IDEATO E DIRETTO
DA ANTONIO CANTARO
E FEDERICO LOSURDO

IDEATO E DIRETTO DA ANTONIO CANTARO E FEDERICO LOSURDO

Funzionalismo bellico, guerra disumana

Nel mondo multipolare di oggi la guerra ha cambiato forma. Una guerra dis-umana che si prefigge l'annientamento del "nemico", senza obiettivi politici realistici. La retorica dell’Europa della difesa si riduce ad un funzionalismo bellico per conto della NATO.

Il XXI secolo segna il ritorno della guerra in grande stile, della “guerra tra Stati”, non solo in Europa. Non che la guerra se ne fosse veramente mai andata, ma essa ha cambiato forma.

Il ritorno della “Guerra tra Stati”

Nel mondo unipolare, dispiegatosi successivamente alla caduta del comunismo, la guerra aveva come dimensione lo spazio “liscio” della globalizzazione sul quale si muovevano le armate occidentali per sconfiggere il terrorismo (“la guerra globale”), per far cadere regimi sgraditi, i “rogue States” (Irak, Libia, Siria). Erano guerre di polizia internazionale asimmetriche, frutto di un divario schiacciante tra l’iper-potenza USA e il resto del mondo (C. Galli, 2023).

Nel mondo multipolare di oggi, tramontata l’illusione di un mondo unificato pacificamente dall’economia di mercato e dall’“esportazione della democrazia” (A. D’Attorre, 2023), è ricomparsa sulla scena la “Guerra tra Stati”: non solo il conflitto russo-ucraino (cui dedicherò particolare attenzione), ma anche la Grande guerra mediorientale (e il rischio di nuove guerre in America Latina e in Asia). La guerra torna ad essere considerata uno strumento legittimo di risoluzione delle controversie internazionali, una prosecuzione della politica con altri mezzi. Ma, in realtà, non si concludono producendo un nuovo assetto politico e giuridico, ma si risolvono in un processo indefinito di distruzione e ricostruzone. Nonostante questa evidente “insensatezza”, la guerra sembra essere l’unica soluzione praticabile: quasi per una coazione a ripetere, che mostra in forme parossistiche la crisi in cui si dibatte la politica.

L’Europa e la “fine della storia”

Questa crisi della Politica, intesa non come mera amministrazione dell’esistente ma come capacità razionale di progettare il futuro, è particolarmente evidente se si guarda all’Unione europea, nel nuovo scenario multipolare, caratterizzato dalla ridefinizione della globalizzazione economica sulla base di faglie geopolitiche. Per comprendere le radici di questa “in-potenza” politica europea è utile fare un passo indietro fino a Maastricht: il Trattato che ha ridefinito la missione costituzionale dell’«integrazione sempre più stretta dei popoli europei», dopo la dissoluzione dell’avversario sovietico, a suo modo uno dei più importanti fattori federativi tra gli Stati membri.

Ha sostenuto acutamente Lucio Caracciolo che in quel momento storico, le classi dirigenti europee scambiarono «la fine della pace per la fine della guerra»: avendo bollato “guerra fredda” la lunga tregua in Europa, preferirono trascurare che, crollato un ordine fondato sull’equilibrio del terrore e non avendone negoziato uno nuovo fra vincitori e vinti, l’instabilità sarebbe stata la cifra del nostro futuro (L. Caracciolo, 2022). L’Unione europea post-Maastricht riflette nei suoi principi normativi ed istituzionali l’immaginario della fine della storia (F. Fukuyama, 2020), intesa come superiorità del modello di globalizzazione neoliberale.

L’idea della fine della storia si proiettava, innanzitutto, nel modo di concepire le relazioni internazionali. La fine della guerra fredda avrebbe garantito un ordine pacificato, almeno nello spazio “sacro” occidentale. In questo scenario, l’Unione europea attribuiva minor peso agli strumenti tradizionali dell’hard power (come, del resto salvo la parentesi della CED, aveva fatto fin dai trattati istitutivi), relegando la politica estera e di sicurezza comune nel pilastro intergovernativo e dava maggior importanza agli strumenti del soft power. Di qui, l’idea dell’Europa come potenza civile (P.P. Portinaro, 2007) che cerca la sua legittimazione interna ed esterna nella tutela dei diritti umani e come potenza economica che si affida alle virtù del “dolce commercio” e di un mercato altamente concorrenziale quale veicolo della prosperità dei popoli del vecchio continente.

