IDEATO E DIRETTO
DA ANTONIO CANTARO
E FEDERICO LOSURDO

IDEATO E DIRETTO DA ANTONIO CANTARO E FEDERICO LOSURDO

Scuola e democrazia, la bussola della Costituzione

La scuola ha tenuto, come dimostra la lezione della pandemia, grazie all’impegno degli insegnanti. La macchina aziendalista è una tigre di carta. La battaglia contro la narrazione neoliberista del capitale umano è oggi il compito della pedagogia critica

Stiamo attraversando la terza fase della scuola della Repubblica italiana. La prima fase è stata quella della scuola tradizionale, consacrata alla formazione delle classi dirigenti, che è andata dal dopoguerra alla fine degli anni Cinquanta, sebbene in larga misura sia sopravvissuta anche in seguito. La seconda fase ha iniziato a prendere forma negli anni Sessanta, e ha visto le battaglie politico-culturali per la costruzione di una scuola democratica, intitolata agli ideali della Costituzione, e considerata come il motore della crescita civile e materiale della società. Dalla metà degli anni Ottanta, è poi sopravvenuta la terza fase: quella della scuola neoliberista, subordinata al sistema economico e votata alla produzione del capitale umano, che si è affermata nei decenni successivi. Con l’avvento della Repubblica, il riferimento per la scuola per la nuova epoca era senza dubbio individuabile nella Costituzione del 1948. Nei principi e nei valori espressi dalla Carta costituzionale possiamo trovare il nucleo di una nuova idea di scuola: il lavoro, la democrazia, la giustizia sociale, la centralità dello sviluppo della persona umana. Questa costellazione assiologica costituisce il riferimento per orientare le rotte della politica scolastica e i modi di fare scuola. Tuttavia, il cammino per affermare una scuola della Costituzione è stato difficile e contraddittorio, e nella terza fase si è addirittura interrotto.

La prima fase, la continuità con il fascismo

La prima fase, che va fino alla fine degli anni Cinquanta, vede gli anni del cosiddetto “centrismo”, caratterizzati dal predominio della Democrazia cristiana. In questo periodo si assiste a una certa continuità con l’impostazione fascista della scuola. Permane, infatti, l’ordinamento duale del sistema scolastico: un canale per le future classi dirigenti, che passa dalla scuola media e dal liceo, e un percorso breve per le classi subalterne, destinate al binario morto dell’avviamento professionale. Si tratta di un ordinamento finalizzato alla riproduzione della stratificazione sociale esistente e alla conservazione dell’egemonia dei gruppi sociali dominanti. Alla selezione per canalizzazione precoce, si aggiunge una marcata selezione esplicita: le massicce bocciature portano a una quota consistente di abbandoni [M. Gattullo, Informazioni di stock, di flusso e di esito nei repertori della scuola, in B. Vertecchi (a cura di), Valutazione e qualità degli studi, Tecnodid, Napoli 1989]: nell’anno 1959-60, per lo stock anagrafico di 13-14 anni di età risulta il 48,7 % di abbandoni, mentre i “regolari” (coloro che frequentano la scuola e non sono mai stati bocciati) ammontano solo al 17,4%. Nel 1967 Don Milani – nella sua Lettera a una professoressa – denuncerà questo fenomeno come espressione di una discriminazione di classe. In questa fase, inoltre, il predominio democristiano si accompagna a una marcata egemonia cattolica sulla scuola, in particolare sulla scuola d’infanzia (agli inizi degli anni Sessanta i due terzi delle scuole sono private di matrice confessionale, e i due terzi delle insegnanti è costituito da personale religioso) e sulla scuola elementare, dove le insegnanti – in maggioranza donne – sono imbevute dell’antropologia cattolica. Con i programmi Ermini del 1955 viene poi riconfermato il ruolo della religione cattolica come “fondamento e coronamento” dell’istruzione elementare, a dispetto del fatto che questo ruolo sia di ovvia spettanza della Costituzione. In questo modo, la scuola viene conformata secondo un progetto di socializzazione delle masse popolari in chiave moderata e subalterna. Questo ordinamento viene cristallizzato e difeso dalla DC e dai suoi ministri della Pubblica istruzione (da Gonella, a Segni, a Ermini), attraverso la tattica dell’“ostruzionismo di maggioranza” (l’espressione è di Calamandrei): i tentativi di cambiamento vengono ostacolati e insabbiati. Tuttavia, fino alla metà degli anni Cinquanta, le stesse forze progressiste, assorbite dalla difesa degli spazi democratici, non individuano nella scuola una priorità.

