Stiamo attraversando la terza fase della scuola della Repubblica italiana. La prima fase è stata quella della scuola tradizionale, consacrata alla formazione delle classi dirigenti, che è andata dal dopoguerra alla fine degli anni Cinquanta, sebbene in larga misura sia sopravvissuta anche in seguito. La seconda fase ha iniziato a prendere forma negli anni Sessanta, e ha visto le battaglie politico-culturali per la costruzione di una scuola democratica, intitolata agli ideali della Costituzione, e considerata come il motore della crescita civile e materiale della società. Dalla metà degli anni Ottanta, è poi sopravvenuta la terza fase: quella della scuola neoliberista, subordinata al sistema economico e votata alla produzione del capitale umano, che si è affermata nei decenni successivi. Con l’avvento della Repubblica, il riferimento per la scuola per la nuova epoca era senza dubbio individuabile nella Costituzione del 1948. Nei principi e nei valori espressi dalla Carta costituzionale possiamo trovare il nucleo di una nuova idea di scuola: il lavoro, la democrazia, la giustizia sociale, la centralità dello sviluppo della persona umana. Questa costellazione assiologica costituisce il riferimento per orientare le rotte della politica scolastica e i modi di fare scuola. Tuttavia, il cammino per affermare una scuola della Costituzione è stato difficile e contraddittorio, e nella terza fase si è addirittura interrotto.
La prima fase, la continuità con il fascismo
La prima fase, che va fino alla fine degli anni Cinquanta, vede gli anni del cosiddetto “centrismo”, caratterizzati dal predominio della Democrazia cristiana. In questo periodo si assiste a una certa continuità con l’impostazione fascista della scuola. Permane, infatti, l’ordinamento duale del sistema scolastico: un canale per le future classi dirigenti, che passa dalla scuola media e dal liceo, e un percorso breve per le classi subalterne, destinate al binario morto dell’avviamento professionale. Si tratta di un ordinamento finalizzato alla riproduzione della stratificazione sociale esistente e alla conservazione dell’egemonia dei gruppi sociali dominanti. Alla selezione per canalizzazione precoce, si aggiunge una marcata selezione esplicita: le massicce bocciature portano a una quota consistente di abbandoni [M. Gattullo, Informazioni di stock, di flusso e di esito nei repertori della scuola, in B. Vertecchi (a cura di), Valutazione e qualità degli studi, Tecnodid, Napoli 1989]: nell’anno 1959-60, per lo stock anagrafico di 13-14 anni di età risulta il 48,7 % di abbandoni, mentre i “regolari” (coloro che frequentano la scuola e non sono mai stati bocciati) ammontano solo al 17,4%. Nel 1967 Don Milani – nella sua Lettera a una professoressa – denuncerà questo fenomeno come espressione di una discriminazione di classe. In questa fase, inoltre, il predominio democristiano si accompagna a una marcata egemonia cattolica sulla scuola, in particolare sulla scuola d’infanzia (agli inizi degli anni Sessanta i due terzi delle scuole sono private di matrice confessionale, e i due terzi delle insegnanti è costituito da personale religioso) e sulla scuola elementare, dove le insegnanti – in maggioranza donne – sono imbevute dell’antropologia cattolica. Con i programmi Ermini del 1955 viene poi riconfermato il ruolo della religione cattolica come “fondamento e coronamento” dell’istruzione elementare, a dispetto del fatto che questo ruolo sia di ovvia spettanza della Costituzione. In questo modo, la scuola viene conformata secondo un progetto di socializzazione delle masse popolari in chiave moderata e subalterna. Questo ordinamento viene cristallizzato e difeso dalla DC e dai suoi ministri della Pubblica istruzione (da Gonella, a Segni, a Ermini), attraverso la tattica dell’“ostruzionismo di maggioranza” (l’espressione è di Calamandrei): i tentativi di cambiamento vengono ostacolati e insabbiati. Tuttavia, fino alla metà degli anni Cinquanta, le stesse forze progressiste, assorbite dalla difesa degli spazi democratici, non individuano nella scuola una priorità.