Il modo in cui i mezzi di comunicazione hanno presentato l’esisto della recente Cop 28 contiene un po’ di tutto: giudizi severi, valutazioni incerte del tipo luci e ombre, aperture di credito all’autorappresentazione dell’evento come un passaggio di rilievo storico. Compresa, sul versante celebrativo, l’idea che a Dubai si sia formato un nuovo ‘consenso’ finalmente all’altezza della situazione – che gli Emirati Arabi hanno prontamente intitolato a sé medesimi, presentandolo appunto come The UAE Consensus.
Una prova di impotenza
Soltanto i giudizi più duri colgono nel segno, e in certo modo, anzi, vanno rincarati (o resi più precisi). Ancora una volta, la Cop 28 ha reso evidente che l’assetto istituzionale uscito dagli Accordi di Parigi del 2015 non è in grado di contrastare il Climate Change con un qualche livello di efficacia – di dar luogo a risultati che almeno si avvicinino all’ordine di grandezza di quelli necessari. Insomma, ancora una prova di impotenza riferibile a un dato di tipo strutturale – che a sua volta, del resto, non ha nulla di casuale. L’impianto istituzionale disegnato a Parigi sconta uno stato delle relazioni globali che già allora, appunto intorno al 2015, era abbastanza pesante da giustificare l’idea di una “Terza guerra mondiale a pezzi”, e che tanto più, oggi, è all’insegna di un sanguinoso disordine globale. In condizioni del genere, sarebbe un vero miracolo se gli stati – i soli attori delle Conferenze, visto che l’ONU, quando si tratta di decidere, ha compiti di tipo notarile – riuscissero a convergere su linee di contrasto del Climate Change che non siano effimere. A ben vedere, sarebbe un po’ come se i comandi dei loro eserciti si mettessero d’accordo al fine di impiegare negli scontri soltanto droni e carri armati alimentati da energia solare.
Sotto i peggiori auspici
Alla Cop 28 si è arrivati sotto i peggiori auspici.
L’appuntamento è stato preparato da un lungo e impegnativo processo di valutazione – noto come Global Stocktake, Inventario Globale – previsto per il 2023 dagli stessi Accordi di Parigi. Nelle intenzioni, un momento alto, concepito al fine di formulare un giudizio complessivo, in un orizzonte temporale di conveniente ampiezza, circa gli sforzi messi in opera per raggiungere i fatidici target di 1,5 e 2°C. Per la verità, quando si provi a stringere, non è chiarissimo in che cosa le evidenze raccolte dal Global Stocktake si distinguano da quelle annualmente rese note dall’UNEP (United Nations Environment Programme) per mezzo degli Emissions Gap Reports. In più, il documento conclusivo dei lavori, pubblicato l’8 settembre scorso, resta fermo al quadro degli impegni assunti dagli stati alla fine di settembre del 2022, sicché è risultato subito superato dal più recente dei citati rapporti UNEP, pubblicato il 10 novembre scorso, nel quale il quadro è aggiornato al 25 settembre di quest’anno . Comunque, gli sviluppi recenti, intervenuti fino alla vigilia della Cop 28, si possono riassumere nei tre punti che seguono (cfr. Tabella 1).
- Come l’Emission Gap Report 2023 non manca di rilevare in modo esplicito, le variazioni intercorse tra gli impegni assunti rispettivamente al settembre 2022 e al settembre 2023 sono state “trascurabili” (appena 0,8 Gt CO2eq in meno con riferimento al 2030, ancora meno con riferimento al 2025). Lo stesso si vedrebbe ad andare ancora un anno indietro (una modestissima riduzione di 0,5 Gt CO2eq) – nonostante l’aria da ultima spiaggia che si respirava alle Cop del 2021 e del 2022.
- Nel 2030, secondo l’ultima ipotesi tuttora disponibile, continueremo a emettere quantità di gas climalteranti intorno al 70% in più di quelle coerenti con l’obiettivo di non superare un Global Warming di 1,5°C, di nuovo senza apprezzabili variazioni tra gli sforzi messi in programma nel 2021, nel 2022 e nel 2023.
