IDEATO E DIRETTO
DA ANTONIO CANTARO
E FEDERICO LOSURDO

IDEATO E DIRETTO DA ANTONIO CANTARO E FEDERICO LOSURDO

Sull’economia post-sovietica, una testimonianza

Due scene. Da una parte, Eltsin chiama a raccolta gli esperti statunitensi. Dall’altra, un altro film: alti burocrati, avventurieri, contrabbandieri che si impadroniscono a costo zero dei gangli vitali dell’economia

Antefatto
Nel 1988 è capitato a chi scrive, per le solite bizzarrie del caso, di partecipare, insieme ad una cinquantina di economisti dell’est e dell’ovest, ad un progetto “segreto” di riforma dell’economia sovietica, sponsorizzato da una parte da Gorbaciov e dal suo primo ministro Ivanov, dall’altra dalla fondazione “Open society” di George Soros. Le riunioni del gruppo si svolgevano tra Mosca e Londra e sia Ivanov che Soros hanno seguito da vicino lo svolgimento dei lavori.
Tali riunioni si tenevano a Mosca in un edificio che non presentava alcuna insegna all’esterno, mentre la delegazione era ospitata nell’albergo del Comitato Centrale del Pcus, molto vecchio stile; nell’edicola interna erano disponibili le copie dell’Unità e dell’Humanité, vecchie di almeno un paio di settimane.
Durante lo svolgimento dei lavori, fummo colpiti tra l’altro dal fatto che il sistema economico di allora del paese era in grado di offrire alla popolazione i prodotti ed i servizi di base – certo con delle differenziazioni tra la città e la campagna e tra le varie aree del grande territorio dell’URSS – e la piena occupazione, ma non molto di più. I privilegi delle classi dirigenti erano abbastanza ridotti in confronto con la situazione della società occidentale di allora e di oggi. L’indice di Gini, che misura i livelli di diseguaglianza economica nei vari paesi, era allora tra i più bassi del pianeta.
Si trattava di un sistema molto rigido ed inefficiente, in cui si riusciva alla fine a dare priorità ad un solo settore, quello militare, mentre l’industria e i servizi si trovavano in una situazione molto arretrata (alcune fabbriche, da noi allora visitate, funzionavano ancora con macchinari dell’epoca zarista, mentre altre possedevano sistemi tecnologici avanzati, ma utilizzati dove erano sostanzialmente inutili), mentre il settore agricolo impiegava ancora una fetta molto importante della popolazione (gli economisti russi presenti agli incontri parlavano, se ricordo bene, di una cifra reale intorno al 35% del totale della forza lavoro, anche se i numeri ufficiali erano  inferiori; non sappiamo quale fosse la verità). Date le sue rigidità, il sistema sembrava nella sostanza irriformabile: a toccare un solo mattone, si aveva la sensazione che potesse cascare giù tutto l’edificio.
Dai colloqui con gli altri economisti si riusciva anche a percepire in qualche modo come la posizione “riformista” di Gorbaciov fosse piuttosto debole. C’erano nel nostro gruppo di lavoro una ventina di esperti russi, tra i quali alcuni molto noti all’epoca; la maggioranza di essi erano su posizioni neoliberiste anche estreme (tanto che dovevano essere quelli occidentali a cercare di frenare il loro entusiasmo verso tale modello), una nutrita minoranza rappresentava una tendenza molto conservatrice, mentre i gorbacioviani “puri” erano una parte ridotta. Gli economisti presenti che venivano dagli altri paesi dell’allora patto di Varsavia erano sostanzialmente allineati alla corrente russa maggioritaria.
Il gruppo di lavoro venne comunque ad un certo punto bloccato, ma non si è a suo tempo capito per quali ragioni. Forse perché i risultati a cui esso stava arrivando non sembravano aprire prospettive entusiasmanti, o forse perché stava dando dei risultati poco interessanti o forse ancora perché il gruppo dirigente del paese era preso ormai da altre questioni. Spiegazioni ufficiali non ne arrivarono.