Questa autorappresentazione come “potenza civile” ha indotto l’Unione europea a sottovalutare la questione (la cui strategicità è stata mostrata prima dalla pandemia e poi dalla guerra) di disporre di canali autonomi e affidabili per l’approvvigionamento energetico, a cominciare dal gas, garantito per lungo tempo a prezzi contenuti dalla Russia. D’altro canto, l’Unione europea muoveva dal presupposto che, nel quadro della globalizzazione neoliberale le catene del valore fossero sostanzialmente fungibili. L’importante era mantenere nel territorio europeo i processi a più alto contenuto tecnologico, delocalizzando nei paesi in via di sviluppo i processi a più basso contenuto tecnologico (F. Losurdo, 2022).

L’idea della “fine della storia” si è riflessa anche nella configurazione dell’Unione monetaria di Maastricht come un’unione irreversibile alla quale sono “obbligati” a partecipare tutti gli Stati membri (con la sola eccezione di Regno unito e Danimarca esonerati fin dall’inizio dalla partecipazione all’UEM). Un’Unione sprovvista di strumenti per fronteggiare shock esterni, nella convinzione, rivelatasi altrettanto illusoria, che il governo delle regole e dei numeri l’avrebbe protetta dai “poteri selvaggi” dei mercati finanziari (M. De Cecco, 1999). Sulla base di questa «cultura politica all’insegna di un ottimismo acritico» (D. Majone, 2014), l’unione monetaria avrebbe generato la convergenza “spontanea” delle politiche economiche e di bilancio nazionali, sia pure al prezzo del radicale condizionamento dei diritti sociali del lavoratore al super-valore della stabilità monetaria e finanziaria (G. Azzariti, 2021).

Questo immaginario non vacilla neppure dopo l’offensiva militare scatenata dalla NATO contro la Serbia (1999), un’altra guerra asimmetrica, un’“ingerenza umanitaria”, in cui si dimostrò la disunione degli Stati membri in politica estera. I governanti europei non comprendono che era venuto il tempo di ripensare un’architettura europea di sicurezza e cooperazione comune, sul modello della Conferenza di Helsinki del 1975 e si acconciano ad approvare la Carta dei diritti fondamentali (2000), poi incorporata nel Trattato costituzionale bocciato dai popoli francese e olandese (2005).

Lo spartiacque: l’allargamento UE e Nato ad est

Il biennio 2003/2004 è il vero spartiacque per comprendere lo scivolamento dalle aspettative di una pur contraddittoria autonomia politica dell’Unione ad una sostanziale subalternità agli interessi della Nato e del suo dominus a stelle e strisce. Gli Stati Uniti hanno, infatti, promosso l’integrazione tra i mercati europei, tollerato l’integrazione monetaria, a patto che non venisse messo in discussione l’esorbitante privilegio del dollaro, ma hanno sempre ostacolato l’integrazione militare tra gli Stati membri, vista come un potenziale concorrente alla Nato.

C’è stata una lunga fase storica in cui una parte significativa del mondo culturale di “sinistra” (mi piace in questa sede ricordare l’impegno militante di Bruno Trentin), ha ritenuto che una autentica «Federazione europea occidentale» potesse rappresentare almeno un freno alla vocazione degli Stati Uniti di imporre il suo modello economico, sociale e culturale al resto del mondo (Cacciari, 1994). Un freno al paradigma della globalizzazione neoliberale a cui contrapporre un modello di sviluppo (relativamente) autonomo capace di conciliare libertà d’iniziativa economica e giustizia sociale. Un freno all’esportazione imperiale degli interessi made in USA, mostrando un’attitudine a mediare con le ragioni dei popoli e delle nazioni non occidentali: emblematica la politica mediorientale di alcuni paesi europei (tra cui in primo piano l’Italia e l’Ostpolitik di Brandt).

La Seconda guerra del Golfo del 2003, illegale sul piano del diritto internazionale al pari di quella scatenata dalla Russia vent’anni dopo, ha segnato il tramonto della prospettiva di un’autonomia geopolitica dell’Unione. Sono gli Stati Uniti a demarcare arrogantemente la divisione tra i paesi della “vecchia” Europa, gli Stati fondatori che rifiutano di prendere parte alla guerra e i paesi della “nuova Europa” che vi aderiscono con entusiasmo, Il Regno Unito, la Spagna di Aznar e i paesi dell’Est, Polonia in testa.

