IDEATO E DIRETTO
DA ANTONIO CANTARO
E FEDERICO LOSURDO

IDEATO E DIRETTO DA ANTONIO CANTARO E FEDERICO LOSURDO

Sinistra assente, hic Rhodus hic salta

A lungo nella storia del secondo dopoguerra l’origine del “caso italiano” è stata rinvenuta, in modo tutt’altro che innocente, nella presenza del più forte partito comunista dell’Occidente. Oggi il dato più macroscopico della “questione italiana” è la latitanza della sinistra, la mancanza di una agenda progressista riconoscibile dei partiti che dichiarano ancora, ma quasi vergognandosene, di appartenere a questo campo. È di questo che si occupa il numero 5 del nostro piccolo web magazine. Non ci persuadono, come abbiamo già sottolineato nel precedente numero (Forme del declino, da Draghi al draghismo), le spiegazioni che vanno per la maggiore. È giunto per noi, il tempo di dare un nome semplice e inequivoco al male oscuro della nazione: sinistra assente.

Il “preoccupato stupore” con il quale il commissario europeo all’economia ha commentato le dimissioni del governo Draghi è l’icona della strumentale rimozione della questione italiana da parte delle attuali classi dirigenti. Il preoccupato stupore non è la risposta al male oscuro dell’Italia, ma una via di fuga che si propone di legittimare l’ineluttabilità di un ennesimo commissariamento, più o meno hard, più o meno soft, dell’Italia con la possibile ascesa di Draghi al Colle. Gentiloni ne è semplicemente il megafono e l’aspirante premier della destra (il)liberale, Giorgia Meloni, lo ha già diligentemente registrato nel suo diario, con somma soddisfazione del SuperMario Nazionale nell’adunanza annuale di “Comunione e Adulazione”. La responsabilità storica e politica di questo possibile ennesimo patto scellerato è tutta nostra. Affonda le sue radici nella diserzione di una sinistra senza agenda, di una sinistra che ha programmaticamente “deciso” di fare a meno di un progetto complessivo di società. La sinistra italiana approda al draghismo perché priva di una sua idea di modernizzazione e civilizzazione. E pensa di salvare l’anima aggrappandosi alla forza disciplinante di un (malinteso) vincolo esterno, di un qualche “pilota automatico”. La sinistra ha da lungo tempo smesso di interrogarsi su quale debba essere l’orizzonte e il destino dell’Italia nel mondo e in Europa. Quella europeizzazione e quell’atlantismo senza qualità che sono al centro della nostra attenzione sin dal numero zero di fuoricollana.it.

È già tempo, almeno per noi, di fare un primo bilancio dell’esperienza del governo Draghi e del draghismo, dell’azione di un esecutivo “anomalo” come quello presieduto dall’ex Presidente della BCE. Un esperimento volto a ridefinire, a partire dalla prassi, i rapporti di forza tra gli organi che sostanziano la forma parlamentare di governo così come è disciplinata dalla Costituzione italiana (tra Presidente del Consiglio e Governo, tra Presidente del Consiglio e Capo dello Stato). Ma Draghi e il draghismo non sono solo questo. Se lo fossero non se ne comprenderebbe la “fortuna”. Questo governo è “costruito per fare”, quante volte abbiamo sentito negli ultimi mesi questo laconico messaggio veicolato dalle onde mediatiche? La “cultura” del fare, come ci ricorda Salvatore Bianco nella sua intervista al segretario generale delle CGIL dell’Emilia Romagna, è paradigmatica di un’epoca che non ne vuol sapere di tramontare. Il fare è sempre procedurale, ha a che fare coi mezzi, mentre la prassi, la politica, è finalistica, si domanda se quelle cose devono essere fatte e perché. Per questa ragione temiamo che il draghismo, l’etica tecnocratica che ambisce a pilotare e svuotare dall’interno la prassi democratica, non è affatto finita con il (primo) governo Draghi. La corsa al centro, oggi il centro largo moderato che ambisce a occupare il posto del già velleitario campo largo, si ripropone esplicitamente di perpetuarne la traiettoria attraverso il rilancio della cosiddetta agenda Draghi. E, invero, Draghi ha, nel corso della crisi contribuito in prima persona a destabilizzare i due schieramenti “estremi” e ha, più o meno intenzionalmente, lavorato alla formazione di un centro ‘responsabile’ come soluzione possibile per la prossima legislatura.

