IDEATO E DIRETTO
DA ANTONIO CANTARO
E FEDERICO LOSURDO

IDEATO E DIRETTO DA ANTONIO CANTARO E FEDERICO LOSURDO

Sotto l’urto dell’Intelligenza artificiale

Viviamo davvero in un mondo in via di de-occidentalizzazione? In realtà stiamo facendo i conti con un'occidentalizzazione perversa. Oggi è l'ora di ChatGPT. L’incontro con questa forma di intelligenza “aliena” richiede più eguaglianza e più controllo.

19 ottobre 1945: era ancora addensata sui cieli di Hiroshima e Nagasaki la caligine mortale sprigionata dalla fungaia d’agosto. All’altro capo del mondo Eric Arthur Blair – nom de plume George Orwell – provvedeva ad introdurci, dalle colonne di The Tribune, alle strutture e ai misteri dell’epoca avveniente. Come primo atto invitava ad archiviare l’età di «fucili, moschetti, archi e bombe a mano»: tutte «armi intrinsecamente democratiche». Hanno tenuto a battesimo «la grande era della democrazia e dell’autodeterminazione democratica». Ora con l’atomica tutto cambia: siamo all’«arma tirannica per eccellenza». D’ora in poi «solo tre Stati, in definitiva forse solo due, sono in grado di condurre una guerra su larga scala». Ormai «abbiamo davanti a noi la prospettiva di due o tre mostruosi super-stati, ciascuno in possesso di un’arma con cui milioni di persone possono essere spazzate via in pochi secondi, dividendo il mondo tra loro».

L’età del “contenimento e consumo”

In tale distopico futuro squadernato dal fungo atomico – e appena lambito magari agli occhi di Orwell da visionari quali Herbert George Welss o James Burnham – «poche persone hanno ancora preso in considerazione le sue implicazioni ideologiche: vale a dire, il tipo di visione del mondo, le credenze e la struttura sociale che probabilmente prevarrebbero in uno stato al tempo stesso invincibile e in uno stato permanente di ‘guerra fredda’ con i suoi vicini».

La seconda parte del Novecento, con gli incubi e i riti del bipolarismo, con crisi e conflitti devastanti attutiti e regolati dalla deterrenza, è già tutta schizzata in queste poche righe. Di lì a poco, Orwell ne avrebbe perfezionato la visione nella magistrale distopia di 1984 e nel versetto fondativo del ‘bi-pensiero’ – «La guerra è pace»- effigiato sulla facciata del «Ministero della Verità».

Per decenni la cappa della deterrenza atomica ha ingabbiato il mondo con i suoi comandamenti. Dapprima anche in forme ed esiti sorprendenti. Come dimenticare i decenni della crescita sospinti paradossalmente dall’opulenza del «burro e cannoni», di sviluppo e welfare alimentati anche dalla cornucopia del «keynesismo militare», con la spirale di spese per armamenti in continua crescita, contraddittorie portatrici di sviluppo e prosperità?

Non a caso il Novecento, come «secolo breve», termina con lo sfaldarsi del bipolarismo: caduta del Muro e collasso dell’URSS. In verità già prima il duo Keynes-Kennan – la doppia ‘K’ dei Trente Glorieuses, con la loro doppia ‘C’ di «consumo» e «contenimento» – aveva cessato la sua influenza benefica.