La seconda fase, la scuola democratica

Nella seconda metà degli anni Cinquanta, con il cosiddetto miracolo economico, la società italiana iniziò un rapido, anche se disordinato, cambiamento. I tassi di scolarità e i percorsi formativi conobbero un deciso mutamento, e le forze sociali progressiste iniziarono a prendere sul serio la questione della scuola. Cominciò allora una fase di lotte per la trasformazione della scuola, che – ad opera di alcune associazioni di docenti, dei sindacati e dei gruppi politici progressisti – diedero vita a un ventennio riformista. Si trattò di un riformismo contrastato, che si fece strada faticosamente, attraverso una vera e propria guerra di trincea, ma che portò ad importanti conquiste: dalla scuola media unificata (1962), alla scuola materna statale (1968), al tempo pieno (1971), alla gestione sociale della scuola (1974), alla programmazione educativa e all’integrazione dei disabili (1977), fino ai nuovi programmi della scuola media (1979) e della scuola elementare (1985). Questo riformismo ebbe un andamento contraddittorio, frutto di faticose mediazioni, con esiti ora più rilevanti (la scuola media unica, che sopprimeva la struttura duale della scuola di base) ora più deboli (i Decreti delegati del 1974, nei quali la gestione sociale della scuola nasceva imprigionata in forme burocratiche). In ogni caso, modificò il sistema scolastico in senso maggiormente democratico, con una marcia verso l’ideale di una Scuola della Costituzione. E nelle lotte per la trasformazione della scuola si sviluppò anche una nuova coscienza del problema scolastico da parte degli insegnanti progressisti, tra i quali possiamo ricordare figure come Bruno Ciari e Mario Lodi. Il movimento per la scuola democratica riuscì a conquistare una sostanziale egemonia culturale, e un certo seguito nella scuola di base, specialmente dalla fine degli anni Sessanta alla metà anni Ottanta, ma non riuscì ad abbattere la scuola tradizionale, la quale – sebbene costretta sulla difensiva – mantenne il favore della maggioranza dei docenti. Così, tutto questo periodo rimane segnato da una contesa culturale e pratica tra due modelli di scuola, l’uno egemone culturalmente (a livello di collane editoriali, di riviste, di convegni e corsi di formazione), l’altro prevalente di fatto.

La terza fase, il progetto di una scuola neoliberista

Nel corso degli anni Ottanta le cose cominciarono a mutare, e il clima culturale che aveva innervato la lotta del movimento democratico contro la scuola tradizionale iniziò a svanire. Giunge una terza fase della scuola che sopravanza i due modelli in atto, e produce una sostanziale egemonia del modello neoliberista.

Il modello neoliberista di scuola è legato alla lotta vittoriosa sostenuta da questa ideologia dagli anni Ottanta alla fine del Novecento. Non possiamo qui ricostruire questa vicenda. Mi limito a ricordare che il neoliberismo rappresenta l’ideologia del capitalismo globalizzato, frutto della ristrutturazione mondiale dell’economia capitalista dopo la crisi strutturale degli anni Settanta. Questa ideologia sostiene la necessità di conformare il funzionamento di tutte le realtà sociali e di ogni istituzione pubblica al meccanismo del mercato concorrenziale, per garantire l’efficienza del sistema socioeconomico. Le sue culle sono state il governo della Thatcher in Gran Bretagna e la presidenza Reagan negli Stati Uniti, che attraversano gli anni Ottanta, ma il suo approdo è rappresentato dalla dottrina ordoliberista, secondo la quale il mercato non è un meccanismo spontaneo, ma deve essere istituito da appositi interventi legislativi e amministrativi.

