IDEATO E DIRETTO
DA ANTONIO CANTARO
E FEDERICO LOSURDO

IDEATO E DIRETTO DA ANTONIO CANTARO E FEDERICO LOSURDO

Quel “pasticciaccio brutto” della riforma del Patto di stabilità

Le proposte di riforma della governance economica e monetaria europea confermano ancora una volta i dogmi indiscussi e intoccabili di questa nostra “povera” Europa: il mercato e la libera concorrenza.

In estrema sintesi, la logica cui si ispirano gli Orientamenti della Commissione sembra essere per grandi linee -e con qualche distinguo- quella di sempre (Maranzano e Romano) con alcune aggravanti che, a titolo esemplificativo, possiamo così riassumere: innanzi tutto, l’idea che la spesa pubblica sia un mero costo e non uno strumento per aumentare la crescita e che, di conseguenza, il debito pubblico sia una passività da ridurre a tutti i costi era e continua ad essere anche nell’attuale proposta il leit motiv della normativa europea sulla governance economica (in termini non dissimili Guarascio e Zezza).

In secondo luogo, è evidente che per ridurre il rapporto debito/PIL la spesa pubblica dovrà crescere meno del debito e laddove ciò non accadesse gli Stati dovranno necessariamente ridurla, il tutto costantemente monitorato e approvato ex ante dalla Commissione europea -attraverso l’analisi della sostenibilità del debito (DSA)- che assume un ruolo di attore primario a scapito sia delle altre Istituzioni sovranazionali, sia dei governi degli Stati membri, con un’accentuazione del deficit democratico da cui è afflitta da sempre l’UE (in termini, Tosato; Bini Smaghi, Riforma del Patto di stabilità. I motivi di preoccupazione, in Corriere della sera, 28 gennaio 2023).

In terzo luogo, la circostanza che attraverso detto monitoraggio e conseguente obbligatorio aggiustamento delle politiche fiscali nazionali l’UE si trovi, di fatto, a “dirigere” e disciplinare una materia che non è di competenza sovranazionale, violando le norme dei Trattati europei.

Un cortocircuito in termini di legittimità democratica?

I commenti da parte della dottrina, sia economica che giuridica, sono stati, salvo alcune eccezioni (Pench; Wyplosz), piuttosto tiepidi. Per qualcuno, infatti, la proposta è stata “un passo avanti importante…che tuttavia rischia di non essere abbastanza” (Saraceno); per altri, pur essendovi una complessiva adesione alle misure suggerite, sussiste il rischio che “in assenza di riforme istituzionali della UE” una siffatta riforma possa portare “ad un cortocircuito in termini di legittimità democratica” (Bordignon); per altri ancora la riforma sarebbe da accogliere positivamente perché consente una procedura di determinazione delle politiche di spesa incentrata sul rapporto bilaterale tra singoli governi e Commissione (Minenna), o perché ammette nuove misure che aumentino voci di spesa non ciclica purché compensate da nuove misure sulle entrate (Pisauro). Vi è anche chi ha assunto una posizione più o meno moderatamente critica ritenendo preferibile l’attuale calcolo basato sul c.d. output gap a quello oggi proposto fondato sulla c.d. spesa primaria (De Romanis) oppure chi parla di una proposta che accentua la tecnocrazia (Piga) svuotando i governi del loro potere di indirizzo nel solco della tendenza alla depoliticizzazione della sfera economica (Guarascio e Zezza), o ancora chi, correttamente, ritiene che la negoziazione tra i governi degli Stati membri e la Commissione volta all’adozione del Piano fiscale di riduzione del debito sia una fictio perché la forza negoziale del Paese in questione, dopo che il suo debito è stato valutato come scarsamente sostenibile, sarebbe pressoché nulla (Guazzarotti).

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