Alcuni di questi ultimi paesi, Estonia, Lettonia, Lituania, Slovenia, Slovacchia, Bulgaria e Romania nel periodo 2004-2007 furono accolti nell’UE con l’intento di sfruttare le enormi disomogeneità economiche e sociali di quest’ultimi per garantire opportunità di de-localizzazione delle aziende e distacco dei lavoratori alle grandi imprese europee. Contestualmente questi stessi paesi aderirono alla NATO. L’adesione contemporanea a UE e NATO dei paesi dell’ex blocco sovietico, oltre a tradire la promessa non scritta di non estendere la Nato ad Est, contribuiva a dissolvere l’autonomia politica dell’Unione rispetto agli interessi statunitensi e terremotava l’architettura di sicurezza e cooperazione comune faticosamente edificata a Helsinki. A seguire nello “storico” vertice Nato di Bucarest (2008), la NATO acconsentì all’adesione di Croazia e Albania. Nella stessa occasione venne dichiarato che anche Ucraina e Georgia avrebbero potuto farne parte («NATO welcomes Ukraine’s and Georgia’s Euro-Atlantic aspirations for membership in NATO.  We agreed today that these countries will become members of NATO»).

È proprio la richiesta dell’Ucraina di aderire alla Nato e all’UE, obiettivo consacrato nella Costituzione riformata nel 2019 (con l’introduzione di una disposizione che riconosce al Presidente il ruolo di «garante del corso strategico dello Stato per ottenere la piena appartenenza alla Nato e alla UE») ad accendere la scintilla del conflitto (S. Minolfi, 2023). A mettere in moto la catena degli avvenimenti che, dalla “rivolta” di Piazza Maidan alla reazione protervia della Russia, allo scoppio del sanguinoso conflitto civile in Donbas, fino al fallimento degli accordi di Minsk (2014 – 2015), con la mediazione di Francia e Germania, ha portato all’aggressione russa del 24 febbraio 2022, una flagrante violazione della legalità internazionale (non la prima).

La guerra russo-ucraina: il funzionalismo bellico

Come ha reagito l’Unione europea di fronte alla repentina accelerazione della storia?

L’Unione ha rinunciato ad un approccio “realistico” e pragmatico al conflitto (M. Prospero, 2022). La sacrosanta condanna della violazione dell’integrità territoriale ucraina si sarebbe dovuta coniugare ad uno sforzo di mediazione politica alta tra le contrapposte ragioni, secondo il modello che si era provato a strutturare con gli accordi di Minsk. Al contrario, i massimi rappresentanti delle istituzioni comunitarie hanno acriticamente abbracciato l’approccio “idealistico” che raffigura la guerra come lo scontro tra Bene e Male, tra i valori della democrazia e di dis-valori dell’autocrazia, un atteggiamento già evidente nella risoluzione del 2019 con la quale il parlamento europeo ha equiparato comunismo e nazismo. La divisione manichea ha favorito una lettura semplicistica degli eventi secondo cui, da una parte, vi sarebbe stata una comunità internazionale compatta e, dall’altra, la Federazione russa, isolata nel mondo. Affermazione smentita dal fatto che le sanzioni economiche si sono ritorte contro chi le ha promesse. Il manicheismo induce a credere che la guerra possa risolversi esclusivamente con la “debellatio” del nemico che, tuttavia nel caso della Russia, risulta dotato di una formidabile arsenale nucleare (M. Luciani, 2022).

L’unionismo a tratti retorico ha intravisto nella guerra russo-ucraina l’occasione storica per un protagonismo dell’Europa come potenza geopolitica (Olaf Scholz, discorso del 9 maggio 2023 al Parlamento europeo. Mario Draghi del 7 giugno 2023 al MIT di Boston). L’occasione per un rilancio in grande dell’Europa della difesa, prima tappa di una più forte integrazione politica. La riscoperta di un’identità comune fondata su valori condivisi tra gli Stati membri (A. Guazzarotti, 2023). La conferma dell’assunto per cui la contrapposizione con la Russia è, in fondo, l’autentico fattore federativo sovranazionale, dalla guerra fredda in poi.