- Come risultato, il livello del riscaldamento globale atteso è pari a 2,7°C, ma quello più probabile, in verità, è 2,9, o anche di più, visto che ben difficilmente tutti gli impegni saranno rispettati per filo e per segno, come invece si suppone ai fini del calcolo. Con un sensibile peggioramento, in questo caso, rispetto alle previsioni formulate nel 2022, dovuto al fatto che l’aggravamento delle condizioni climatiche si è intanto verificato più rapidamente di quanto si pensava. Da notare anche che il livello corrispondente alle politiche correnti è attualmente pari 3,0 (a 2,8 nel 2022), sicché l’“ambizione” di modificare il corso delle cose è quasi pari a zero. Nel frattempo le quantità effettivamente emesse (su base antropica) hanno continuato a crescere, toccando nel 2022 il nuovo record di sempre: 57.4 GtCO2 eq.
Tabella 1. Emissioni previste sulla base degli impegni assunti dagli stati
Dati in Gt CO2eq (miliardi di tonnellate)
emissioni
al 2025 |
emissioni
al 2030 |
gap 1,5°C
al 2030a |
riscaldamento
globale (°C) |
|
Impegni al settembre 2022
|
53,4 |
52,4 |
22,6 |
2,5 |
Impegni al settembre 2023
|
53,2 |
51,6 |
21,6 |
2,7 |
a con probabilità al 50%
Fonte UNEP
In presenza di una situazione tanto grave, quali novità sono emerse dai lavori di Dubai? In breve, il contenuto del nuovo Consensus sta in un elenco di “sforzi globali” ai quali gli stati sono “esortati a contribuire”. Cominciamo da quello che in certo modo occupa il centro della scena.
Cominciamo da quello che in certo modo occupa il centro della scena.
- Transitioning away from fossil fuels in energy systems, in a just, orderly and equitable manner, accelerating action in this critical decade, so as to achieve net zero by 2050 in keeping with the science.
[Operare una transizione che allontani i sistemi energetici dai combustibili fossili, in modo giusto, ordinato ed equo, accelerando l’azione nella decade critica che è in corso, così da ottenere zero emissioni nette entro il 2050, in sintonia con la scienza.]
Molti commentatori hanno salutato con soddisfazione la circostanza che per la prima volta, nel documento conclusivo di una Cop, i combustibili fossili siano stati nominati apertis verbis e che la prospettiva di abbandonarli, in un modo o nell’altro, abbia fatto il proprio ingresso nel discorso: questo appunto il “fatto storico”. Altri hanno sottolineato che si tratta però di un ingresso più timido del desiderabile, visto che “transitiong away” non è lo stesso di “phasing out” o simili.
Ora, quest’ultimo rilievo è certamente giustificato; tuttavia, per così dire, è il meno, perché il dato al quale soprattutto bisogna fare caso è che siamo in presenza di un puro e semplice auspicio, privo di qualsivoglia livello di cogenza, o anche soltanto di un qualche livello di operabilità. Circostanza che deve apparire insensata, e che però si verifica pour cause, perché in effetti discende dritta dritta dall’impianto istituzionale della lotta contro il Climate Change varato dagli Accordi di Parigi.
Nel linguaggio di questi ultimi, gli “impegni” contemplati nella Tabella 1 si chiamano NDC – Nationally Determined Contributions (Contributi definiti a livello nazionale), locuzione che implica di più di quello che a prima vista può sembrare. Significa infatti che ogni stato decide per conto proprio, in modo insindacabile, se, come, quando e quanto farsi carico degli sforzi di contrasto del Climate Change – nella fattispecie, appunto dell’allontanamento dall’impiego dei combustibili fossili nei sistemi energetici. Dove anche è il caso di osservare che la conseguenza non è soltanto un quadro di impegni privo di qualsiasi sistema di enforcement, bensì, prima ancora, privo di qualsiasi regola di ‘composizione’. La fatidica domanda ‘chi fa che cosa’ in vista del risultato aggregato che infine importa ottenere resta del tutto priva di risposta – non esiste alcuna distribuzione delle parti in commedia, alcun ‘copione’, coerente con il suo conseguimento. In un certo senso, si può sostenere che siamo perfino al di qua di una situazione del tipo ‘dilemma del prigioniero’: i comportamenti ‘cooperativi’ che in ipotesi garantirebbero l’uscita dalla crisi non mancano soltanto delle necessarie condizioni di affidamento tra le parti in causa, ma patiscono anche un radicale defict di specificazione: di fatto, sono introvabili.