Da tempo la Big Science, nata con l’atomica e il Progetto Manhattan, aveva preso a sospingere il mondo per altri sentieri. Messa in moto ancora dalla fondamentale «mano pubblica» s’avventura ora per le vie ardite magari della «conquista della Luna» o per quelle più accidentate delle reaganiane «guerre stellari» o ancora nella epocale invenzione, ad opera della statunitense Darpa, di una rete di comunicazione «senza centro», Internet, capace di funzionare anche dopo la distruzione per mano nemica di nodi fondamentali. A dirigerla in concreto stanno però ora le ibride e complesse geometrie della regolazione neoliberale incarnata dalla mutazione del governo in governance: in luogo del ‘centro’ di un tempo, formalmente e gerarchicamente deputato all’esercizio del potere, ora maglie transnazionali, variamente intessute di pubblico e privato, indirizzano, controllano ed esercitanola sovranità. Per ondate successive nuove stagioni di innovazione tecnologica hanno iniziato a sommergerci, scomponendo il mondo e l’umanità in filamenti di DNA e sequenze di bit. A far tappa epocale l’avvento di straordinarie forme di comunicazione planetaria. Il mondo intero, compresso su schermi sempre più piccoli, ora viene letteralmente portato nelle tasche dei viandanti del XXI secolo.

L’età della decolonizzazione

Quasi parallelamente alle distopiche narrazioni di Orwell, altri ammonimenti si levavano dall’Inghilterra del secondo dopoguerra. A pronunciarli, e indirizzarli soprattutto nei confronti degli europei, era Arnold Joseph Toynbee: adesso è proprio il Vecchio Continente a «subire la lezione che attorno al 1500 ha iniziato a impartire al mondo». Ora è soprattutto l’Europa a «trovarsi minimizzata in confronto al mondo d’oltremare da essa stessa chiamato alla esistenza nella storia». La durevole spinta dell’epocale vittoria sul nazifascismo in realtà tiene a battesimo quella che Hedley Bull battezzerà «la rivolta contro l’Occidente». È iniziata l’età della decolonizzazione prolungatasi per taluni aspetti sin sulla soglia del Terzo Millennio, sino a quel 30 giugno 1997 che, con la restituzione di Hong Kong alla Cina, lascia ormai solo su granelli di Terra l’etichetta di colonia. Lo smantellamento dei grandi imperi europei stravolge la struttura profonda del mondo. Geoffrey Barraclough ricorderà che tra «il 1945 e il 1960 si rivoltarono al colonialismo e conquistarono l’indipendenza non meno di quaranta paesi, con una popolazione di 800 milioni, più di un quarto della popolazione mondiale. Non era successo mai, durante tutta la storia dell’umanità, un rovesciamento così rivoluzionario in un tempo così breve». Nel 1955 a Bandung i rappresentanti del cosiddetto Terzo Mondo impugneranno le Carte delle Nazioni Unite e dei Diritti Universali contro quelle nazioni e potenze attestate ancora in difesa di vecchie conquiste imperialistiche e nuove forme di sfruttamento. La principale creatura della II guerra mondiale, l’ONU, si trasforma sotto quell’urto prolungato, fino a divenire assemblea dominata a stragrande maggioranza da ex possedimenti coloniali: di lì lo sconvolgendo la struttura oligarchica dell’organizzazione e causandone così, fondamentalmente, la crisi.

Con straordinaria efficacia Hobsbawm ha riassunto questo complessivo, epocale mutamento sottolineando come sia divenuto «sempre più chiaro nella seconda metà del secolo breve che il Primo Mondo può vincere battaglie, ma non guerre contro il Terzo Mondo». Il primo ventennio del XXI secolo ha suonato conferma di questi assunti e le geometrie rivelate dal disporsi delle varie potenze mondiali rispetto alla guerra in corso contro l’Ucraina rivela quanto pesi l’isolamento Occidentale e come e quanto sia stata ridisegnata nel mondo l’egemonia a stelle e strisce: specie dopo Trump e il precipitoso ritiro dall’Afghanistan. Inediti equilibri si ridisegnano attorno alla nuova Via della Seta intessuta dall’autocrazia cinese mentre l’incerto cammino europeo, ulteriormente azzoppato dalla Brexit, rivela come e quanto Putin puntasse a capitalizzare su queste defaillances.