In ogni caso nel 1988 apparivano evidenti le difficoltà crescenti del sistema: a Mosca era molto difficile reperire dei semplici rullini fotografici, i libri di maggior successo si trovavano sottobanco, nei ristoranti i camerieri vendevano privatamente le confezioni di caviale della casa. Si parlava di un forte livello di corruzione e di una burocrazia paralizzante.
Gorbaciov aveva già nel 1987 messo sul tavolo dei provvedimenti di liberalizzazione dell’economia, con una accettazione controllata degli strumenti di mercato, ma con la permanenza di un forte governo statale, con l’apertura inoltre agli investimenti esteri, concedendo infine una rilevante autonomia di gestione alle imprese. Ma le reazioni di un corpo molto debilitato sembravano piuttosto deboli.

La caduta del sistema e il periodo di Eltsin, tra Sachs e gli oligarchi
Nel dicembre del 1991 l’Unione Sovietica cessava di esistere e si formavano sulle sue ceneri 15 repubbliche indipendenti. Da segnalare come in realtà che quelle asiatiche, a cominciare dal Kazakhstan, avrebbero preferito fortemente restare unite alla Russia, ma Eltsin rifiutò l’alternativa, mentre quelle europee, a cominciare da quella ucraina, apparivano molto più favorevoli allo smembramento. Comunque, nella sostanza, si dava il potere in mano a dei satrapi. In alcune repubbliche tutto restò sostanzialmente come prima; semplicemente, come racconta in un suo libro Tiziano Terzani, negli edifici del partito comunista locale furono solo cambiate le etichette nell’ingresso e nei vari corridoi e uffici.
Sul piano economico assistiamo a due scene che si svolgono nella sostanza parallelamente. Da una parte, su quella ufficiale Eltsin, per riformare l’economia, chiama a raccolta gli esperti statunitensi, con in testa Jeffrey Sachs e i suoi Chicago boys, che promuovono la versione standard della ricetta neoliberista: la cancellazione dell’intervento statale, il blocco della spesa pubblica e le privatizzazioni selvagge, nonché l’apertura immediata e totale dell’economia all’esterno. Queste idee vengono appoggiate totalmente, as usual, dal Fondo Monetario Internazionale. Chissà quali somme avranno richiesto gli economisti Usa per tale consulenza!
Intanto, nelle segrete stanze di Mosca, si svolge un altro film, comunque parallelo a quello precedente e che ha i suoi presupposti nello stesso. Emerge e si fa presto dominante la figura degli oligarchi, spesso alti burocrati, avventurieri, contrabbandieri, che, nel caos emergente dei primi tempi, si impadroniscono, con varie forme fraudolente e con la necessaria complicità di un potere allo sbando, dei gangli vitali dell’economia, tramite la privatizzazione dei grandi gruppi, praticamente a costo zero. A chi scrive è stato raccontato persino che, dopo che la segretaria di un ministero aveva passato la notte alla macchina da scrivere per preparare gli atti della privatizzazione di alcuni grandi gruppi, le fu regalata come premio per la sua efficienza la proprietà di una importante impresa chimica. Non sappiamo se l’episodio sia vero, ma esso fotografa molto bene la situazione di quegli anni.
Gli oligarchi sono in grado ormai di condizionare pienamente il potere politico. Ma intanto, anche grazie ai consigli degli economisti americani, le cose precipitano sul piano economico e sociale. In pochi anni si registra una caduta ufficiale del reddito del 40%, mentre, in ragione di una severa stretta creditizia, nel 1994-95 i tassi di interesse reali salgono al 200%, con la pratica cessazione degli investimenti e una forte crescita della disoccupazione, mentre per gli scambi si torna almeno in parte al baratto. Si assiste ad un forte aumento nella concentrazione della ricchezza e ad una altrettanto forte crescita nei livelli di povertà; la percentuale di popolazione che viveva sotto il livello nazionale di povertà passa dall’1,5% alla fine dell’era sovietica sino a più del 40% a metà degli anni novanta. Il coefficiente Gini sale intanto da un valore di 28,9% nel 1991 al 40% nel 2000. Le condizioni di salute della popolazione si deteriorano fortemente, mentre aumenta altrettanto fortemente la mortalità e diminuisce di molto la vita media. La speranza di vita maschile passa nel 1994 sotto i 58 anni.