Conviene insistere. Più volte, negli ultimi anni, gli stati hanno ricevuto esortazioni a irrobustire gli NDC già resi noti, alcune anche più accorate di quella contenuta nel documento conclusivo della Cop 28 – ma gli effetti prodotti dalla ripetizione di simili appelli sono appunto le trascurabili riduzioni messe in evidenza a commento della Tabella 1. Che il vigente impianto istituzionale abbia dato luogo a risultati impresentabili è quindi cosa certa – ma non appena si prenda contatto con la sua natura, fondamentalmente ‘anarchica’, diventa difficile pensare che avrebbe mai potuto produrre qualcosa di diverso genere. Ripetiamolo: se un esito aggregato di per sé altamente ‘improbabile’ viene affidato a un insieme di decisioni unilaterali, affatto discrezionali, in nessun modo sanzionabili, un’ininterrotta successione di fallimenti diventa uno svolgimento fin troppo comprensibile. E siccome la premessa non è in alcun modo messa in questione dal consensus trovato a Dubai, neppure è lecito sperare che le cose, in futuro, andranno in altro modo. A meno di non essere davvero convinti che finora sono andate male perché le fonti fossili non erano citate nei documenti ufficiali, quasi che i decisori fossero ignari dei danni causati dalla loro combustione…
L’alternativa, un Trattato di non proliferazione delle fonti fossili
D’altra parte, oltre un certo limite, neppure ha senso prendersela con la vacuità della governance uscita dagli Accordi di Parigi, il cui vero torto è quello di aver lasciato campo libero ai corposissimi interessi che da un secolo sono legati alle fonti fossili. Come è chiaro che all’insufficienza dei contenuti e delle forme che finora ha segnato la lotta contro il Climate Change bisogna pure contrapporre una prospettiva che, almeno in chiave euristica, mostri la possibilità di un approccio più stringente. La quale in effetti non è inconcepibile, come mostra l’ipotesi di un Trattato internazionale di non proliferazione delle fonti fossili da qualche tempo presente nel dibattito, che molto significativamente unisce profili di merito e di metodo (Questo il sito ufficiale dell’iniziativa: The Fossil Fuel Non-Proliferation Treaty Initiative).
Il suo contenuto si dice in due parole: porre immediatamente fine a qualsiasi attività di ricerca di nuovi giacimenti e a qualsiasi apertura di nuovi impianti, lasciando che quelli in funzione giungano alla fine del loro ciclo di vita in modalità ‘raccolto’, vale a dire senza investimenti di rinnovo. Dove i motivi di interesse sono appunto due.
Il primo è l’entità dei risultati che si potrebbero ottenere: i nuovi progetti di estrazione in corso di realizzazione, o comunque già messi in programma, uniti a quelli di rinnovo degli impianti già in funzione, sono in grado di generare emissioni che superano il doppio del Carbon Budget ancora disponibile per 1,5°C (Kühne, 2022).
La scelta di porre fine al loro perseguimento rispetterebbe dunque l’ordine di grandezza del problema che si tratta di affrontare, e non serve spendere altre parole sull’importanza di questo motivo di coerenza. Non meno importante, però, è il fatto che la prospettiva in questione rispetta anche l’esigenza di operabilità che invece è completamente disattesa dalle enunciazioni programmatiche che fino a oggi hanno tenuto il campo, Cop 28 included: i progetti di cui si tratta sono noti uno per uno, la loro sospensione è un obiettivo “chiaro e distinto”, definito in modo univoco, verificabile, associato a responsabilità di conseguimento a loro volta identificabili in termini stringenti. Così, neppure è un caso che il contenuto degli impegni sia dia una forma come quella di un Trattato, con tutto quello che il termine suggerisce di vincolante e di reciproco, e di cui dovrebbe anche far parte la creazione di idonee istituzioni di controllo ed enforcement.