Non si tratta, si è detto, di una novità assoluta. Alla fine del 2012 l’allora Presidente del Consiglio Mario Monti, il “podestà” straniero, lanciò l’omonima agenda, con l’intento di proiettare anche nella legislatura che si sarebbe aperta di lì a pochi mesi le scelte di governo e la collocazione internazionale che avevano caratterizzato la sua azione. Per la formazione elettorale promossa da Monti, quella base programmatica non fu esattamente un buon viatico per il successo, anche se fu soprattutto la sinistra, che aveva condiviso la responsabilità politica delle pesanti ripercussioni sociali dei provvedimenti varati dal Governo Monti, a pagare il prezzo di quell’eredità. Certo, la storia non si ripete mai identica. Oggi il paese sembra più rassegnato che arrabbiato e non si vede niente di simile a ciò che fu il Movimento 5S allora. Se i sondaggi danno costantemente in crescita l’unico partito all’opposizione nel corso dell’intera legislatura, Fratelli d’Italia, tale successo costituisce anche l’elemento fortemente perturbatore della coalizione di centro destra, data al momento come indiscutibilmente vincente alle prossime elezioni.

La tecnopolitica draghista cavalca, più o meno consapevolmente, la crisi morale del Paese e non mostra alcuna preoccupazione per il declino della partecipazione e del conflitto, i due ingredienti che fanno di ogni democrazia una buona democrazia. Draghi ha riproposto la retorica dell’uomo solo al comando, del domatore degli egoismi partitici, del tecnocrate che sovrasta le assemblee rappresentative prigioniere delle manovre di palazzo. L’ennesimo azzardo che ha prodotto la scomposizione e la ricomposizione del sistema politico sulla base di modesti calcoli elettorali e personalistici dei tanti galli nel pollaio del nostro sistema politico, come avviene ormai da tempo, da quando è venuta meno la funzione politico-pedagogica dei corpi intermedi (politici, sindacali, territoriali,) e il paese ha intrapreso, grazie anche al contributo di improvvide leggi elettorali, la strada del leaderismo fine a se stesso e della connessa illusione della politica del fare. Il governo Draghi è stato, in linea con i tentativi tecno-politici che lo hanno preceduto, l’ennesima modesta risposta sbagliata alla crisi democratica. Se Renzi ambiva, con il tandem riforma costituzionale ed elettorale, a una palese democrazia plebiscitaria, il moto del draghismo è apparentemente più obliquo, ma mira anch’esso a sfruttare parassitariamente le debolezze del sistema politico-parlamentare, per instaurare un regime a-politico, in cui il “popolo” deve semplicemente provare gratitudine per l’unico salvatore della Patria sulla piazza.

A dispetto di ciò, la prospettiva della de-politicizzazione – la democrazia pilotata di cui ha acutamente scritto in queste colonne Isidoro Mortellaro – è da tempo diventata l’orizzonte prediletto di (quasi) tutta la sinistra italiana, ormai orfana di ogni carica progettuale autonoma e sempre più complice di una etica e pratica della democrazia quale appannaggio di quel “popolo dei signori” di cui parla Luciano Canfora, riprendendo e approfondendo una felice definizione avanzata a suo tempo da Domenico Losurdo. Una postmoderna e luhmanniana rivoluzione passiva che riduce la politica a un gioco e un mestiere per addetti ai lavori, a un sottosistema “amministrativo” senza anima e senza corpo, privo di qualsivoglia connessione emotiva con le classi popolari e con la massa sempre più larga degli esclusi dai benefici e dai privilegi di una società di mercato sempre più in balia di interessi e forze predatorie. Un’involuzione in senso oligarchico della democrazia e della politica del nostro Paese di cui troppo spesso è complice una sinistra che ha messo da tempo in archivio la lezione gramsciana e, persino, quella weberiana della politica come la più alta delle professioni.