Dopo tre tentativi falliti di stabilizzazione dell’economia, nel 1998 la situazione si fa molto grave (tra l’altro nell’agosto il governo russo fa default con il suo debito, evento che si potrebbe ripetere in queste settimane, ma provocato in maniera artificiale dagli Stati Uniti) e gli oligarchi a questo punto decidono di cambiare cavallo, affidandosi ad un certo Vladimir Putin, già operante nei servizi segreti (ma Eltsin non si fidava di lui) e che, come raccontano le cronache, qualcuno va a trovare all’estero, dove era in vacanza al mare, offrendogli il governo del paese. Si pensava che fosse un personaggio innocuo e facilmente governabile, ma la storia proverà che le cose non staranno proprio così.

Arriva Putin
Il periodo della gestione Putin si può dividere in due momenti, quello di prima della crisi del 2008-2009 e quello successivo. La prima fase si caratterizza soprattutto per una gestione economica più brillante che non la seconda. In entrambe le fasi gli eventi esterni avranno un ruolo rilevante.
La prima cosa che Putin, appena arrivato al potere, mette in chiaro con gli oligarchi, alcuni dei quali vengono presto incarcerati o costretti all’esilio, è che devono smettere di occuparsi di politica e che devono pensare soltanto agli affari. Dopo di che, viene lasciata loro mano libera.
Intanto, aiutato anche da alcune circostanze esterne favorevoli (i prezzi del petrolio e del gas salgono in misura notevole, mentre il rublo era stato notevolmente svalutato) Putin riesce a far ripartire di nuovo e bene l’economia. Riprendono gli investimenti, anche quelli esteri, si riduce il debito pubblico, cresce la domanda interna, migliora fortemente la bilancia commerciale; nella gran parte del primo decennio del nuovo secolo il pil aumenta all’incirca del 7% all’anno e nel 2007 esso ritorna sostanzialmente ai livelli di prima della caduta, mentre anche la situazione sociale del paese migliora in misura rilevante (così la popolazione al di sotto dei livelli di povertà scende al 14% del totale nel 2007). Tra il 1998 e il 2008 il pil misurato in rubli quasi raddoppia, mentre quello pro-capite, se misurato con il criterio della parità dei poteri di acquisto, passa dagli 8,6 mila dollari del 1998 ai 21,7 mila del 2008. Intanto le esportazioni crescono dai 100 miliardi di dollari del 2000 ai 350 del 2007 e le riserve in dollari raggiungono i 676 miliardi alla fine del 2008, mentre rientrano anche molti capitali prima esportati all’estero. Dal 2008 ricomincia a crescere anche la popolazione, grazie in misura rilevante ad un processo di immigrazione soprattutto dai paesi dell’Asia Centrale.
Nei primi tre anni di governo, Putin segue politiche economiche orientate allo sviluppo del libero mercato, mentre, successivamente, dal 2003 in poi, si passa ad un periodo di rafforzamento del ruolo dello Stato e del suo intervento nell’economia, politica che viene portata avanti sino ad oggi. Il paese, comunque si reintegra progressivamente nell’economia mondiale. Arriva poi la crisi del 2008. Il prezzo del petrolio, per il crollo della domanda, si riduce di circa tre quarti, mentre il rublo è soggetto a speculazioni al ribasso. Si ridimensiona il saldo della bilancia commerciale, si riducono le entrate statali, si riduce il reddito, aumenta la disoccupazione. Il pil cade fortemente nel 2009 (-7,9%), ma poi riprende a crescere, anche se a livelli annui inferiori a quelli del periodo precedente. Nel 2012 la Russia entra comunque, finalmente, nell’Organizzazione Mondiale per il Commercio.
