IDEATO E DIRETTO
DA ANTONIO CANTARO
E FEDERICO LOSURDO

IDEATO E DIRETTO DA ANTONIO CANTARO E FEDERICO LOSURDO

Terza guerra mondiale o nuova guerra globale?

Siamo di fronte ad una guerra figlia della glocalizzazione, altro che guerra imperialista e guerra difensiva. Nell’interdipendenza a prevalere sulla logica strategica, agita dalla convenienza, è la logica identitaria, agita dall’intransigenza. La Cina e l’“orizzonte” di un prossimo conflitto identitario.

Nel senso comune, la qualificazione di una guerra come mondiale ha riguardo al teatro delle operazioni belliche. Questo senso comune si è, però in parte modificato da quando anche la guerra del 14/18, la c.d. Grande guerra, ha preso ad essere qualificata come “prima” guerra mondiale. Ed infatti, mentre l’ultima guerra è stata combattuta in Europa, in Africa e in Asia ed ha visto l’America del nord (USA e Canada) come sua protagonista pressoché su tutti questi campi di battaglia, la guerra del 14/18 è stata prevalentemente combattuta sul territorio europeo ed ha visto gli altri continenti, soprattutto il Medio oriente (Impero ottomano), interessati da operazioni se non proprio marginali quanto meno essenzialmente collaterali.
Questa guerra precedente, che non a caso prima era designata anche come Guerra europea, allarga, dunque, il significato di mondiale, centrandolo, invece che sul teatro delle operazioni belliche, sull’estensione e la dislocazione delle potenze interessate dal conflitto. In questo senso più largo anche l’attuale guerra ucraina potrebbe, senza troppe difficoltà, essere qualificata come mondiale. Essa, infatti, ad un quadro delle operazioni belliche limitato ad un solo paese aggiunge un confronto militare e politico che vede l’intero Occidente contrapporsi ad una potenza “euroasiatica”, che ambiva a rappresentare, almeno militarmente, l’altra parte del mondo. Anche in questa accezione, però, la continuità con le guerre del secolo scorso non lascia molto soddisfatti, poiché sembra mettere in ombra le specificità rispetto ad esse del conflitto di oggi: soprattutto la circostanza che esso si svolge in un contesto mondiale completamente diverso e sembra esibire ragioni che, al di là delle un po’ rozze aggettivazioni con cui di solito lo si definisce, potrebbero sembrare non sovrapponibili alle dinamiche del passato.

Fukuyama e Huntington, due mezze-verità

Realisticamente, quella di Putin non può essere definita una guerra imperialista, come molti con queste categorie l’hanno chiamata: nessuno può seriamente pensare che le sue mire siano rivolte a paesi che, come quelli baltici o quelli balcanici, rientrano ormai nella NATO e sono protetti dal suo ombrello. Così come – a dir le cose come stanno – non si può neanche definire quella condotta quasi per procura dalla Nato sul terreno ucraino una guerra meramente difensiva verso una minaccia imperialistica. Non è con queste categorie che si può capire fino in fondo quel che è successo e che sta succedendo. E’ questo che, allora, dà senso all’idea di chiamare piuttosto quella ucraina una nuova guerra globale. Chiamarla globale, però, diventa cognitivamente produttivo, e cioè serve ad accresce la nostra comprensione, solo se si prova a coniugare questa guerra con le categorie della globalizzazione e le sue dinamiche: non con la qualità nuova dei mezzi (peso delle tecnologie e della propaganda) ma con le ragioni ed i fini propri di questa epoca.
Tutti ripetono che nella fase attuale la globalizzazione si è inceppata o sembra entrata in uno sviluppo contraddittorio: sglobalizzazione e riglobalizzazione. Ma c’è una dimensione che, tuttavia, permane e che sembra innegabile, quella di una interdipendenza, che così non c’era mai stata, tra le economie e le politiche degli Stati nazionali e delle dinamiche che aggregano e reggono le relazioni reciproche. Nonostante il tempo trascorso, i paradigmi eminenti della globalizzazione, o meglio delle sue dinamiche geopolitiche, rimangono, per molti versi, ancora quelli di Fukuyama e di Huntington: da un lato, l’omologazione planetaria della tecnica e del mercato e, dall’altro, lo scontro di civiltà.
Con queste categorie la guerra mossa dalla Russia all’Ucraina e l’intervento dell’Occidente andrebbero letti, rispettivamente, come la retriva resistenza di una sacca di mondo arcaico ed alieno al cosmopolitismo mercatista e le inarrestabili pulsioni espansive della tecnica e del mercato oppure come il confronto, nel cuore dell’Europa, tra la civiltà confessionale e autoritaria dell’Oriente e la civiltà secolare e democratica dell’Occidente. È vero che la crociata predicata da Kirill e la tradizione zarista evocata da Putin, da un lato, e la retorica/enfasi dei valori occidentali, dall’altro, potrebbero far pensare alla pertinenza di queste opposizioni. Ma è anche vero che la Russia, pur nella relativa modestia dei suoi assets industriali, è già parte dell’economia globale e attrice del suo mercato planetario e che i valori occidentali non sono del tutto disgiunti dal controllo geopolitico del mondo e delle sue risorse. Dunque, la Russia non si può dire estranea/esterna alla globalizzazione e l’Occidente non è esclusivamente un altro mondo, l’alfiere di altre insegne. E d’altronde, è stato convincentemente spiegato che quelle di Fukuyama e Huntington sono due mezze-verità che, in modo un po’ diverso, appaiono entrambe centrate sulla medesima dicotomia di “vecchio” e “nuovo”, mentre le fenomenologie che accadono nell’odierno spazio globale vanno comprese ormai come fenomenologie della stessa globalizzazione.