Come detto, l’argomento è qui accennato soprattutto in chiave euristica, per suggerire la possibilità di un’altra logica dell’azione collettiva di cui vi è bisogno, così che per contrasto risulti più evidente l’inconsistenza di quella messa in scena dalle Cop. Tra l’altro, l’idea di una moratoria dei progetti di estrazione dei fossili lascerebbe pur sempre aperte due questioni importantissime: la distribuzione interstatale del Carbon Budget ancora disponibile, da stabilire in omaggio al principio delle Common but Differentiated Responsabilities and Related Capabilities (Calverly – Anderson, 2022), e il rischio che la sostituzione delle fonti fossili con quelle rinnovabili apra – o meglio aggravi, ché aperte sono già – ulteriori prospettive di violazione dei Planetary Boundaaries, questa volta legate al consumo di ‘materiali’ (nonché di suolo e di acqua) piuttosto che alle ‘emissioni’ (EEB, 2021). E poi, naturalmente, non si vogliono in alcun modo mettere tra parentesi le difficoltà – di tutti i tipi, anche istituzionali – che si dovrebbero mettere nel conto in sede di negoziazione, maggiori di quelle tipicamente affrontate nell’ambito delle Cop (più apparenti che reali) proprio perché la lotta contro il Climate Change sarebbe portata su un diverso piano di effettualità, comincerebbe a essere una cosa seria.
Per un Commonwealth delle civiltà
Molto altro, dunque, bisognerebbe dire. Ma anche un cenno così sommario lascia intendere quanto aspro sia il contrasto tra l’idea di un Trattato internazionale di non proliferazione dei combustibili fossili e il quadro geopolitico che globalmente abbiamo sotto gli occhi.
Il modo in cui quest’ultimo è legato alla crisi ecologica e alle possibilità di uscirne (vivi) presenta elevati profili di complessità. Solo per memoria, in vista di future ricerche, basti citare la concentrazione in Cina di buona parte delle risorse cruciali e delle tecnologie strategiche ai fini della transizione energetica, il carattere marcatamente protezionistico dei programmi ambientali varati negli Stati Uniti che certo non ne aumenta l’efficienza (Anderson, 2023), l’importanza delle risorse petrolifere medio-orientali nel quadro della politica di friend-shoring enunciata da Janet Yellen nell’aprile del 2022 (argomento non del tutto estraneo ai più recenti sviluppi del conflitto israelo-palestinese). In generale, comunque, il punto è che il Trattato che ci piace immaginare presenta condizioni di fattibilità non tanto diverse da quelle della realizzazione di qualche passo avanti nella formazione di un ordine multipolare degno di questo nome, possibilmente nella forma alta di un Commonwealth delle civiltà come quello che Giovanni Arrighi immaginava alla fine della sua carriera, del quale, in effetti, verrebbe a costituire uno dei capitoli di maggior rilievo. E se il discorso, così, sembra mettere capo a un profondo motivo di sconforto – tanto vaste sono le ragioni dell’opposta situazione di disordine, sempre più sanguinosa, che oggi domina la scena –, qualcosa ancora si può aggiungere.
In primo luogo, le condizioni della formazione di un ordine multipolare degno di questo nome sono bensì ardue e generalissime, ma non del tutto indicibili (e inoperabili…), a partire da quelle che riguardano i termini del conflitto tra USA e Cina, per tanti versi all’origine dell’attuale caos sistemico. Su di essi, per esempio, verte l’appello lanciato da Emiliano Brancaccio e Robert Skidelsky lo scorso mese di febbraio, a un anno dallo scoppio della guerra in Ucraina, dal quale utilmente si possono prendere le mosse. Certo, da un punto di vista ‘personale’, un riferimento del genere fornisce soltanto una possibile linea di ricerca intellettuale – che almeno, però, lascia intravvedere il senso e i contorni di svolgimenti storici degni di essere approvati, in cerca di autore. Dopotutto, sapere che questi ultimi non sono proprio impensabili contiene comunque un qualche motivo di conforto, e in effetti aiuta a leggere il presente.