Si verifica un nuovo incidente nel 2014, anche se va sottolineato che le sanzioni varate in tale anno dall’Occidente per l’annessione della Crimea non hanno pesato molto per alcuni aspetti sull’economia del paese; si registra nel 2015 un moderato calo del pil, ma già nel 2017 esso torna a crescere. E arriviamo ad oggi; a causa della pandemia, il pil si riduce nel 2020 del 2,8%, ma nel 2021 si registra una rilevante ripresa, con un + 4,7% sull’anno precedente.
La crisi del 2008 ha anche come conseguenza che si arresta sostanzialmente la rincorsa del pil pro-capite russo nei confronti di quello della Germania, se misuriamo i valori con il criterio della parità dei poteri di acquisto; il pil pro-capite del primo paese è pari nel 1995 a poco più del 30% di quello tedesco e risale intorno al 50% nel 2008, ma successivamente esso ristagna e cresce leggermente negli ultimi anni.
Se consideriamo poi l’Ucraina, uno dei paesi più poveri d’Europa, anche se rilevanti progressi si sono registrati dallo scioglimento dell’Unione Sovietica ad oggi in tale paese il pil-pro-capite era pari nel 1995 al 20% di quello tedesco ed era salito sino al 26% nel 2008, mentre oggi esso appare fermo al 27%. In ogni caso, utilizzando il criterio della parità dei poteri di acquisto, il pil pro-capite del paese era nel 2021 pari soltanto al 74% del suo livello del 1989.
Nel frattempo e sanzioni del 2014 hanno in qualche modo trasformato l’economia russa; esse hanno spinto il governo a rivedere e a ridurre il suo livello di integrazione nell’economia mondiale, a spingere verso uno sviluppo più autonomo (il successo più rilevante in tale campo è stato quello della forte crescita dell’agroalimentare all’interno, mentre nel settore dello sviluppo industriale ed in particolare in quello delle alte tecnologie i progressi sono stati più ridotti) e, d’altro canto, si sono intensificate le relazioni economiche con i paesi non occidentali, aumentando soprattutto la sua dipendenza verso la Cina. Gli scambi con tale paese hanno raggiunto circa 150 miliardi di dollari nel 2021 e potrebbero crescere ancora fortemente. L’obiettivo, prima delle sanzioni, era di portarli in pochi anni ai 250 miliardi.

La situazione dell’economia oggi
Usando il criterio dei prezzi di mercato, il pil della Russia si colloca oggi all’undicesimo posto tra i vari paesi del mondo. Ma se si usa quello della parità dei poteri di acquisto, esso si posiziona nel 2021, utilizzando i calcoli della Banca Mondiale, al 6° posto (con la Cina che registra un pil di 26,6 mila miliardi di dollari, gli Stati Uniti 22,7, l’India 10,2, il Giappone 5,6, la Germania 4,7, la Russia 4,3).
A livello pro-capite, il pil si colloca, invece, intorno alla settantesima posizione, in base al criterio dei prezzi di mercato e alla quarantasettesima, considerando quello della parità dei poteri di acquisto. Con quest’ultimo criterio esso supera nel 2021 il livello dei 30.000 dollari.
Ora, per effetto delle sanzioni gli esperti valutano che il pil del paese per il 2022 dovrebbe subire una contrazione tra il 7 e il 10% e qualcuno pensa ad una cifra anche maggiore (per l’Ucraina l’Economist Intelligence Unit stima per lo stesso anno una caduta del pil del 46,5%), mentre il tasso di inflazione potrebbe assumere valori ancora più elevati: si parla di un 17%. Ne soffriranno presumibilmente soprattutto le classi più disagiate.
Peraltro, le conseguenze delle sanzioni sul paese sembrano alla fine un poco meno drammatiche di quanto anticipato; tra l’altro, i russi si erano preparati da tempo a questa evenienza. Ma bisognerà aspettare almeno qualche mese per vedere cosa succede veramente.