Il progetto d’intensificazione della difesa comune, a fronte di una gracilissima politica estera e di sicurezza comune (sui cui si può decidere solo all’unanimità) e dell’impossibilità di monetizzare il debito o disporre una politica fiscale espansiva per sostenere le nuove spese per la difesa, ha partorito un modesto funzionalismo bellico. Nello scenario più generale di ri-militarizzazione delle democrazie, l’Unione si pone l’obiettivo di convertire una parte dell’apparato produttivo ed economico alle esigenze della guerra e di “ricostruire” l’Ucraina, anche come fattore di rilancio della propria ristagnante economia.

Nella prima fase, si è istituito il c.d. European Peace Facility (EPF), un fondo ad hoc, collocato al di fuori del bilancio comunitario, diretto a finanziare le spese delle missioni militari comuni e il sostegno a Stati terzi, come nel caso dell’Ucraina (a cui sono stati già erogati circa quattro miliardi e mezzo di euro in armamenti ed equipaggi di ogni genere).

Poi, a luglio del 2023 è stato approvato in forme iper-accelerate e con un accordo bipartisan tra popolari e conservatori il regolamento Act in Support of Ammunition production (la cui base giuridica è art. 173 TFUE dedicato alla politica industriale). Con questo regolamento si istituisce un fondo europeo per incentivare la produzione di munizioni di ogni genere, si attribuisce alla Commissione lo straordinario potere di chiedere ad un’impresa nazionale di convertire la produzione (col consenso dello Stato membro in cui ha sede l’impresa) per accrescere la fornitura di armi all’Ucraina e si introduce la possibilità per gli Stati membri di chiedere una modifica dei propri PNRR per destinare parte dei fondi al riarmo, con “buona pace” dell’obiettivo della transizione ecologica e digitale.

Da ultimo è stato adottato l’Ukraine Facility Regulation (un regolamento proposto dalla Commissione a giugno 2023 e approvato dal Parlamento Europeo ad ottobre, ma a lungo bloccato dal veto nel Consiglio da parte dell’Ungheria di Orban). Lo “strumento per l’Ucraina” si impegna a erogare 50 miliardi di aiuti finanziari all’Ucraina per 5 anni, ricalcando il modello dei PNRR in base a cui ogni tranche di aiuti sarà condizionata all’adozione di riforme strutturali e al rispetto del raggiungimento di certi targets e milestones essenzialmente quantitativi.

L’Unione, invece di cercare una difficile prospettiva di mediazione tra le parti del conflitto, si propone un ulteriore allargamento ad Est sia all’Ucraina che alla Georgia, con il risultato di accrescere la disomogeneità politica, sociale e territoriale dello spazio europeo. Diverso sarebbe il significato di questo allargamento, se si accompagnasse ad una neutralizzazione permanente del territorio ucraino, cosa peraltro attualmente del tutto “utopica”.

Un radicato pregiudizio euro-centrico paragona metaforicamente le immense sfide poste dal mondo multipolare alla “giungla” che insidierebbe il tranquillo e fiorente “giardino europeo”: «la migliore combinazione di libertà politica, prosperità economica e coesione sociale che l’umanità sia stata in grado di costruire» (Così l’Alto Rappresentante europeo per la politica estera e la sicurezza comune, Josep Borrel). È un pregiudizio che si proietta immediatamente anche nel modo di leggere la guerra russo-ucraina. L’Europa, dimenticando le decine di guerre e conflitti intestini che imperversano in Africa, Asia, Medio Oriente, America-Latina, sembra disposta a combattere a distanza la Russia fino all’ “ultimo ucraino”.

Da dove ripartire?

L’Europa, nella sua attuale configurazione di Unione, pare priva di una propria immagine del mondo, limitandosi ad “importare”, da trent’anni a questa parte, la visione geopolitica statunitense: un’Europa atlantica. È priva di una politica per il Mediterraneo, appaltata, specie dopo la Guerra d’Iraq, agli USA con gli effetti catastrofici oggi sotto i nostri occhi (dalle primavere arabe all’inverno islamista). Ha rimosso la questione dello sviluppo economico e sociale dell’Africa (questione posta invece già al centro della Dichiarazione Schuman del 1951), il continente in cui si gioca anche il nostro futuro, prima di tutto, per la dinamica demografica.