In secondo luogo, nell’ordine delle questioni che stiamo dicendo, moltissimo dipende dalla possibilità che l’Occidente ripensi qualcosa di sé stesso – e questo, però, è un compito ‘pratico’, che ognuno dei suoi abitanti può avvertire come proprio e come materia di azione collettiva. Una volta di più, il ripensamento deve riguardare l’assillo della crescita iscritto nel cuore del capitalismo, per altro a partire da una sorta di contraddizione interna, o almeno da una ‘smagliatura’, che si è aperta nel cuore delle società e delle economie avanzate. Per quanto le riguarda, cospicue evidenze stanno a indicare che la perenne espansione dei mercati si è da tempo separata dal ‘progresso’: la forma di una crescita esponenziale all’infinito è pretesa dalle istanze di valorizzazione del capitale, ma non è più vendibile come un vettore di aumento dei livelli di benessere vissuti dalle persone. Appunto, come per tempo vide Scitovsky, un’economia infelice, senza gioia, senza ‘desiderio’.
Su questo, allora, si può lavorare, e i termini stessi del problema sembrano indicare l’operazione da mettere in agenda: spostare le tende dal terreno della crescita, occupato dalle merci, a quello delle “manifestazioni di vita umana” (Marx) e di queste, come idea regolativa, coltivare tutta la possibile, inesauribile ricchezza, in forme condivisibili da tutte le persone. Salvo errore, un cambiamento del genere è una prospettiva ‘conveniente’, che le società e le economie avanzate possono perseguire per sé stesse, affinché la loro propria storia prosegua in modo degno, civile, ragionevole – e al tempo stesso, però, è una prospettiva intrinsecamente ecologica, globalmente equilibrata e perciò pacifica. L’uscita dall’assillo della crescita implica infatti sia un generale alleggerimento della pressione sui Planetary Boundaries sia la fine della sua manifestazione più iniqua, vale a dire il drenaggio di risorse non pagate che i paesi ricchi, in lotta tra loro, operano a danno del Sud globale, il quale verrebbe quindi a disporre dei mezzi di sviluppo dei quali ha bisogno e della possibilità di usarli senza che le compatibilità ambientali del pianeta ne escano ancora danneggiate (ovviamente siamo di nuovo al principio delle responsabilità comuni ma differenziate) (Hickel, 2022).
Che condizioni del genere siano coerenti con la formazione di un ordine multipolare degno di questo nome sembra cosa abbastanza chiara, e però – questo qui si vuol dire – noi abitanti dell’Occidente possiamo senz’altro (proporci di) prepararle per quanto di nostra competenza, appunto lavorando a un disegno diverso dall’ossessiva espansione dei mercati, tanto sul piano ideale quanto a ridosso delle forme di soddisfazione dei bisogni che sperimentiamo.
Non servono le scappatoie
Torniamo all’elenco degli “sforzi globali” ai quali il documento conclusivo della Cop 28 “esorta” gli stati nazionali. L’addebito di mancata operabilità e mancata cogenza formulato nei confronti di quello già citato riguarda anche tutti gli altri. La maggior parte dei quali, però, si presta a un ulteriore ordine di critiche, che vari osservatori hanno messo sotto il titolo loopholes, scappatoie – dallo stesso obiettivo del transitiong away, blando com’è. Il caso più importante è quello che emerge dall’item che segue:
“Accelerating zero- and low-emission technologies, including, inter alia, renewables, nuclear, abatement and removal technologies such as carbon capture and utilization and storage”.
[Accelerare lo sviluppo di tecnologie a zero e basse emissioni, incluse, inter alia, le rinnovabili, il nucleare, le tecnologie dell’abbattimento e della rimozione, come la cattura, l’utilizzazione e l’immagazzinamento della CO2.]
Qui, la scappatoia per evitare l’abbandono dei fossili è appunto racchiusa nell’idea che le emissioni possono essere “abbattute” catturando i gas prodotti della combustione prima che si disperdano nell’atmosfera e sotterrandoli per sempre, eventualmente sotto il fondo del mare. Idem, più o meno, nel caso della cattura di grandi quantità di CO2 già presente nell’atmosfera.