Per quanto riguarda le spese militari, questione ovviamente molto rilevante, secondo le valutazioni del Sipri di Stoccolma la Russia si pone nel 2020 al quarto posto in valori assoluti, con l’esborso di 61,7 miliardi di dollari, contro l’esorbitante cifra di  778 miliardi degli Stati Uniti, 252 della Cina e 72,9 dell’India; a livello di incidenza della spesa militare sul pil, calcolato a prezzi di mercato, quella russa si colloca nello stesso anno al 4,7%, contro il 3,7% degli Stati Uniti, l’1,7% della Cina (stima)e il 2,9% dell’India.
Al di là delle contingenze, sul piano strutturale l’economia del paese non sembra collocarsi in una posizione così brillante.
La debole specializzazione produttiva della Russia  è mostrata abbastanza fedelmente dalle merci che essa scambia con il resto del mondo. Nel quadro di una bilancia commerciale largamente positiva (nel 2021 essa, dopo gli alti e bassi degli anni precedenti, presenta un surplus di 190 miliardi di dollari, la Russia esporta materie prime e prodotti energetici, che da soli, comprendendo anche il carbone, rappresentano nel 2019 circa il 60% del totale dell’export, nonché derrate agricole, mentre deve importare gran parte dei prodotti ad alto livello tecnologico. Le esportazioni manifatturiere rappresentano una quota limitata del totale, anche se si registra qualche miglioramento nell’ultimo periodo. In tale settore, la Russia è presente in modo significativo nei beni di prima lavorazione, in industrie quali quella chimica e quella alimentare, nel settore nucleare civile, nel business militare. Alla fine, il paese resta per larga parte un’economia di rendita, cui si è aggiunta negli ultimi tempi una buona base di agricoltura.
Sul piano sociale, le diseguaglianze di reddito e di ricchezza sembrano essersi accentuate, mentre ancora oggi la spesa sanitaria pubblica, pure cresciuta nel tempo, è largamente inferiore in rapporto al pil a quella dei paesi europei più sviluppati. Per quanto riguarda l’indice Gini, secondo gli ultimi dati disponibili e che si riferiscono al 2018, la Russia raggiungerebbe il livello di 37,5, un livello di qualche punto inferiore a quello riportato nel periodo di Eltsin, in confronto a quello più elevato degli Stati Uniti 41,4  e il di poco inferiore 35,9 dell’Italia.
Al di là delle sanzioni e vista la situazione complessiva, lo sviluppo futuro dell’economia russa appare abbastanza incerto. In ogni caso, essa dovrà riorientarsi indirizzandosi prioritariamente verso i paesi asiatici. In tale quadro, una via d’uscita verso l’alto potrebbe essere rappresentata dallo sfruttamento da parte della Cina delle grandi risorse siberiane e, più in generale, degli investimenti anche in tecnologie; quest’ultimo paese potrebbe collaborare anche a ridurre la debolezza dell’economia russa in un altro campo, il settore industriale. L’economia potrebbe fiorire in una ventina di anni, ma la Russia risulterebbe alla fine molto dipendente dalla Cina, cosa a cui i gruppi dirigenti del paese e la stessa popolazione guardano con grande diffidenza; diffidenza altrettanto forte rispetto al progressivo inserimento economico dei paesi dell’Asia Centrale, già loro dominio, nell’orbita della stessa Cina, un processo che appare al momento inevitabile. Per altro verso, la società russa non conosce bene la Cina e non la sente vicina; essa manifesta anche una certa xenofobia verso gli stranieri differenti fisicamente (A. C. Lebedev, 2022).
Al momento, al di là di qualche caso di collaborazione virtuosa, quale quello della progettazione e futura produzione di un grande aereo commerciale ed ora anche nel settore spaziale, la collaborazione scientifica e tecnologica tra i due paesi appare relativamente ridotta e potrebbe essere molto più sviluppata.

La strada per il distacco dal gas russo non sembra breve
A chiusura di queste note, può essere utile sottolineare la difficoltà per l’Europa di liberarsi a breve termine del gas russo, cosa che invece viene presentata come una strada abbastanza agevole secondo le dichiarazioni di molti, a cominciare dalla presidente dell’UE, Ursula von der Leyen e da qualche nostro brillante governante; gli esperti del settore appaiono di un’altra opinione. Tra i paesi europei solo i tedeschi sembrano avere le idee chiare sulla questione.