“Grande convergenza” e unificazione dell’umano

 A dispetto però di queste profonde fratture, la nostra frequentazione della globalizzazione ci rivela che la storica «grande divergenza» segnalata da Kenneth Pomeranz sotto gli effetti della rivoluzione industriale si è venuta ricomponendo in una «grande convergenza», in un riequilibrio epocale di ragioni di scambio e di vita. A partire dalla fine degli anni Settanta la straordinaria crescita demografica del pianeta – dai 2,5 miliardi del 1950 agli 8 dei nostri giorni – si è accompagnata al riequilibrio delle ragioni di scambio e produzione sul pianeta: grazie soprattutto agli straordinari processi di delocalizzazione attivati dalle transnazionali e all’apertura all’investimento estero praticata dalle autocrazie, l’industria ha visto gli addetti di Giappone e paesi occidentali scendere dal 65% del 1970 all’attuale 27%. A crescere le Tigri asiatiche assieme ai giganti di India e Cina.

A guardar bene, però, è in altri segni, in altre manifestazioni che risiede una sorta di unificazione del mondo, più sottile, resistente allo sguardo, straordinariamente ambigua nelle sue manifestazioni. La «folla solitaria» che David Riesmannel 1950 vedeva agitarsi per le streets e avenues di New York o Chicago, con il suo individuo massificato, eterodiretto, ‘conformato’ ai gusti e alle mode del suo gruppo di riferimento, solo e disarmato nella moltitudine che agitava marciapiedi e mercati, non è più nel Terzo Millennio un segno distintivo della civiltà occidentale. Ansiosa, inquieta, irrefrenabile agita e rimescola spazi e tempi di quel 60% dell’umanità che ormai vive, ai quattro angoli del mondo, nelle megalopoli del pianeta, nelle sue megacities. Bulimica di vita e consumi allunga la sua giornata sempre più nella notte, mercificando oltre misura desideri e bisogni, a discapito magari di una accettabile socialità: il risultato è che oltre un miliardo di persone vive ormai in slums e che le aree urbane del pianeta sono costrette a fare i conti con crimine, traffico congestionatissimo, carenza di case, inquinamento, approvvigionamento energetico quando non d’acqua potabile ecc.

Il «tempo è denaro» diceva Max Weber in un’altra età con riferimento a quei tratti culturali del protestantesimo che egli vedeva come molla spirituale del capitalismo. Dov’è che questa massima non è divenuta molla quotidiana dell’agire ad ogni latitudine e per ogni cultura della Terra?

Verso l’ “umanaio globale”