Mundus e globus

Questo fa pensare che occorra considerare le dinamiche di questa guerra a partire da un’idea di globalizzazione un po’ più complicata. Un approccio diverso è quello che muove dalla differenza semantica tra mundus e globus (per tutti Giacomo Marramao), che la distinzione tra mondiale e globale necessariamente implica.
È stato detto che mundus evoca uno spazio ancora aperto e la storia della sua conquista e che globus, al contrario, evoca la finitezza di una terra ormai ridotta a sfera e la sua ormai avvenuta appropriazione, uno spazio unico e liscio. Dunque, il mundus come dimensione dell’espansività e il globus, invece, come dimensione della compiutezza. Le implicazioni di questi due distinti nuclei di senso sono molteplici. Ma, per il punto di vista geopolitico su cui qui si sta riflettendo, è sufficiente considerarne solo taluni aspetti salienti.
L’espansività assume a referenti cruciali i soggetti e la logica dell’espansione e rimanda agli assetti inaugurati dallo spartiacque di Westfalia: lo Stato nazionale sovrano, l’appropriazione delle terre “libere” (fuori dai confini europei) e, soprattutto, la logica dell’interesse nazionale che per secoli ne ha retto i movimenti.
La formazione dello spazio globale segna il tramonto dello Stato-nazione, modifica il problema con cui quel che resta dell’antico “Leviatano” è chiamato a confrontarsi e ne rende impraticabile la logica. La compiutezza, che è la cifra dello spazio globale, e cioè il suo darsi come un unicum abitato da tutti, innesca due opposti problemi tra loro paradossalmente connessi.:
Il primo problema è quello hobbesiano dell’ordine, e cioè dell’inevitabile passaggio dall’ordine multipolare dei vecchi Stati sovrani ad un ordine, che, pur riferendosi ancora ad una realtà multicentrica, deve strutturare uno spazio unico e, perciò, ambisce ad essere unipolare.
Il secondo problema è quello opposto che nasce dal paradosso dell’omologazione e unificazione forzose, che provengono da questa spinta all’ordine unipolare, e della differenziazione culturale/identitaria che questa spinta tuttavia produce. Come è stato detto, l’unificazione produce essa stessa differenza.
Ne segue la definitiva rottura del modello westfaliano: per un verso, è soppiantato il vecchio ordine fondato sull’isomorfismo tra popolo, territorio e sovranità e, per un altro verso, è messa al tappeto la logica regolativa che gli era propria, quella racchiusa nel vecchio diritto internazionale fondato sul rispetto dei confini territoriali, sulla tendenziale neutralità per quel che avveniva al loro interno e sul calcolo delle convenienze, degli interessi del consesso degli Stati sovrani.