Diamo intanto il quadro sintetico della situazione attuale; secondo i dati disponibili (fonte: Eurostat), nel primo semestre del 2021 l’UE ha importato il 46,8% del suo fabbisogno di gas dalla Russia, il 20,5% dalla Norvegia, l’11,6% dall’Algeria, il 6,3% dagli Stati Uniti, il 4,3% dal Qatar e il 10,5% da altre fonti.
Gazprom è il gigante del settore a livello mondiale; esso produce più gas di BP, Shell, Chevron, Exxon, Saudi Aramco messi insieme. Nel 2021 il gruppo russo ha consegnato 540 miliardi di metri cubi di gas; 331 miliardi sono andati al consumo interno, 168 hanno preso la strada dell’Europa e 10 soltanto quella della Cina (Wilson, 2022).
Naturalmente, per liberarsi dal gas russo bisognerebbe o trovare altri fornitori, o ridurre i consumi, o avviare delle fonti alternative. La seconda e la terza opzione richiedono ovviamente del tempo, misurabile per lo meno in alcuni anni, mentre comporterebbero anche la necessità di molti investimenti.
Esaminiamo con più attenzione la prima alternativa.
Cominciamo con i paesi occidentali.
Per quanto riguarda la Norvegia, il nostro secondo fornitore dopo la Russia, si può dire che le riserve disponibili del paese non sono più quantitativamente quelle di una volta; essa ha subito promesso, per aiutare i paesi della UE, di aumentare la produzione di 1,4 miliardi di metri cubi all’anno a partire dall’ottobre 2021, una cifra sostanzialmente nulla, persino minore dell’incremento di produzione che il nostro ministro alla cosiddetta transizione ecologica promette di estrarre dal mare Adriatico. Con qualche sforzo il paese potrebbe arrivare a esportare sino a 5 miliardi di metri cubi in più. Oltre questa soglia la Norvegia non sembrerebbe poter andare.
In relazione agli Stati Uniti. Il presidente Biden ha dato la sua parola di fornire all’UE, con graziosa concessione, 15 miliardi di metri cubi supplementari di LNG all’anno (ma senza specificare l’origine geografica del gas, (Brower, McCormick, 2022)), volume pari al 10% delle importazioni di gas russo nel 2021, mentre promette 50 miliardi di metri cubi a partire dal 2030 (The Economist, 2022).
Ma gli esperti mostrano in proposito grande scetticismo. Gli Usa hanno già in opera il 100% della capacità degli impianti di liquefazione del gas e non c’è praticamente niente di più da esportare nel breve termine. Ogni nave ulteriore spedita dagli Stati Uniti all’Europa deve quindi per il momento essere ridiretta da un’altra destinazione (Brower, McCormick, 2022). Per cambiare in maniera sostanziale la situazione occorrerebbero, secondo quanto riportato dall’Economist, da 4 a 5 anni e investimenti per decine di miliardi di dollari (35 miliardi, secondo una stima riportata dal giornale). Anche la UE dovrebbe aumentare di molto le sue infrastrutture per accogliere tale tipologia di gas. Solo Spagna e Francia hanno dei terminali adeguati per riceverlo, ma essi non servono per coprire i fabbisogni della parte Est del continente, Germania compresa. Quest’ultima non ha terminali e occorrerebbero diversi anni per metterli in piedi.
Se vediamo il problema dal punto di vista delle grandi imprese occidentali del settore, esse non sembrano avere grandi incentivi a investire per aumentare la capacità produttiva: quello del gas è un settore che garantisce ritorni economici solo nell’arco di una quindicina d’anni, di fronte ai problemi crescenti e all’incerto futuro delle fonti fossili da una parte, a degli azionisti delle società dall’altra che cercano profitti in un orizzonte molto più di breve termine (Wilson, 2022).
E veniamo agli altri paesi.
