IDEATO E DIRETTO
DA ANTONIO CANTARO
E FEDERICO LOSURDO

IDEATO E DIRETTO DA ANTONIO CANTARO E FEDERICO LOSURDO

Umanesimo o stalinismo?

Pubblichiamo un contributo di Luigi Cavallaro apparso nel 2016 in "Sconfinamenti. Scritti su marxismo economia ed epistemologia". L'autore sostiene che il culto della personalità è pseudoconcetto che sposta nel campo delle sovrastrutture gli abusi, gli errori e i crimini, senza indagare le loro condizioni.

2. A noi non è stato dato di sognare: non di Stalin, e nemmeno di Calogero Schirò. In quanto compaesani di Sciascia, ce lo possiamo soltanto immaginare seduto a cucire nella sua bottega, in una traversa del corso principale, la foto di Stalin ritagliata e incorniciata sulla parete: novello Joseph Dietzgen e come lui filosofo proletario autodidatta. Ma se non Stalin, certo lo «stalinismo»torna continuamente a turbare i nostri sonni: perché non c’è ancora che un nome al posto di un concetto che possa finalmente render comprensibile ai comunisti la loro stessa storia.
Nessun comunista ragionevole, in effetti, può negare che il movimento operaio ha fatto la storia del XX secolo all’insegna di una linea politica e di pratiche staliniste. E tutti devono ammettere che la denuncia del «culto della personalità» fu un escamotage per occultare che di tutto quanto era successo dall’indomani dell’Ottobre nessuno sapeva darsi una spiegazione. Si trattava – notò a ragione Louis Althusser già nei primi anni ’60 del secolo scorso – di uno pseudoconcetto, che spostava nel campo delle sovrastrutture gli «abusi», gli «errori» e naturalmente i crimini, senza però darsi pena d’indagare le loro condizioni. Dimenticando che una spiegazione storica in tanto può rivendicare il titolo di «marxista» in quanto riporti l’agire delle circostanze sovrastrutturali sulla base dei rapporti di produzione.
È certo frutto di un’astuzia della storia se, a settant’anni dalla morte di Stalin, questa «leggenda nera»è diventata un luogo comune della storiografia borghese, che ha bollato di «stalinismo» tutto ciò che è venuto dall’esperienza dell’Unione Sovietica, inclusi il governo pubblico dell’economia, il partito di massa, i diritti sociali di cittadinanza e la stessa piena occupazione. Una situazione del genere, infatti, costringe inevitabilmente i comunisti a volgersi indietro e a riprendere i fili del problema lì dove essi hanno cominciato ad aggrovigliarsi: più precisamente, in quel «punto zero» della storia dei rapporti di produzione socialisti in cui si è avuto l’incontro tra masse organizzate in un partito, da un lato, e mezzi di produzione e forza-lavoro lasciati «liberi» dalla crisi della riproduzione capitalistica, dall’altro. Un «incontro» affatto casuale: se si vuole, altrettanto «casuale» di quello tra i proprietari di denaro e di mezzi di produzione e i proletari «liberi», venditori della propria forza-lavoro, che Marx ci ha spiegato essere all’origine della storia del modo di produzione capitalistico. Ma al pari di quello destinato a «far presa» e a durare: a «fare epoca», si potrebbe dire con espressione gramsciana. Non certo per una qualche «teleologia» immanente allo sviluppo storico, che dissimulerebbe l’ennesima teologia, ma semplicemente perché i rapporti di produzione che ne sono scaturiti hanno dato luogo ad un sistema economico «vitale», nel limitato eppure preciso senso che gli dava l’economista (e comunista) Piero Sraffa: cioè capace di generare un prodotto idoneo a reintegrare i mezzi di produzione consumati nel corso del processo di produzione ed eventualmente a generare un sovrappiù, da destinare all’allargamento della produzione o all’incremento del consumo.
Vorremmo suggerire che, preso nel suo punto zero, lo «stalinismo» (o la «deviazione staliniana», per dirla ancora con Althusser) è nient’altro che questo. Lo confermò lo stesso Stalin ad una delegazione operaia americana che lo intervistò nel 1927: «da noi il partito dirige il governo», disse, non senza precisare che si trattava di una situazione antitetica rispetto a quella dei paesi capitalistici, dove – ad onta dell’esistenza di grandi parlamenti democratici – i governi rimanevano sotto il ferreo controllo delle istituzioni finanziarie. Ma soprattutto, preso in questa forma «pura», lo stalinismo ha avuto ampiamente corso in quell’Occidente che per insufficiente approssimazione abbiamo continuato a chiamare «capitalistico», nonostante la direzione politica dei processi produttivi, la repressione delle pretese allocative del capitale finanziario e soprattutto la strenua resistenza delle classi proprietarie alla progressiva e inesorabile eutanasia dei rentiers (una resistenza che sfociò nella «guerra civile mondiale» che si combatté ovunque negli anni ’70 del secolo scorso) rappresentassero potenti indizi in senso contrario.
L’unico esito possibile dell’Ottobre? Lo ripetiamo ancora una volta: non è proprio il caso di reintrodurre teologie mascherate di teleologie. Ci basta retrospettivamente prendere atto che quell’«incontro» ha conferito realtà di forma sistemica a elementi – partiti, apparati pubblici, mezzi di produzione, lavoratori – che dopo la dissoluzione della razionalità ordinatrice del modo di produzione capitalistico erano rimasti per lunghissimi e terribili anni nel limbo di un’esistenza fantasmatica, segnata da crisi economiche, disoccupazione di massa e guerre mondiali. Per il resto, ricordiamo che stiamo parlando anche in questo caso di rapporti di produzione: per dirla con Marx, «determinati, necessari, indipendenti dalla volontà» degli individui che vi sono presi e, al pari di quelli capitalistici, «imposti» dalla struttura dei processi di produzione e circolazione e dall’organizzazione del lavoro che le è consustanziale. Si spiega così, per fare solo un esempio, che il potere sovietico, dopo aver instaurato il «controllo operaio» delle fabbriche, dovette quasi subito sovrapporre a quell’embrione di «proprietà sociale» dei mezzi di produzione la direzione pianificata dei processi produttivi:una volta che si fosse permesso a ciascuna fabbrica di relazionarsi con le altre e con i consumatori finali per via esclusivamente monetaria, l’impiego dei mezzi di produzione sarebbe risultato nuovamente asservito alle esigenze di valorizzazione del capitale. Marx lo aveva previsto con largo anticipo in un passo della Guerra civile in Francia (1871), che certi rumorosi apostoli dei«beni comuni» farebbero bene a rileggere: «se la produzione cooperativa non deve restare una finzione e un inganno, se essa deve subentrare al sistema capitalista», allora le «cooperative unite devono regolare la produzione nazionale secondo un piano comune, prendendola così sotto il loro controllo e ponendo fine all’anarchia costante e alle convulsioni periodiche che sono la sorte inevitabile della produzione capitalistica».

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