare al suo articolo 68, secondo cui «la giustizia emana dal Re, ed è amministrata in nome suo dai Giudici che Egli istituisce», con conseguente configurazione della giustizia, anche in termini istituzionali, come una semplice manifestazioni del potere regio e dei giudici, appunto, come servitori del re. Del resto, più in generale, il carattere sovrastrutturale del diritto e il ruolo servente suo e dei suoi operatori rispetto al potere economico-sociale è un classico del pensiero politico, di destra e di sinistra. E al modello teorico seguiva, allora, la prassi: nell’Italia liberale (quella descritta dai più come una sorta di “paradiso terrestre” in cui pubblici ministeri e giudici erano apolitici e circondati da generale considerazione) la maggior parte degli alti magistrati era di nomina governativa e frequenti erano i passaggi dall’ordine giudiziario al Parlamento e al Governo, tanto che, fra il 1861 e il 1900, metà dei ministri della giustizia (17 su 34) e dei relativi sottosegretari (11 su 21) proveniva dai ranghi della magistratura. Difficile, in quel contesto, attribuire ai magistrati un ruolo di garanti dei diritti e delle libertà.

La Costituzione del ‘48, una rivoluzione copernicana.

Il quadro è stato peraltro sovvertito, almeno nelle intenzioni, dalla grande stagione delle Costituzioni intervenuta dopo la tragedia della seconda guerra mondiale. Una stagione che ha inciso in maniera profonda anche sul ruolo del diritto e dei suoi interpreti. La nostra Costituzione del 1948 è esplicita. L’art. 3, secondo comma, afferma solennemente che «è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». Il senso della norma è univoco e dirompente: la società è caratterizzata da profonde ingiustizie e compete alle istituzioni (a tutte le istituzioni che costituiscono la Repubblica e, dunque, anche al sistema giudiziario e ai suoi diversi attori) impegnarsi, nel proprio specifico, per farle venir meno. Il diritto – la Carta fondamentale – non si limita a fotografare e salvaguardare l’esistente e i rapporti di forza (come nella sua dimensione classica) ma si pone in modo critico nei loro confronti e affida ai suoi interpreti un compito non esclusivamente conservativo ma anche innovativo (di promozione, appunto, dei diritti e delle libertà). Per raggiungere quel risultato la Costituzione modifica radicalmente gli assetti della magistratura e della giustizia (cioè del luogo finale di accertamento e riconoscimento dei diritti): «la giustizia è amministrata in nome del popolo. / I giudici sono soggetti soltanto alla legge» (art. 101), «la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere» (art. 104, primo comma) e «i magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni» (art. 107, terzo comma). Le differenze rispetto allo Statuto sono evidenti (non solo nell’uso delle maiuscole…). È una rivoluzione copernicana. Nel modello recepito dallo Statuto albertino l’ordine giudiziario era una semplice articolazione della pubblica amministrazione, una sua appendice, al cui vertice era posto il Ministro della giustizia; nella Costituzione repubblicana i magistrati hanno, ciascuno singolarmente considerato, la pienezza del potere giudiziario che è, per così dire, originario e non discende da una delega del sovrano. Con un conseguente «dovere di disobbedienza» ‒ per usare parole di Giuseppe Borré – «a ciò che legge non è: disobbedienza al pasoliniano “palazzo”, disobbedienza ai potentati economici, disobbedienza alla stessa interpretazione degli altri giudici e dunque libertà interpretativa. Quindi pluralismo, quindi, legittima presenza di diverse posizioni culturali e ideali all’interno della magistratura». È, all’evidenza, una collocazione del tutto nuova della magistratura nel sistema istituzionale.

Magistratura democratica, uso alternativo del diritto, Tangentopoli.