Molto significativamente (nel senso di una certa spudoratezza) le tecnologie in questione sono messe insieme alle renewables – ma l’accostamento è proprio un autogol. Il confronto tra i due generi di tecnologie non fa altro, infatti, che mettere a nudo la radicale fallacia dell’idea di puntare su quelle della cattura e della rimozione. Negli ultimi anni, le condizioni di impiego delle fonti rinnovabili hanno mostrato una spiccata tendenza al miglioramento, grazie alla quale, mentre i rendimenti sono aumentati, i costi sono scesi a vista d’occhio. Tutto al contrario, le tecnologie della cattura esistono da moltissimo tempo ma non hanno fatto registrare alcuna dinamicità e restano, come sono sempre state, costosissime. In più sono circondate da una serie di incertezze, rischi e perduranti effetti avversi all’ambiente che fanno impallidire i problemi, pure esistenti, legati al deployment delle rinnovabili. Quanto alle tecnologie della rimozione, il loro sviluppo è ancora in fase di sperimentazione, sicché tutti i fattori di incertezza (in termini di fattibilità, costi, effetti indesiderati, ecc.) vanno aumentati di vari ordini di grandezza. Non per questo la ricerca che le riguarda non merita di essere portata avanti, particolarmente a fronte del rischio, non del tutto trascurabile, che il Carbon Budget ancora disponibile sia già uguale a zero. Ma l’idea di puntare su di esse per evitare la rapida e drastica riduzione delle emissioni che in effetti deve intervenire, via abbandono delle fonti fossili, è una fantasia da persone irresponsabili.
Più brevemente, al modo di un commento interlineare, su altri item dell’elenco.
- Accelerating efforts towards the phase-down of unabated coal power.
[Accelerare gli sforzi verso la riduzione come fonte di energia del carbone non abbattuto.]
Valgono le considerazioni di cui al punto precedente, con l’aggravante che la scappatoia, qui, si applica esplicitamente alla più nociva di tutte le fonti fossili, senza neppure irrobustire la debole espressione “phase down” già usata in occasione della Cop 26 del 2021.
- Tripling renewable energy capacity globally and doubling the global average annual rate of energy efficiency improvements by 2030.
[Entro il 2030, triplicare globalmente la capacità energetica delle fonti rinnovabili e raddoppiare la media globale del tasso annuale degli incrementi di efficienza energetica.]
Suona bene, tuttavia, a proposito di operabilità, l’omissione dell’anno base a partire dal quale misurare i progressi – questa volta per iniziativa di India e Cina, a quanto pare – basta da sola a vanificare il punto. In più, come è stato osservato, l’obiettivo è in contraddizione con la quantità di risorse richiesta dalla promozione delle tecnologie della cattura e della rimozione (Nillson, 2023).
- Phasing out inefficient fossil fuel subsidies that do not address energy poverty or just transitions, as soon as possible.
[Eliminare al più presto sussidi inefficienti ai combustibili fossili che non siano indirizzati [alla lotta] alla povertà energetica o una transizione giusta.]
Il G20 del 2009 formulò lo stesso impegno senza che a tutt’oggi si sia visto alcun risultato. Del resto il termine “inefficienti”, ambiguo e subdolo com’è, lascia agli stati amplissimi margini di manovra. In più si noti la disinvoltura con la quale le istanze di lotta alla povertà energetica e di equità della transizione sono fatte valere al modo di un freno a mano tirato a vantaggio delle fonti fossili: così è anche in altre parti del documento e la sensazione di un analogo intento ‘conservativo’ si prova invero in tante altre occasioni, nelle più diverse sedi.
Infine, subito dopo l’elenco delle esortazioni, un “riconoscimento” che basta da solo a chiarire quanto poco l’abbandono delle fonti fossili sia seriamente preso in considerazione: “transitional fuels can play a role in facilitating the energy transition while ensuring energy security”. [Combustibili di transizione possono giocare un ruolo nel facilitare la transizione energetica assicurando allo stesso tempo la sicurezza energetica.]
