IDEATO E DIRETTO
DA ANTONIO CANTARO
E FEDERICO LOSURDO

IDEATO E DIRETTO DA ANTONIO CANTARO E FEDERICO LOSURDO

Quale giustizia? La sfida è quella delle nuove esclusioni

Mentre la sinistra politica è uno sbiadito ricordo, incombe la tentazione di una sinistra giustizialista. Con scandalo o come ultima speranza, ma senza fondamento. Altre sarebbero le idealità che dovrebbero guidare oggi la magistratura

Dopo gli anni ’90. Antichi vizi e nuovi strappi.

Raramente i percorsi istituzionali sono lineari. In ogni caso non lo sono stati per la magistratura. Sorde resistenze interne al corpo giudiziario e la lunga stagione del berlusconismo imperante (fonte di una sorta di sindrome della “cittadella assediata”) hanno, nel tempo, determinato il riemergere e il consolidarsi in pubblici ministeri e giudici di vizi e posizionamenti antichi: il corporativismo, una considerazione di sé come “la parte migliore del Paese”, l’insofferenza alle critiche, un’insufficiente cultura delle regole e delle garanzie e molto altro ancora. In parallelo è progressivamente emerso un concetto di legalità formalistico e autoritario, frutto avvelenato della stagione alta (e pur complessivamente positiva) del contrasto di Cosa Nostra, di Tangentopoli e del confronto con una situazione generale caratterizzata dal crollo dell’etica pubblica e dalla diffusione crescente della corruzione, della strumentalizzazione a fini privati di uffici pubblici, della mercificazione finanche della funzione legislativa, della prevaricazione mafiosa, dello sfruttamento del lavoro altrui, dell’evasione fiscale come metodo, della regola dei condoni, della pretesa di impunità per chi ha potere. Ciò ha – giustamente – attribuito alla “questione legalità” una centralità etica e politica inedita, contribuendo, peraltro, a realizzare un improprio “scambio di ruoli” tra politica e diritto. Con rilevanti conseguenze regressive. Guardando alle vicende giudiziarie degli ultimi due decenni è, infatti, agevole cogliere molti strappi, soprattutto da quando si è ingenerata tra i magistrati e in altri settori dei giuristi la convinzione che le garanzie processuali sono dei trabocchetti e dei cedimenti a chi mal tollera il controllo di legalità ed è venuta meno la disponibilità al confronto permanente con l’opinione pubblica. L’accantonamento di questi capisaldi culturali ha prodotto talora – per limitarsi al settore penale – un interventismo senza freni in cui il doveroso esercizio dell’azione penale si è trasformato in pan-penalismo controproducente, la cultura del risultato ha prevalso su quella della prova, il carattere personale della responsabilità è parso soccombere rispetto all’obiettivo di combattere fenomeni criminali o di tutelare l’ordine pubblico e si è finanche arrivati a teorizzazioni del ruolo dei magistrati come garanti della legalità a prescindere dalle regole. Di questa deriva – sta qui la particolare gravità del fatto – sono stati talora partecipi, insieme a una destra intrisa di securitarismo, quella che un tempo era la sinistra politica e, all’interno della corporazione, la stessa Magistratura democratica o suoi autorevoli esponenti.
Una conseguenza per tutte. Il 31 dicembre 1969 (mezzo secolo fa, quando iniziava la stagione del rinnovamento) i detenuti erano 34.852 mentre il 31 luglio scorso erano saliti a 54.979 dopo che, il 30 giugno 2010 si era raggiunto il picco di 68.258. È un trend ormai costante. Le presenze in carcere sono cresciute, negli ultimi trent’anni in maniera vertiginosa: dal minimo storico di 25.804 detenuti del 31 dicembre 1990 si è, infatti, passati a 47.709 al 31 dicembre 1996, 53.165 alla stessa data del 2000, 59.523 a fine 2005 e 67.961 al 31 dicembre 2010. Solo dopo il 2012 una serie di provvedimenti tampone, imposti dalle condanne in sede europea per il “trattamento disumano e degradante” di detenuti in conseguenza del sovraffollamento carcerario e, poi, dall’esplodere della pandemia di Covid, ha ridotto gradualmente le presenze che, pur restando assai elevate, sono scese dalle 66.897 del 31 dicembre 2011, alle 65.701 di fine 2012 e poi, a seguire, a 62.536 (2013), 53.623 (2014) e 52.164 (2015) prima di riprendere nuovamente a salire, con 54.653 a fine 2016 e 56.436 a fine 2017. E i dati non dicono tutto. Il fatto più significativo, ai fini che qui rilevano, è che l’aumento dei detenuti è avvenuto (e avviene) parallelamente alla diminuzione del numero e della gravità dei reati commessi e a una serie di significative riforme processuali di segno garantista. A dimostrazione che la ragione dell’aumento del carcere e dei detenuti sta, almeno in maniera significativa, negli orientamenti dei giudici ed ha a che fare con una diffusa sottovalutazione culturale del valore della libertà personale.
Le radici dell’insofferenza e della diffidenza segnalate all’inizio sono a questo punto, almeno per quanto riguarda la cultura di sinistra, abbastanza chiare.

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