Dal conflitto di interessi al conflitto di valori

Il paradosso della produzione globale di “località” e la differenziazione culturale/identitaria, in cui prende forma, modificano la natura dei conflitti che si producono nello spazio globale, li muta in conflitti cultural-identitari che non conoscono più confini territoriali ed esorbitano dal calcolo delle convenienze.
Su questo, però, bisogna intendersi, perché, da un lato, è vero che anche le guerre di prima si ammantavano di motivazioni culturali (il militarismo autoritario degli Imperi centrali vs. le libertà dell’Intesa o le dittature nazi-fasciste vs. le democrazie degli Alleati) e, dall’altro, è del pari vero che anche dietro la guerra di oggi si muovono interessi economici relativi al controllo delle fonti di energia e delle materie prime e, più in generale, del mercato mondiale.
Ma c’è una differenza fondamentale, quella che culture e interessi si danno ora in uno spazio unico, in uno spazio senza confini e che i conflitti, che in questo spazio “sconfinato” insorgono, assumono, di conseguenza, caratteri simili a quelli delle “guerre civili” (v. appresso), dove sugli interessi, che pur rimangono densi e forti, prevale la cultura, l’identità, e la loro intransigenza. La quale mette fuori campo l’arsenale tradizionale degli Stati-nazione che era, invece, strutturato per fronteggiare conflitti, ove dominanti nella disputa apparivano invece gli interessi.
Il passaggio dalla modernità-nazione alla modernità-globo, insedia, dunque, al posto della dominanza del conflitto di interessi la dominanza del conflitto di valori, e perciò insedia, al posto della dominanza della logica strategica agita dall’interesse e dalla convenienza, la dominanza della logica identitaria segnata dall’intransigenza. La logica identitaria, infatti, ha riferimento ad un incommensurabile e mette in scacco il paradigma utilitaristico, e con esso il Leviatano dello Stato-nazione, il quale strutturalmente, non è più in grado di governare quest’ordine di conflitti.
Così avviene che, diversamente da prima, nel nuovo spazio globale prendono a confrontarsi e scontrarsi una strategia di contenimento e dissoluzione volta a incapsulare ed incistare le identità e scioglierle con il solvente del libero commercio e l’abito uniformante del consumo e una strategia di sconfinamento intesa ad estendere l’identità fin dove giunge l’area della cultura sua propria, onde così radicarla e rafforzarla.

Una guerra figlia della glocalizzazione

Sembra quasi che, con la globalizzazione, la storia abbia preso a percorrere gli itinerari preconizzati da C. Schmitt. Il diritto internazionale, che veniva dal compromesso tra lo jus publicum europeum (centrato sui confini e le sovranità) e la logica (sconfinata) del mare liberum, che aveva retto il mondo fino alla caduta del muro di Berlino, entra in crisi. Prevale la logica del mare liberum, della libertà di appropriazione, affrancata, però, dal vecchio obbiettivo coloniale e ormai sconfinata e dematerializzata. Sconfinata, perché trapassa adesso i confini terrestri e si riferisce al pianeta come ad un unicum, a tutto e a tutti ovunque si trovino. Dematerializzata, perché cessa di avere di mira i territori d’oltremare e si rivolge al dominio del commercio e delle economie, a tutto il commercio ovunque avvenga e a tutte le economie ovunque si trovino.
La logica del mare liberum diviene così, a differenza di prima, una logica assoluta, che non ammette altro da sé e che, perciò, si concepisce come destino del mondo, come nuovo ed unico “sacro” di tutta l’umanità. E tuttavia il radicamento terrestre (il nomos della terra- come lo chiamava Schmitt) che reggeva il vecchio diritto internazionale, annichilito dalla globalizzazione, ritorna, paradossalmente, senza i limiti di prima, senza i suoi confini terrestri che prima lo contenevano, ritorna come cultura/identità e diviene, perciò, esso stesso sconfinato.
Alla guerra “legale” (tra pari sovrani nei loro confini), che il diritto internazionale del dopo-guerra aveva cercato di insediare, si sostituisce lo justum bellum, ove i contendenti si concepiscono come katechon, come potere rivolto a fronteggiare il male (rispettivamente, dell’attentato all’ordine unipolare della globalizzazione, all’idolo “liberale” del pianeta, e dell’uniformazione del mondo che cancella le differenze della terra). Così al posto dell’hostes (della guerra fra stati), che è pari e con cui si tratta, si insedia l’inimicus (della guerra civile), che è il male assoluto, la mente criminale da annientare, con cui perciò non si può trattare. Dimodoché il conflitto si muta in guerra senza scampo del bene contro il male.
Come Cesare fa dire a Labieno proprio nel De bello civili: desinite ergo de compositione loqui, nam nobis nisi Caesaris capite relato pax esse nulla potest.
La guerra ucraina sottende, per l’appunto, questa mutazione e le due strategie che essa porta con sé: la strategia della Nato intesa al contenimento della spinta identitaria della Russia in vista del suo dissolvimento e la strategia della Russia volta allo sconfinamento dell’identità che essa ritiene di impersonare fino ad inglobare l’intera area della sua cultura.
Due strategie che – si badi – erano già all’opera ben prima che scoppiasse la guerra di oggi: da un lato, il contenimento promosso con l’espansione ad est della Nato e, dall’altro, il riscatto della nazione russa, della sua identità storica dalla svendita fattane da Eltsin, sulla quale si era costruito il consenso e il successo di Putin e che già recava in sé tutte le premesse dello sconfinamento.
È in questo modo diverso che la qualificazione di globale fa leggere la guerra che si sta conducendo sul suolo dell’Ucraina. Con questa diversa lettura e con le sue differenti categorie, infatti, questa guerra appare figlia legittima della globalizzazione, del paradosso della glocalizzazione (e cioè della produzione globale di “località” identitarie) che le è proprio e dei conflitti identitari che essa stessa produce.

