La Costituzione del ‘48, una rivoluzione copernicana.
Il quadro è stato peraltro sovvertito, almeno nelle intenzioni, dalla grande stagione delle Costituzioni intervenuta dopo la tragedia della seconda guerra mondiale. Una stagione che ha inciso in maniera profonda anche sul ruolo del diritto e dei suoi interpreti. La nostra Costituzione del 1948 è esplicita. L’art. 3, secondo comma, afferma solennemente che «è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». Il senso della norma è univoco e dirompente: la società è caratterizzata da profonde ingiustizie e compete alle istituzioni (a tutte le istituzioni che costituiscono la Repubblica e, dunque, anche al sistema giudiziario e ai suoi diversi attori) impegnarsi, nel proprio specifico, per farle venir meno. Il diritto – la Carta fondamentale – non si limita a fotografare e salvaguardare l’esistente e i rapporti di forza (come nella sua dimensione classica) ma si pone in modo critico nei loro confronti e affida ai suoi interpreti un compito non esclusivamente conservativo ma anche innovativo (di promozione, appunto, dei diritti e delle libertà). Per raggiungere quel risultato la Costituzione modifica radicalmente gli assetti della magistratura e della giustizia (cioè del luogo finale di accertamento e riconoscimento dei diritti): «la giustizia è amministrata in nome del popolo. / I giudici sono soggetti soltanto alla legge» (art. 101), «la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere» (art. 104, primo comma) e «i magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni» (art. 107, terzo comma). Le differenze rispetto allo Statuto sono evidenti (non solo nell’uso delle maiuscole…). È una rivoluzione copernicana. Nel modello recepito dallo Statuto albertino l’ordine giudiziario era una semplice articolazione della pubblica amministrazione, una sua appendice, al cui vertice era posto il Ministro della giustizia; nella Costituzione repubblicana i magistrati hanno, ciascuno singolarmente considerato, la pienezza del potere giudiziario che è, per così dire, originario e non discende da una delega del sovrano. Con un conseguente «dovere di disobbedienza» ‒ per usare parole di Giuseppe Borré – «a ciò che legge non è: disobbedienza al pasoliniano “palazzo”, disobbedienza ai potentati economici, disobbedienza alla stessa interpretazione degli altri giudici e dunque libertà interpretativa. Quindi pluralismo, quindi, legittima presenza di diverse posizioni culturali e ideali all’interno della magistratura». È, all’evidenza, una collocazione del tutto nuova della magistratura nel sistema istituzionale.