Quello che è scritto nella Carta, peraltro, non si realizzò immediatamente. I cambiamenti normativi furono, infatti, inizialmente frustrati dalla mancanza di qualsivoglia rinnovamento personale (l’epurazione dei magistrati compromessi col regime si limitò a 16 su 4.000 e ne restarono immuni personaggi gravemente compromessi con il regime) e l’assetto gerarchico e piramidale continuò a caratterizzare il corpo giudiziario. Anche con la fine degli anni Cinquanta, quando arrivò la stagione dell’attuazione della Costituzione (con l’entrata in funzione della Corte costituzionale e del Consiglio superiore della magistratura), le ricadute sul sistema giustizia furono, inizialmente, limitate, con conseguente permanere, fino agli anni Sessanta, di una politica giudiziaria di segno conservatore, quando non apertamente reazionario, e dell’intangibilità dei santuari della politica. A questa situazione offrì un supporto culturale decisivo il dogma (elaborato dal fascismo) della apoliticità dei giudici, necessario per far apparire naturali atteggiamenti e opzioni altrimenti inaccettabili. La situazione mutò negli anni Sessanta e Settanta grazie ai nuovi fermenti culturali e politici in atto nel Paese, alla modifica in senso ugualitario e antigerarchico dell’assetto di giudici e pubblici ministeri (in particolare con le leggi 25 luglio 1966, n. 570 e 20 dicembre 1973, n. 831) e all’irruzione sulla scena giudiziaria di Magistratura democratica. Ci sono al riguardo alcune tappe fondamentali. Nel 1970 apparve sulla scena del diritto Quale Giustizia, una rivista promossa da Magistratura democratica, che veicolò nel dibattito giuridico la giurisprudenza di merito e la critica ai provvedimenti giudiziari, fino ad allora prive di accesso sulle pubblicazioni giuridiche, riservate essenzialmente alla riproduzione e all’analisi delle sentenze di legittimità. Trovò così voce una nuova cultura che rivendicava un inedito ruolo promozionale del diritto e che coinvolse, insieme ai magistrati, gli avvocati e l’accademia. Fu, poi, nel maggio 1972 che si tenne a Catania l’incontro di studio “L’uso alternativo del diritto”, che riunì i più brillanti giuristi progressisti italiani ed europei dell’epoca i cui interventi vennero tempestivamente raccolti in due volumi dallo stesso titolo, curati da Pietro Barcellona per i tipi di Laterza, rimasti per anni punto di riferimento del dibattito giuridico. E nello stesso anno – segnale di una nuova attenzione della politica ai temi del diritto e della giustizia – nacque, con la prestigiosa presidenza di Umberto Terracini, il Centro Studi e Iniziative per la Riforma dello Stato (inizialmente articolazione del Partito comunista, ma destinato nel tempo a diventare luogo di autonoma elaborazione soprattutto a partire dagli anni Ottanta con la presidenza di Pietro Ingrao). Il tutto in un nuovo clima politico che attraversò, in quegli anni, il Paese, con fermenti e sollecitazioni in precedenza sconosciuti o circoscritti a settori limitati della società. E, poi, alcuni interventi legislativi, come lo statuto dei lavoratori (del 20 maggio 1970), trasferirono dalla politica al diritto la tutela di situazioni soggettive e di diritti fondamentali e attribuirono alla magistratura ampie competenze al riguardo. La rottura con il passato fu radicale e gravida di conseguenze: a una magistratura longa manus del Governo si addice, infatti, un modello di giudice burocrate e neutrale, mentre a una magistratura radicata nella società più che nell’istituzione deve corrispondere un giudice consapevole della propria autonomia, attento alle dinamiche sociali e di esse partecipe. Così il dogma della “apoliticità” si sgretolò lasciando spazio a una concezione per così dire laica della magistratura, nella quale l’accento venne posto sull’indipendenza e sulla soggezione «soltanto alla legge» ai sensi dell’art. 101, comma 2, Costituzione. Non si trattò – come viene talora sostenuto, superficialmente o interessatamente – di uno “spostamento a sinistra” dei magistrati, bensì – fenomeno assai più importante e significativo – della ridefinizione del ruolo del diritto nella società e del rapporto tra magistratura e potere politico. Diversi ed eterogenei – come ovvio e fisiologico – furono gli orientamenti dei giudici, ma, in ogni caso, le nuove competenze in tema di diritti e la proiezione nel sociale incisero profondamente sul modello dei magistrati e dei giuristi. Sono queste le premesse teoriche e pratiche dell’espansione dell’intervento giudiziario e del controllo di legalità anche nei confronti della politica che ha avuto il suo apice, anni dopo, nei processi su Tangentopoli e che, da allora, ha ripetutamente scosso il sistema politico.

Dopo gli anni ’90. Antichi vizi e nuovi strappi.