Quello che residua è quello che abbiamo chiamato “funzionalismo bellico”, il capovolgimento del celebre discorso di Sandro Pertini nel pieno della guerra fredda per cui occorreva svuotare gli arsenali e colmare i granai. Il funzionalismo bellico, a suo modo sembra riflettere l’attuale momento storico del capitalismo che, dopo aver preso congedo dalla democrazia politica, si appresta a “divorziare” dal neoliberismo (M. Lazzarato, 2023).

Per un’eterogenesi dei fini, la globalizzazione neoliberale, dopo avere in una prima fase rafforzato il dominio planetario dei paesi occidentali, è divenuta in una seconda fase la chiave di volta per una “grande convergenza” delle economie dei paesi in via di sviluppo. Quest’ultimi sono riusciti ad attrarre maggiori capitali ed investimenti, grazie ai costi del lavoro sensibilmente più bassi rispetto a quelli dei paesi del primo mondo. Con la conseguente crescita e industrializzazione dei paesi che prima erano ai margini dell’economia mondiale. È stata, in particolare, l’ascesa della Cina, specie dopo la sua ammissione al WTO (2001), a stimolare un generale ripensamento sulle magnifiche e progressive sorti del paradigma libero-scambista incentrato sulla concorrenza senza limiti, fino al ritorno a forme di quasi-protezionismo economico che hanno assunto la forma del de-coupling, de-risking, friend-shoring, una globalizzazione selettiva che all’occorrenza può essere supportata dal ricorso alla guerra (E. Brancaccio, 2023).

Sennonché il funzionalismo bellico sembra mostrare oggi la corda. Se, da una parte, gli Stati Uniti alle prese con una «strisciante guerra civile politico-istituzionale» (S. Romano, 2023) stanno riducendo sensibilmente l’entità degli aiuti militari e finanziari all’Ucraina a vantaggio di Israele e del contenimento dell’epocale emigrazione al confine messicano, anche le tante promesse europee di sostegno militare e finanziario «as long as it takes» sembrano meno solide di quanto si voglia far apparire.

Mentre si profila all’orizzonte la “tempesta perfetta”: l’affermazione di una inedita coalizione tra popolari e conservatori alle prossime elezioni per l’Europarlamento; e, soprattutto, il ritorno alla Casa Bianca di Donald Trump che segnerebbe probabilmente l’abbandono della questione russo-ucraina (e forse anche della questione mediorientale) nelle mani europee con la proiezione di tutta la potenza militare americana nell’Indo-Pacifico.

Classi dirigenti degne di questo nome, memori degli ideali dei Padri fondatori, dovrebbero ingegnarsi nel progettare e perseguire un’autonoma politica estera e di difesa comune rispondente agli interessi strategici del continente europeo, alleato sì degli USA ma non subalterno al suo disegno di assoldarla nel suo prossimo conflitto con la Cina. È questa la reale posta in gioco anche per il nostro paese: il rischio che la subalternità di questo (ma anche dei precedenti Governi) all’Europa atlantista e mercatista rischi di infrangere definitivamente l’equilibrio tra il vincolo “interno” della sovranità popolare nazionale e il vincolo “esterno” dell’appartenenza all’Unione. Senza dimenticare che l’Europa è vittima anche della proterva ottusità tedesca. La Germania ha infatti eroso lo spazio della cooperazione e della solidarietà europea con il suo mercantilismo e l’egoismo che ha sempre dimostrato nell’imporre una politica monetaria funzionale ai suoi interessi. Ciò ha reso più insidioso l’insinuarsi degli Usa nelle contraddizioni europee.

Siamo di fronte ad un bivio tragico: o c’è un’autocritica spietata da parte delle classi dirigenti europee – congiuntamente della “vecchia” Europa e della “nuova” – con un ripensamento complessivo delle strategie politiche degli ultimi decenni o il pericolo di un’improvvisa (inaspettata) dissoluzione dell’Unione europea non è più solo teorico. Pur con la consapevolezza che nessuno staterello solitario (nemmeno il nostro) sarebbe in grado di reggere da solo la navigazione del mondo multipolare e sempre più conflittuale che si profila all’orizzonte.

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