Viviamo davvero un mondo in via di de-occidentalizzazione? Oppure – a dispetto di sushi e ideogrammi dilaganti giorno e notte – stiamo facendo i conti con una occidentalizzazione perversa, con dicotomie che non spaccano il mondo per aree di influenza o dominio, ma provvedono ad ogni latitudine a segmentare l’umanità e spesso in campi contrapposti. Già molto tempo fa, Zbignew Brzezinski – l’inesausto organizzatore della Trilateral Commission, il forum per eccellenza dell’occidentalismo illuminato – aveva visto avanzare una «potenziale dicotomia nella visione mondiale e nell’identità umana che non solo non ha precedenti, ma che si pone in netto, paradossale conflitto con la compressione di spazio e tempo tipica della nostra epoca». Ora essa diviene lacerazione nella struttura della vita, nella e della umanità: «da una parte c’è chi sarà sempre più in grado di sfruttare i maggiori poteri dell’umanità di gratificarsi e di manipolarsi, dall’altra quelli per cui la vita resterà soprattutto una lotta per la sopravvivenza in un mondo essenzialmente minaccioso». Per vie assai simili ma da altro angolo visuale Alexander Zinov’ev è approdato ad una identica sottolineatura del primato occidentale e delle sue conseguenze. Come elemento distintivo del processo egli ha individuato una grande rupture, una «grande frattura», non più solo nella struttura sociale ed economica del mondo, ma nello stesso «processo dell’evoluzione»: nel corso della seconda metà del Novecento, «il processo di evoluzione incontrollato ha lasciato il posto ad una evoluzione progettata e diretta». L’Occidente, a partire dal predominio esercitato grazie a leve finanziarie, militari, mediatiche, culturali, si è costituito in «sovrastruttura» dell’umanità, capace di definire in alcune sue componenti, centrate sugli USA, «obiettivi relativi all’evoluzione umana in sé e su scala globale e di sviluppare piani per conseguirli». È questa «sovrastruttura» che, coinvolgendo le élites del Sud e dell’Est, è in grado di esercitare l’egemonia sul mondo intero, fino a determinare le forme globali di aggregazione e vita. In stridente contrasto con l’ideale, con la parola d’ordine che sospinge l’intero processo – la più occidentale delle idee, ovvero l’«unificazione del genere umano in comunità» – la globalizzazione approda alla costituzione dell’«umanaio globale»: una sorta di formicaio costruito non attorno alla cooperazione degli «uomini formica», ma «attorno ad una lotta surrettizia e contenuta, ma nello stesso tempo ostentata e incoraggiata da tutte le conquiste della civiltà». L’«insocievole socievolezza degli uomini», che Immanuel Kant poneva a cardine e motore della società civile e dei suoi esiti cosmopolitici, è pervertita, nella visione di Zinov’ev, nel brulichio indistinto dell’individuo consumatore, «nella lotta senza quartiere degli uomini formica», dominata dalla competizione totale, dalla convinzione per cui «una società di nemici che rispettano le regole dell’inimicizia è più stabile di una società di amici che violano le regole dell’amicizia».

A esito paradossale di questi processi, perennemente sospesi nel chiacchiericcio debordante che ci isola sempre più nel maneggio quotidiano di tastiere e telecamere, è qui in Occidente che siamo costretti a constatazioni sempre più amare. Il «capitalismo cannibale» intravisto da Nancy Fraser come motore primo della globalizzazione neoliberale – «programmato per divorare le basi sociali, politiche e naturali della propria esistenza … sempre più intento a espellere miliardi di persone dall’economia ufficiale verso zone grigie di lavoro informale» – produce proprio nelle culle originarie che lo hanno tenuto a battesimo i suoi effetti più deleteri. Si pensi agli USA: l’egemonia indiscussa conquistata nell’elettronica e nel digitale mondiali si è tramutato nel declino di interi ceti, lavorazioni e comunità, dando vita a quella che Giuseppe Maione ha bollato come una «forma tossica di polarizzazione politica» alimentata soprattutto dal degrado del lavoro: oggi, in luogo della stabilità della catena di montaggio di un tempo e dei suoi salari, imperversano burg-flipper (gira-hamburger) e stock replenishers, magazzinieri, postini, personale di pulizia, gig-work e clic-work (impiego occasionale di persone, però, il più delle volta dotati di bachelor degree, l’equivalente delle nostre lauree triennali). Ed è in queste aree che prevale l’ansia per il futuro, arroccamento, separazione, richiesta di protezione.

Lo smarrimento europeo

 In Europa i processi non sono meno divisivi né meno accentuati tramonto e declino della partecipazione politica. Qui oggi sperimentiamo con particolare acutezza – ma senza mai farne veramente tesoro – una antica lezione di Toynbee: prima di altri abbiamo compreso che «lo stato nazionale europeo … è un recipiente di gran lunga troppo piccolo e fragile per contenere le forze di industrialismo e democrazia. Quei vini nuovi sono stati versati e rinchiusi in bottiglie vecchie, e dunque le hanno fate scoppiare senza rimedio. A noi oggi riesce difficilmente concepibile che a costituire l’unità effettiva minima finale del sistema industriale non siano almeno l’intera superficie utilizzabile del pianeta e tutta l’umanità. E, parimenti, sul piano politico, l’unità minima mostra oggi una tendenza ad aumentare le sue proporzioni, in accordo con l’estensione a raggio mondiale dell’attività industriale». L’incerto, claudicante cammino dell’Unione Europea testimonia con assoluta evidenza l’incapacità del Vecchio Continente a mettere davvero a frutto quanto appreso dalla storia. Il risultato è l’anomia, la crisi sempre più accentuata di istituzioni democratiche galleggianti in uno spazio pubblico invaso da nuove, tribali forme di comunicazione, con conflitti sociali che smarriscono i loro tratti collettivi, stravolgendo struttura e forma della società europea.