La Cina e l’“orizzonte” di un prossimo conflitto identitario

Questa lettura non induce affatto ad essere ottimisti. L’attinenza all’incommensurabile della “sacra” libertà e della insopprimibile “identità” rende i conflitti in cui essa è implicata estranei alla logica strategica della convenienza, e dunque li rende di difficile mediazione e composizione: la nuova modernità-globo, attrezzata per i conflitti di interesse, non ha ancora strumenti e logiche in grado di comporre i nuovi conflitti identitari. Come sembra mostrare la circostanza che in questa guerra, a differenza di quel che avvenne ai tempi di Papa Giovanni, di Kennedy e di Kruscev, nessuna reale trattativa è, finora, riuscita a decollare. Questo rende verosimile che questa guerra non possa avere altro sbocco che o l’annientamento di Putin o una qualche annessione dei territori russofoni dell’Ucraina e che questa radicalità dei fini susciti il rischio della radicalità dei mezzi: l’incommensurabile radicale ed esclusivo che entra in modo devastante nella storia del mondo fino a prendere il nome di nucleare.
Ma questo apre anche un altro scenario non meno preoccupante, quello che quel che sta avvenendo ora possa condurre domani all’insorgenza di un nuovo conflitto identitario. La comprensione di questa guerra entro le dinamiche geopolitiche della globalizzazione fa capire che l’Ucraina può essere solo l’inizio e che quel che verrà dopo potrà essere ancora più allarmante: molte cose fanno pensare che dopo la Russia venga la “diversità” della Cina.
La Cina è stata, certamente, la maggior beneficiaria della globalizzazione, e questo spiega la sua posizione sull’attuale conflitto ucraino. Ma la sua è stata una globalizzazione per molti versi a senso unico: ha aperto i suoi mercati ma ha preservato strenuamente la sua cultura ed il controllo politico dell’economia che di essa fa parte. Essa, perciò, costituisce – piaccia o no – un’anomalia identitaria entro il dispositivo generale della globalizzazione. Un’anomalia su cui l’Occidente si è fin qui diviso (tra l’allettamento europeo ai commerci e la preoccupazione americana per un sorpasso economico e tecnologico) e che, invece, la guerra ucraina sembra aver ricompattato.
La Cina, però, non potrà mai accettare che una strategia di contenimento inglobi una Russia convertita all’Occidente e giunga ad accerchiarla a nord lungo un confine di seimila chilometri. Mentre, d’altra parte, una Russia sconfitta (e verosimilmente poco disponibile verso chi la ha “umiliata”) non costituirà più, per essa, una minaccia. Il che fa pensare che la “passiva amicizia” di oggi si possa mutare, prima o poi, in una vera alleanza.
Ma quest’alleanza determinerà la saldatura del residuo potere nucleare russo e soprattutto del suo controllo di buona parte delle riserve mondiali di energia e materie prime con la potenza tecno-economica cinese. Con le tensioni che si possono immaginare, e rispetto alle quali Taiwan potrà costituire solo un pretesto. E d’altronde, non ci si potrà neanche rallegrare osservando che, comunque, così i valori morali, finalmente, saranno prevalsi sugli interessi materiali. Gli interessi permangono forti dietro i valori e si compongono con essi secondo il dispositivo del doppio standard, che della morale è, invece, la tomba. Qualcuno ha detto “come potrai dire a tuo fratello: permetti che tolga la pagliuzza dal tuo occhio mentre nell’occhio tuo c’è la trave?”. Si può soltanto sperare che questo scenario venga scongiurato da una pace come quella che oggi predica solo Francesco, da un’altra immagine del mondo e delle relazioni tra gli uomini e le donne che lo abitano.

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