Raramente i percorsi istituzionali sono lineari. In ogni caso non lo sono stati per la magistratura. Sorde resistenze interne al corpo giudiziario e la lunga stagione del berlusconismo imperante (fonte di una sorta di sindrome della “cittadella assediata”) hanno, nel tempo, determinato il riemergere e il consolidarsi in pubblici ministeri e giudici di vizi e posizionamenti antichi: il corporativismo, una considerazione di sé come “la parte migliore del Paese”, l’insofferenza alle critiche, un’insufficiente cultura delle regole e delle garanzie e molto altro ancora. In parallelo è progressivamente emerso un concetto di legalità formalistico e autoritario, frutto avvelenato della stagione alta (e pur complessivamente positiva) del contrasto di Cosa Nostra, di Tangentopoli e del confronto con una situazione generale caratterizzata dal crollo dell’etica pubblica e dalla diffusione crescente della corruzione, della strumentalizzazione a fini privati di uffici pubblici, della mercificazione finanche della funzione legislativa, della prevaricazione mafiosa, dello sfruttamento del lavoro altrui, dell’evasione fiscale come metodo, della regola dei condoni, della pretesa di impunità per chi ha potere. Ciò ha – giustamente – attribuito alla “questione legalità” una centralità etica e politica inedita, contribuendo, peraltro, a realizzare un improprio “scambio di ruoli” tra politica e diritto. Con rilevanti conseguenze regressive. Guardando alle vicende giudiziarie degli ultimi due decenni è, infatti, agevole cogliere molti strappi, soprattutto da quando si è ingenerata tra i magistrati e in altri settori dei giuristi la convinzione che le garanzie processuali sono dei trabocchetti e dei cedimenti a chi mal tollera il controllo di legalità ed è venuta meno la disponibilità al confronto permanente con l’opinione pubblica. L’accantonamento di questi capisaldi culturali ha prodotto talora – per limitarsi al settore penale – un interventismo senza freni in cui il doveroso esercizio dell’azione penale si è trasformato in pan-penalismo controproducente, la cultura del risultato ha prevalso su quella della prova, il carattere personale della responsabilità è parso soccombere rispetto all’obiettivo di combattere fenomeni criminali o di tutelare l’ordine pubblico e si è finanche arrivati a teorizzazioni del ruolo dei magistrati come garanti della legalità a prescindere dalle regole. Di questa deriva – sta qui la particolare gravità del fatto – sono stati talora partecipi, insieme a una destra intrisa di securitarismo, quella che un tempo era la sinistra politica e, all’interno della corporazione, la stessa Magistratura democratica o suoi autorevoli esponenti.
Una conseguenza per tutte. Il 31 dicembre 1969 (mezzo secolo fa, quando iniziava la stagione del rinnovamento) i detenuti erano 34.852 mentre il 31 luglio scorso erano saliti a 54.979 dopo che, il 30 giugno 2010 si era raggiunto il picco di 68.258. È un trend ormai costante. Le presenze in carcere sono cresciute, negli ultimi trent’anni in maniera vertiginosa: dal minimo storico di 25.804 detenuti del 31 dicembre 1990 si è, infatti, passati a 47.709 al 31 dicembre 1996, 53.165 alla stessa data del 2000, 59.523 a fine 2005 e 67.961 al 31 dicembre 2010. Solo dopo il 2012 una serie di provvedimenti tampone, imposti dalle condanne in sede europea per il “trattamento disumano e degradante” di detenuti in conseguenza del sovraffollamento carcerario e, poi, dall’esplodere della pandemia di Covid, ha ridotto gradualmente le presenze che, pur restando assai elevate, sono scese dalle 66.897 del 31 dicembre 2011, alle 65.701 di fine 2012 e poi, a seguire, a 62.536 (2013), 53.623 (2014) e 52.164 (2015) prima di riprendere nuovamente a salire, con 54.653 a fine 2016 e 56.436 a fine 2017. E i dati non dicono tutto. Il fatto più significativo, ai fini che qui rilevano, è che l’aumento dei detenuti è avvenuto (e avviene) parallelamente alla diminuzione del numero e della gravità dei reati commessi e a una serie di significative riforme processuali di segno garantista. A dimostrazione che la ragione dell’aumento del carcere e dei detenuti sta, almeno in maniera significativa, negli orientamenti dei giudici ed ha a che fare con una diffusa sottovalutazione culturale del valore della libertà personale.
Le radici dell’insofferenza e della diffidenza segnalate all’inizio sono a questo punto, almeno per quanto riguarda la cultura di sinistra, abbastanza chiare.

Mettere il sapere dei giuristi al servizio delle nuove esclusioni.

Non ci sono, ovviamente, conclusioni ma qualche indicazione è possibile. Una, particolarmente precisa, viene – anche questo è un segno dei tempi – da un pulpito non scontato, quello del papa di Roma che, nel Discorso ai partecipanti al XX Congresso mondiale dell’Associazione internazionale di diritto penale del 15 novembre 2019, ha accompagnato alcuni spunti di analisi con un vero e proprio programma operativo: «Oggi, alcuni settori economici esercitano più potere che gli stessi Stati: una realtà che risulta ancora più evidente in tempi di globalizzazione del capitale speculativo. Il principio di massimizzazione del profitto, isolato da ogni altra considerazione, conduce a un modello di esclusione – automatico! ‒ che infierisce con violenza su coloro che patiscono nel presente i suoi costi sociali ed economici, mentre si condannano le generazioni future a pagarne i costi ambientali. La prima cosa che dovrebbero chiedersi i giuristi oggi è che cosa poter fare con il proprio sapere per contrastare questo fenomeno, che mette a rischio le istituzioni democratiche e lo stesso sviluppo dell’umanità. In concreto, la sfida presente per ogni penalista è quella di contenere l’irrazionalità punitiva, che si manifesta, tra l’altro, in reclusioni di massa, affollamento e torture nelle prigioni, arbitrio e abusi delle forze di sicurezza, espansione dell’ambito della penalità, la criminalizzazione della protesta sociale, l’abuso della reclusione preventiva e il ripudio delle più elementari garanzie penali e processuali». A queste indicazioni chiare e condivisibili si accompagnano, negli ultimi tempi, importanti segnali di risveglio in Magistratura democratica e in diverse articolazioni di giuristi (anche nell’accademia). La speranza è che essi diano vita ad analisi, sperimentazioni e prassi che non si accontentino della ripetizione dell’esistente, anche perché i tempi che ci aspettano non saranno facili, neppure per un sistema giustizia che voglia evitare il ritorno allo statuto albertino.

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