Quale destino?

 Sono questi i risultati paradossali di quella ormai trentennale terapia impartita al mondo dall’utopia tecnocratica delle nuove oligarchie, dei nuovi padroni dell’universo. Per Andrè Gorz si è trattato di un progetto inquietante ormai divenuto realtà amara con cui provare davvero a fare i conti: «la scienza realizza il suo progetto originario, si emancipa dal genere umano». Riecheggiando Vico, Aldo Schiavone ha intravisto in questa complessiva occidentalizzazione del mondo il coronamento di un sogno antico: l’uomo che «fa sé regola dell’universo».

Con «il passaggio nel controllo evolutivo della specie dalla natura alla mente», l’uomo di Terzo Millennio starebbe costruendo un mondo integralmente prodotto dalla propria cultura.

Oggi simili constatazioni sulle soglie raggiunte dall’umana avventura producono allarmi straordinari. Già Putin da un anno e passa ormai ci richiama a considerazioni più meste ed allarmate su questo controllo assoluto dell’uomo sul globo: non passa giorno dell’avventura ucraina che non sia punteggiato da annunci più o meno fatali sull’utilizzo dell’arma finale, sulla possibile estinzione dell’umanità per decisione di un qualche Sapiens. Alle news però dai campi di battaglia si sono da ultimo aggiunte le grida provenienti da ambienti in genere dediti ad occupazioni più soft e disincantate. È il turno, ad esempio, di Yuval Noah Harari, uno degli storici più celebrati ed ascoltati dei nostri giorni.

Da tempo il suo sguardo si è soffermato sui rischi e i pericoli riservati dai più osannati ritrovati della rivoluzione scientifica e tecnologica: in breve tempo potrebbero «estromettere miliardi di esseri umani dal mercato del lavoro, e creare una nuova, enorme classe di individui inutili, provocando sovvertimenti sociali e politici per i quali non esiste ideologia capace di controllarne le conseguenze». Oggi, di fronte all’immenso potere distruttivo celato nei meandri della nostra civiltà non «possiamo permetterci altri modelli fallimentari guerre mondiali e sanguinose rivoluzioni … potrebbero risolversi in guerre nucleari, mostruosità geneticamente ingegnerizzate e il collasso della biosfera».

AI, una potenza ostile senza controllo ed eguaglianza

 Nei giorni scorsi però il suo sguardo si è soffermato su uno dei ritrovati che ci ha fatto strabuzzare occhi e cervello: ChatGPT, quella diavoleria, quell’ultimo ritrovato dell’intelligenza artificiale piombato sulle nostre scrivanie e nei nostro smartphone, con il suo sinuante invito ad entrare in conversazione ed ascolto. Stupefatti abbiamo fatto qualche prova e siamo restati affascinati quando non letteralmente basiti. Abbiamo così anche appreso quasi immediatamente che è divenuto popolarissimo tra gli studenti, anche giovanissimi, e strumento di utilizzo immediato per la produzione di filmati, musiche, insomma nelle forme più larghe ed usuali di interazione umana.