Si dirà che peccheremmo di provincialismo se pensassimo che questi fenomeni riguardino esclusivamente l’Italia. E, in effetti, quasi tutti i paesi occidentali hanno conosciuto fenomeni analoghi. Ciononostante, quello italiano resta un caso del tutto speciale, quasi che la scomparsa delle culture politiche di orientamento popolare e democratico dominanti fino alla fine degli anni Ottanta abbia creato le condizioni perfette per un esperimento radicale. Per questo noi pensiamo che proprio qui in Italia, più che altrove, è un dovere democratico rimettere in discussione il paradigma della neutralizzazione della politica. Solo così riacquisterà piena cittadinanza e legittimità un’agenda autenticamente alternativa e progressista, capace di mettere all’ordine del giorno i temi da affrontare. La rivoluzione energetica ecologica e digitale, la questione demografica, quella fiscale, quella femminile, quella meridionale, il declino delle istituzioni scolastiche e universitarie, quello delle istituzioni della giustizia. Di questo e tanto altro intendiamo occuparci già a partire da questo numero. Consapevoli che andare nel merito di queste sfide significa essere impietosi, com’è ormai purtroppo necessario, con una sinistra che ha colpevolmente messo in archivio le parole di Enrico Berlinguer in quella essenziale e memorabile intervista rilasciata a Eugenio Scalfari il 28 luglio 1981. Un atto di accusa rivolto allora a chi stigmatizzava la diversità della sinistra italiana ma che oggi noi rivolgiamo, con dolore, agli eredi del suo, del nostro, mondo.

Insomma, la questione morale come questione altamente politica e altamente costituzionale, la questione morale come madre di tutte le questioni. Una lucida rappresentazione dei termini essenziali del declino del Paese e, al tempo stesso, il fondamento di una vera agenda alternativa e progressista. Per questa ragione pubblichiamo l’intervista, nella sua versione integrale, nelle nostre Lezioni d’autore.

Aver rimosso questo tema rischia di condurci a un risultato infausto in occasione delle prossime elezioni. Più ci si avvicina alla scadenza e più si ha la sensazione che nelle intenzioni della destra, c’è il proposito di approfittare della lunga assenza della sinistra per archiviare definitivamente il disegno democratico-egualitario della Costituzione repubblicana, delegittimando l’antifascismo e con esso le culture politiche che, pure appartenendo a matrici ideologiche diverse (social-comunista, cristiano-sociale, azionista, ambientalista), hanno interpretato la carta costituzionale come un progetto di liberazione umana. La separazione della sinistra dal suo popolo ha reso possibile questo proposito, che si vorrebbe fare agire anche legislativamente per manomettere i principi costituzionali (si pensi alla flat tax), con l’evidente scopo di costituire un blocco sociale e politico che unisca i ceti più mortificati e disorientati dalle politiche neoliberali con l’establishment politico-finanziario e i suoi apparati mediatici. A far da cemento di tale progetto vi sono le pulsioni del tradizionalismo identitario con l’allineamento atlantista e il populismo neocorporativo con il rispetto della disciplina in campo finanziario. Il punto di fusione di questo composito quadro identitario è, come ai tempi della prima discesa in campo di Berlusconi, l’anticomunismo. Che in Italia, ma non solo, significa avversione nei confronti di ogni aspirazione egualitaria e democratica in senso non meramente formale.

La campagna elettorale mostra una destra capace di imporre la propria agenda, mentre le disperse e divise componenti del centrosinistra operano di rimessa e agiscono in ordine sparso. Non è, ovviamente, un problema tecnico riconducibile all’efficacia degli strumenti e dei toni della comunicazione. Quanto piuttosto la conseguenza di quel lungo periodo di vacanza politica e culturale, di cui l’ultimo capitolo è l’assorbimento nel buco nero del draghismo. Al di là degli evidenti errori nella conduzione politica e nelle alleanze, ciò che manca è un’analisi della realtà italiana e la capacità di formulare parole d’ordine che sappiano interpretare le frustrazioni e le speranze della parte di società più sfruttata e umiliata. Ancora una volta, il rischio è di apparire i più rigidi difensori dello status quo, con tutto il carico di ingiustizia. Ivi compreso il sostegno alla prosecuzione a oltranza della guerra e alle conseguenze sempre più pesanti che sta provocando in campo economico e sociale, soprattutto in materia energetica. Molti di questi temi sono al centro del forum cui hanno partecipato Gaetano Azzariti, Francesco Barbagallo e Laura Pennacchi, un confronto approfondito da cui è emersa l’esigenza di rimettere radicalmente in discussione i presupposti ideali e culturali dell’ordine neoliberale improvvidamente sposato dalla sinistra (non solo italiana) negli ultimi decenni. Un compito di lunga lena, che richiede generosità e coraggio. La sinistra assente è un dato della realtà odierna, non è un destino. Tocca a noi far sì che il “nuovo ordine politico meloniano” che si prospetta all’orizzonte inneschi un contromovimento con cui dar vita alla Seconda Rinascita della Nazione. In fondo, come dice il poeta, dove cresce il pericolo, cresce anche la speranza. Noi ci siamo… e voi cari lettori?

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