Per quanto concerne la scuola, il cambiamento del vento si cominciò a percepire nel corso degli anni Ottanta, quando alle preoccupazioni per l’eguaglianza democratica successe il dibattito sulla qualità dell’istruzione. L’innesco del processo venne dall’America, dove il presidente Reagan incaricò una commissione di esperti di stendere un rapporto sulla qualità dell’istruzione, che uscì col titolo A Nation At Risk (1983). In esso, la commissione esprimeva grave preoccupazione per il peggioramento della qualità del sistema americano, suggerendo di riattivare misure volte a promuovere l’eccellenza attraverso il rigore della valutazione. Questo rapporto sollevò una vasta discussione, non solo in America ma in tutto l’Occidente. Del mutamento del vento si fece interprete Norberto Bottani, un ricercatore dell’Ocse, che nel 1986 pubblicò un libro di svolta: La ricreazione è finita. Dibattito sulla qualità dell’istruzione. La tesi di Bottani era che le riforme scolastiche degli anni Sessanta-Settanta mirate a promuovere l’eguaglianza e la democraticità dell’istruzione avevano fallito. La scuola non aveva assicurato una maggiore uguaglianza degli esiti formativi, aveva per lo più continuato a funzionare nel modo tradizionale, che però era diventato del tutto inadeguato per l’istruzione di massa, e quindi non aveva saputo nemmeno salvaguardare la qualità dell’istruzione. Occorreva perciò abbandonare quel riformismo per configurare in modo nuovo il rapporto tra l’equità e la qualità. Certi aspetti della diagnosi di Bottani colgono probabilmente nel segno (altri meno, così come sono opinabili le sue terapie), ma il titolo (La ricreazione è finita) lascia intendere che sia da archiviare tutta la stagione della democratizzazione della scuola. A metà del decennio successivo, rapporti internazionali come il Libro Bianco della Crésson (1995) e il Rapporto Delors (1997), pur rammentando la funzione democratica della scuola, si ponevano ormai in un altro orizzonte: quello di una scuola neoliberista.

Il divorzio tra educazione e formazione

In questo quadro, l’idea fondamentale è quella della scuola come azienda: come le altre istituzioni pubbliche anch’essa deve darsi un’organizzazione efficiente, per competere nel mercato della formazione. Questo regime concorrenziale stimolerà la produttività della scuola e tenderà così a migliorare la qualità dell’istruzione. Un alto tenore della formazione è necessario perché – nell’economia post-industriale – la conoscenza è ormai il principale fattore della produzione. L’obiettivo a cui è indirizzato questo modello è allora quella della produzione del capitale umano, ossia della formazione di produttori equipaggiati dello stock di conoscenze e di competenze necessarie al funzionamento della macchina economica. La qualità di questa produzione di competenze è affidata al meccanismo della competizione, e non solo tra le scuole ma anche tra gli studenti.

In questo modo, il compito della scuola viene ridotto a quello della formazione di produttori competenti, trascurando l’educazione del cittadino e dello spirito critico, che la scuola democratica aveva posto come la propria più alta finalità. Inoltre, la scuola democratica era tesa a garantire esiti egualitari, a dare a tutti la padronanza delle conoscenze fondamentali, necessarie per il pieno accesso alla cittadinanza. La scuola neoliberista mira invece alle vette qualitative, a coltivare le eccellenze, e a questo scopo stimola la competizione e istituisce premi per gli studenti migliori. La scuola diviene così un dispositivo di socializzazione all’etica individualista neoliberista: a scuola come nella vita ognuno raccoglie quello che merita, in base alle proprie capacità e al proprio impegno. E se raccoglie poco deve dare la colpa solo a sé stesso.

La lezione della pandemia

Il cammino di una scuola della Costituzione, faticosamente avviato negli anni Sessanta, sembra così essersi interrotto. Ma, parafrasando l’Habermas del Discorso sulla modernità (1988), il progetto di una scuola della Costituzione non è fallito, è incompiuto. E vi sono forze (associazioni di insegnanti e sindacati) che combattono per riavviarlo. L’egemonia del neoliberismo non è né assoluta, e nonostante tutto rimane contendibile. La pandemia ne ha evidenziato i limiti: se la scuola ha tenuto è stato grazie all’impegno degli insegnanti, non di certo per la macchina aziendalista, che ha mostrato di essere una tigre di carta. Tenere desta la battaglia culturale per una scuola democratica contro l’egemonia neoliberista è oggi il compito cruciale di una pedagogia critica.

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