Ed è a questo proposito che Harari ha scritto un allarmato saggio sulle colonne dell’«Economist». Egli si è e ci ha chiesto: «cosa accadrebbe una volta che un’intelligenza non umana diventa migliore dell’umano medio nel raccontare storie, comporre melodie, disegnare immagini e scrivere leggi e scritture»? Più che al mondo scolastico, musicale o cinematografico la domanda era immediatamente posta in relazione a prossimi, decisivi appuntamenti politici e istituzionali: magari la prossima corsa presidenziale americana nell’ormai vicinissimo 2024. Quale «l’impatto degli strumenti di intelligenza artificiale, AI, che possono essere realizzati per produrre in massa contenuti politici, notizie false e scritture per nuovi culti»? Di fatto l’AI è uscita dai laboratori per dilagare e coinvolgere milioni di persone in relazioni dirette, di fatto intime. Ma oggi, constata Harari, «in una battaglia politica per le menti e i cuori, l’intimità è l’arma più efficace». Ed allora cosa accade «alla società umana e alla psicologia umana mentre l’AI combatte un’altra AI in una battaglia per fingere relazioni intime con noi, che possono quindi essere utilizzate per convincerci a votare per determinati politici o acquistare determinati prodotti»? Cosa accadrà al corso della storia quando, incalza Harari,  «l’intelligenza artificiale prenderà il sopravvento sulla cultura e comincerà a produrre storie, melodie, leggi e religioni? Strumenti precedenti come la stampa e la radio hanno contribuito a diffondere le idee culturali degli esseri umani, ma non hanno mai creato nuove idee culturali proprie. L’AI è fondamentalmente diversa …  può creare idee completamente nuove, una cultura completamente nuova».

Allarmi simili sono venuti da più parti, persino da personaggi quali Elon Musk,  che di questi sviluppi ultimi di scienza e tecnologia è uno dei diretti responsabili, o Henry Kissinger, addirittura, uno dei facitori del mondo che abitiamo. Da tempo ha preso a interrogarsi su questi nuovi orizzonti e a collaborare con quanti provano a evitare disastri. Suo l’interrogativo: cosa accade nel caso in cui «in una possibile situazione in tempo di guerra, l’intelligenza artificiale raccomandi di agire in un dato modo, considerato tremendamente poco saggio dal presidente e dai suoi consiglieri»?  Grandi orizzonti nella risposta: «fare con l’intelligenza artificiale quanto fatto con le armi nucleari: richiamare l’attenzione generale sull’impatto di questa nuova evoluzione».

Parecchio più meditati e promettenti magari i richiami di scienziati e tecnici da tempo immersi direttamente in ricerche sul campo. A tratto comune di tutte le denunce l’appello al controllo, ma soprattutto all’eguaglianza, alla necessità di garantire a tutti accesso e condizioni paritarie e chiare di utilizzo. Soprattutto di fronte al rischio che ad avvantaggiarsi di simili ritrovati siano regimi autocratici: le notizie dall’estremo oriente non sono confortanti in proposito. Lì la corsa è già iniziata sia pur rallentata dalla morsa di censura e controllo dall’alto.

A mettere urgenza – al di là di stucchevoli interrogativi sulla reale natura di strumenti quali ChatGPT in rapporto all’intelligenza umana – è la natura della posta in gioco. È sempre Harari a rilanciare: «le armi nucleari non possono inventare armi nucleari più potenti. AI può rendere esponenzialmente più potente AI. Abbiamo appena incontrato un’intelligenza aliena, qui sulla Terra. Non ne sappiamo molto, tranne che potrebbe distruggere la nostra civiltà. Dovremmo porre fine all’utilizzo irresponsabile degli strumenti di intelligenza artificiale nella sfera pubblica e regolamentare l’AI prima che sia lei a regolare noi».

Sotto l’urto di queste epocali innovazioni l’eguaglianza cessa di essere un’aspirazione, un sogno o una cappa, secondo i vari punti di vista. Ora diventa un bisogno, il primo bisogno. Per non perdere il controllo.

PS. Seguendo sempre i consigli di Harari, meglio precisare. Questo testo è il prodotto di un umano. Segue firma autentica non prodotta artificialmente.

 

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