Per quanto riguarda l’Algeria, bisogna considerare che si tratta di una fonte che minaccia di esaurirsi nel giro di pochi anni. Va ricordata inoltre la profondità dei legami economici e politici tra l’Algeria e la Russia. Il paese africano si è astenuto all’Onu sulla risoluzione che condannava l’invasione russa; esso non dimentica il sostegno ricevuto al momento della lotta per l’indipendenza, mentre oggi, tra l’altro, acquista il 70% dei suoi fabbisogni di armi dal paese amico ed ha in generale rapporti cordiali con esso (Bobin, 2022). In ogni caso, ricordiamo che le forniture all’UE da parte di tale paese si sono ridotte di quasi un terzo tra il 2007-2008 e il 2021 e che nell’immediato le possibilità di un loro aumento sarebbero limitate. Se l’Algeria mostrasse buona volontà, cosa da verificare sul campo, sarebbero comunque necessari tempi lunghi e grandi investimenti per aumentare le consegne, in una situazione che registra impianti obsoleti e che richiedono un’ampia manutenzione.
Per quanto riguarda il Qatar, paese alleato degli Usa, esso possiede certo le terze riserve di gas al mondo, ma circa il 90% della sua produzione è vincolata da contratti di lungo termine, stipulati principalmente con diversi paesi asiatici e che non possono essere cambiati (Barthe, 2022). D’altro canto, esso non si può inimicare troppo Mosca in un’area, quale quella del Medio Oriente, che tende ad avere legami sempre più cordiali con la Russia e la Cina, come hanno dovuto registrare in queste settimane i rappresentati statunitensi che si sono recati in Medio Oriente al fine di verificare la disponibilità dei vari paesi dell’area a partecipare al gioco delle sanzioni. Con il Qatar il margine di manovra può riguardare al massimo soltanto il 10% libero da contratti di lungo periodo; solo a medio termine il paese può diventare un fornitore importante, quando da una parte scadranno i contratti in essere (ammesso che gli attuali clienti si mettano graziosamente da parte) e dall’altra, con investimenti adeguati, si sarà eventualmente aumentata la capacità di produzione. Un orizzonte ragionevole per un aumento delle consegne potrebbe essere il 2025 (Wilson, 2022).
Resterebbe infine l’Iran, che possiede potenzialmente grandi riserve di gas, ma per arrivare ad esportarlo sarebbero necessari, oltre alla caduta delle sanzioni, cosa possibile a breve termine, grandi investimenti che richiederebbero almeno qualche anno per essere portati a compimento. E poi bisognerebbe vedere quanto il paese sarebbe eventualmente disponibile a contrastare la Russia.
Alla fine, sembra che ci si potrebbe liberare del gas russo solo con il tempo e con la disponibilità dei vari attori, oltre a dare un dispiacere alla Russia, a effettuare rilevanti investimenti, sia nel gas, che nelle fonti rinnovabili e nel risparmio energetico. Per altro verso, può anche succedere che i rapporti con la Russia con il tempo migliorino, ma comunque nel frattempo essa avrà, d’altro canto, trovato altri clienti. E così è da poco che è stato varato un importante progetto per portare il gas dei giacimenti che forniscono l’UE sino alla Cina, progetto che richiederà alcuni anni per essere completato. Sottolineiamo ancora che, secondo il parere degli esperti, nei prossimi anni ci troveremo in una situazione in cui a livello globale la domanda eccederà l’offerta.
Last, but not least, ricordiamo comunque che ci sono degli altri problemi aperti. Così, se la Germania volesse chiudere, come sarebbe auspicabile e come alla fine dovrà fare, sia le centrali a carbone che quelle nucleari, dovrebbe sostanzialmente raddoppiare, almeno temporaneamente, i suoi fabbisogni di gas. Aggiungiamo, infine, che nei primi due mesi del 2022 la Russia ha incassato con le sue esportazioni di gas verso la UE un ammontare di dollari pari a quello di tutto il 2020 e potrebbe arrivare ad  incassare centinaia di miliardi alla conclusione dell’anno in corso.

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