Magistratura democratica, uso alternativo del diritto, Tangentopoli.
Quello che è scritto nella Carta, peraltro, non si realizzò immediatamente. I cambiamenti normativi furono, infatti, inizialmente frustrati dalla mancanza di qualsivoglia rinnovamento personale (l’epurazione dei magistrati compromessi col regime si limitò a 16 su 4.000 e ne restarono immuni personaggi gravemente compromessi con il regime) e l’assetto gerarchico e piramidale continuò a caratterizzare il corpo giudiziario. Anche con la fine degli anni Cinquanta, quando arrivò la stagione dell’attuazione della Costituzione (con l’entrata in funzione della Corte costituzionale e del Consiglio superiore della magistratura), le ricadute sul sistema giustizia furono, inizialmente, limitate, con conseguente permanere, fino agli anni Sessanta, di una politica giudiziaria di segno conservatore, quando non apertamente reazionario, e dell’intangibilità dei santuari della politica. A questa situazione offrì un supporto culturale decisivo il dogma (elaborato dal fascismo) della apoliticità dei giudici, necessario per far apparire naturali atteggiamenti e opzioni altrimenti inaccettabili. La situazione mutò negli anni Sessanta e Settanta grazie ai nuovi fermenti culturali e politici in atto nel Paese, alla modifica in senso ugualitario e antigerarchico dell’assetto di giudici e pubblici ministeri (in particolare con le leggi 25 luglio 1966, n. 570 e 20 dicembre 1973, n. 831) e all’irruzione sulla scena giudiziaria di Magistratura democratica. Ci sono al riguardo alcune tappe fondamentali. Nel 1970 apparve sulla scena del diritto Quale Giustizia, una rivista promossa da Magistratura democratica, che veicolò nel dibattito giuridico la giurisprudenza di merito e la critica ai provvedimenti giudiziari, fino ad allora prive di accesso sulle pubblicazioni giuridiche, riservate essenzialmente alla riproduzione e all’analisi delle sentenze di legittimità. Trovò così voce una nuova cultura che rivendicava un inedito ruolo promozionale del diritto e che coinvolse, insieme ai magistrati, gli avvocati e l’accademia. Fu, poi, nel maggio 1972 che si tenne a Catania l’incontro di studio “L’uso alternativo del diritto”, che riunì i più brillanti giuristi progressisti italiani ed europei dell’epoca i cui interventi vennero tempestivamente raccolti in due volumi dallo stesso titolo, curati da Pietro Barcellona per i tipi di Laterza, rimasti per anni punto di riferimento del dibattito giuridico. E nello stesso anno – segnale di una nuova attenzione della politica ai temi del diritto e della giustizia – nacque, con la prestigiosa presidenza di Umberto Terracini, il Centro Studi e Iniziative per la Riforma dello Stato (inizialmente articolazione del Partito comunista, ma destinato nel tempo a diventare luogo di autonoma elaborazione soprattutto a partire dagli anni Ottanta con la presidenza di Pietro Ingrao). Il tutto in un nuovo clima politico che attraversò, in quegli anni, il Paese, con fermenti e sollecitazioni in precedenza sconosciuti o circoscritti a settori limitati della società. E, poi, alcuni interventi legislativi, come lo statuto dei lavoratori (del 20 maggio 1970), trasferirono dalla politica al diritto la tutela di situazioni soggettive e di diritti fondamentali e attribuirono alla magistratura ampie competenze al riguardo. La rottura con il passato fu radicale e gravida di conseguenze: a una magistratura longa manus del Governo si addice, infatti, un modello di giudice burocrate e neutrale, mentre a una magistratura radicata nella società più che nell’istituzione deve corrispondere un giudice consapevole della propria autonomia, attento alle dinamiche sociali e di esse partecipe. Così il dogma della “apoliticità” si sgretolò lasciando spazio a una concezione per così dire laica della magistratura, nella quale l’accento venne posto sull’indipendenza e sulla soggezione «soltanto alla legge» ai sensi dell’art. 101, comma 2, Costituzione. Non si trattò – come viene talora sostenuto, superficialmente o interessatamente – di uno “spostamento a sinistra” dei magistrati, bensì – fenomeno assai più importante e significativo – della ridefinizione del ruolo del diritto nella società e del rapporto tra magistratura e potere politico. Diversi ed eterogenei – come ovvio e fisiologico – furono gli orientamenti dei giudici, ma, in ogni caso, le nuove competenze in tema di diritti e la proiezione nel sociale incisero profondamente sul modello dei magistrati e dei giuristi. Sono queste le premesse teoriche e pratiche dell’espansione dell’intervento giudiziario e del controllo di legalità anche nei confronti della politica che ha avuto il suo apice, anni dopo, nei processi su Tangentopoli e che, da allora, ha ripetutamente scosso il sistema politico.