Premesso che “transitional fuels” è il nome in codice del gas naturale, affidiamo il commento di quest’ultimo punto a quello che ne ha scritto Damian Carrington su The Guardian, al quale dobbiamo anche altri spunti utilizzati in quest’ultimo paragrafo.
“Questa è la maggiore vittoria dell’industria dei combustibili fossili – qualcosa come una pillola avvelenata nell’accordo. Legittima la combustione del gas sul presupposto che sia meno inquinante del carbone, sebbene il gas naturale liquefatto (LNG) possa in effetti essere peggio del carbone, a causa delle fughe di metano. Vale la pena di osservare che gli Stati Uniti, il maggiore produttore mondiale di petrolio e di gas, sta pianificando una massiccia espansione di LNG. Il tempo dei combustibili di transizione è passato da un pezzo; le rinnovabili sono meno costose, di più celere impiego e più sicure”.
“The world must change track, or we will be saying the same thing next year – and the year after, and the year after, like a broken record”. [Il mondo deve cambiare strada, o ci ritroveremo a dire le stesse cose l’anno prossimo – e poi quello dopo, e poi quello dopo, come un disco rotto”. Così si è espressa Inger Andersen, Direttrice Esecutiva dell’UNEP, nella presentazione del già citato Emission Gap Report 2023, alla vigilia della Cop 28. Lo svolgimento di quest’ultima ha confermato in pieno la metafora, con la beffa aggiuntiva al danno che un nulla di fatto è passato per un successo presso una parte non piccola, forse prevalente, dell’opinione pubblica: per l’industria dei combustibili fossili, è stato osservato, il migliore degli esiti possibili.
Anche noi ci siamo sentiti a disagio, e frustrati, a ripetere le stesse cose per la terza volta nel giro di due anni; e in condizioni del genere può anche venire in mente che alle Cop, in fondo, non convenga prestare troppa attenzione, magari limitandosi a qualche invettiva contro gli aspetti più vistosi dell’imbroglio che in effetti rappresentano. Ma non è così che si fanno passi avanti: meglio approfittarne per aggiornare i dati e mettere a fuoco le idee con quanta più chiarezza sia possibile. Del resto le operazioni di demistificazione passano per forza per considerazioni ravvicinate, di tipo analitico, visto che il male ha l’abitudine di nascondersi proprio nel superficiale e nel generico.
Testi citati
– G. Anderson, Strategies of Denial, Sidecar, New Left Review, 13 giugno 2023, https://newleftreview.org/sidecar/posts/strategies-of-denial.
– EEB_European Environmental Bureau, ‘Green mining’ is a myth: the case for cutting EU resource consumption, Ottobre 2021 (disponibile in rete)
– D. Calverley e K. Anderson, K., Phaseout Pathways for Fossil Fuel Production Within Paris-compliant Carbon Budgets, 2022, https://www.research.manchester.ac.uk/portal/en/publications/phaseout-pathways-for-fossil-fuel-production-within-pariscompliant-carbon-budgets.
– Kjell Kühne et al., “Carbon Bombs” – Mapping key fossil fuel projects, Energy Policy, 166112950, (2022).
– J. Hickel et al., Imperialist appropriation in the world economy: Drain from the global South through unequal exchange, 1990–2015, Global Environmental Change, 73 102467 (2022), https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S095937802200005X?via%3Dihub
– Jason Hinkel, Quantifying national responsibility for climate breakdown: an equality-based attribution approach for carbon dioxide emissions in excess of the planetary boundary, Lancet, 2020. https://www.thelancet.com/journals/lanplh/article/PIIS2542-5196(20)30196-0/fulltext.
– P. Newell and A. Simms, Towards a fossil fuel non-proliferation treaty, Climate Policy, 20:8, 1043-1054, DOI: 10.1080/14693062.2019.1636759.
– L. Nilsson, A. Al Khourdajie, C. Bataille, The COP28 climate agreement is a step backwards on fossil fuels, The Conversation, 13 dicembre 2023.
– United Nations Environment Programme (2023). Emissions Gap Report 2023: Broken Record – Temperatures hit new highs, yet world fails to cut emissions (again). Nairobi. https://doi.org/10.59117/20.500.11822/43922.