IDEATO E DIRETTO
DA ANTONIO CANTARO
E FEDERICO LOSURDO

IDEATO E DIRETTO DA ANTONIO CANTARO E FEDERICO LOSURDO

Il lavoro tra “oscuramento teorico” e “invisibilità politica”

Ad oscurare teoricamente il lavoro in questi anni si è aggiunto al neoliberismo un puerile quanto infondato entusiasmo, anche a sinistra, verso la tesi della “fine del lavoro”. Anticipiamo stralci di un saggio di Laura Pennacchi di prossima pubblicazione su “La Rivista delle Politiche Sociali” .

Sono poche oggi le indagini che trattino il lavoro con la profondità e l’attenzione che la sua onnipervasività nelle esistenze personali richiederebbe. Bisogna animare una insofferenza e una reazione al protratto velo di “oscuramento teorico” che ha gravato nell’ultimo trentennio sulle problematiche del lavoro e che ne ha accompagnato, e in buona misura causato, la lunga fase di “invisibilità” politica.

Filosofie del non lavoro

Di tutto ciò le responsabilità maggiori vanno attribuite al ciclo neoliberista, deflagrato nel fallimento pratico prima della crisi del 2007/2008 poi della catastrofe pandemica e tuttavia ancora in armi sul piano teorico (anche per le inquietanti capacità che ha mostrato di ibridarsi con varie forme di populismo). Ma dobbiamo tener conto che, ad oscurare teoricamente il lavoro, in questi anni si è aggiunto al neoliberismo un puerile quanto infondato entusiasmo, anche a sinistra, verso la tesi della “fine del lavoro”, perdurante anche a fronte delle clamorose smentite dalla storia (“La fine del lavoro” del futurologo Rifkin uscì nel 1995 e fu immediatamente seguito – per l’ingresso della Cina nell’arena mondiale – da quello che si sarebbe rivelato addirittura un raddoppio delle forze di lavoro globali). Sul piano filosofico ha anche influito sull’oscuramento del lavoro il prevalere, nella seconda metà del Novecento, di modelli “proceduralisti” di teorie della giustizia che per definizione davano la priorità all’articolazione di principi astratti in base ai quali organizzare la vita sociale, la “posizione originaria” per Rawls, la “situazione discorsiva ideale” per Habermas. Per la verità tali modelli “proceduralisti” si sono dimostrati suscettibili di applicazione larga e aperta alle vicende del mondo reale, tanto è vero che in Rawls troviamo perfino l’embrione di una proposta di property-owning democracy, cioè di un arrangiamento istituzionale più idoneo della semplice “redistribuzione” welfaristica a contenere un sistema capitalistico basato sulla proprietà privata dei mezzi di produzione, in sostanza un arrangiamento da “democrazia economica” strutturale. Ma in quelle impostazioni il lavoro veniva inevitabilmente “dopo”, anche se molti varchi verso di esso venivano tuttavia mantenuti aperti da quello che Habermas  ha chiamato “proceduralismo ideale” della propria posizione e, ancor più, dalla costruzione teorica di Amartya Sen che, critico del “perfezionismo trascendentale” di Rawls, ha cercato in una teoria della giustizia strutturata nelle “capacità” e nei “funzionamenti” (functioning) i contorni di un soggetto concreto che può mettere in atto le diverse cose che aspira ad essere o a fare (cibarsi bene, provare autostima, essere in relazione con altri, essere informati, perfino giocare e nutrire una capacità ludica e così via).

La morsa neoliberista sul lavoro. Ma non solo

L’impatto e le implicazioni del “velo” caduto sul lavoro (anche in termini di risentimento anti-establihsment di lavoratori impoveriti e/o degradati dalle trasformazioni intervenute) vanno nettamente denunziati.  Bisogna chiamare a una vera e propria svolta intellettuale in grado di restituirci la carica “umanistica” trasformativa racchiusa nel lavoro, a partire dalla inscrizione delle problematiche relative in un quadro da “grande trasformazione”, ispirandosi a Karl Polanyi, il grande studioso ungherese che titolò in questi termini il suo libro più importante, scritto durante la seconda guerra mondiale e pubblicato nel 1954. Pertanto, la svolta intellettuale necessaria non può che concentrarsi sulle terribili politiche neoliberiste implementate dai primi anni Ottanta, sull’erosione della sicurezza garantita dal contratto di lavoro che ne è seguita, sull’allentamento delle norme di licenziamento, la creazione di rapporti occupazionali sempre più informali, precari e a bassa remunerazione e da qui risalire in su, fino a chiedersi che cos’è il lavoro oggi, quale sia il suo significato, se si riduca a un “fare” in cambio di un salario oppure abbia un orizzonte di senso più ampio, se e in quali modi investa la biografia e l’identità dell’essere umano nella sua interezza, se l’”associazione tra lavoro e soggettività”, costitutiva della modernità, possa essere ristabilita. Tutto ciò richiede innanzitutto una rifondazione filosofica. Anche perché l’umanesimo intrinseco alle problematiche del lavoro è stato trascinato nella condanna più generale dell’umanesimo operata dal postmodernismo, sotto la spinta del decostruzionismo à la Derrida e del pensiero di Foucault, per i quali l’universale e l’umano sono fantasie totalizzanti. La condanna postmoderna e decostruzionista dell’umanesimo, infatti, si è estrinsecata non marginalmente nella “dissociazione tra soggettività e lavoro”, venendo così paradossalmente ad essere esaltato uno dei postulati fondamentali del neoliberismo: il soggetto non è formato dal lavoro, né è in primigenia relazione con altri, esistono solo agenti isolati, atomi, autointeressati, massimizzanti, dotati di razionalità calcolistica strumentale. Il loro individualismo esasperato non esprime soggettività, tanto meno soggettività aperta e relazionale, ma solo privatezza: il lavoro è un fatto privato, spesso ineluttabilmente penoso, anche se iscritto “in una privata ricerca di piacere, in un’apologia dell’egoismo” e “l’economia è un sistema di equilibri in cui si esprimono le preferenze di soggetti già fatti e finiti”. Così è stata annebbiata anche l’intrinseca politicità del lavoro, nascente dal coacervo di contraddizioni comune a tutti gli esseri umani da esso espresso, generante un continuum di mediazione emancipativa cha va dal soggetto, alla società, alla politica: è il lavoro che pone il legame sociale – non la razza, né la religione, né una dinastia,né il censo, e nemmeno solo il contratto sociale pur essenziale – a fondamento della comunità politica. Per tutto ciò è tornata ad essere così importante la filosofia, perché occorre restituire la sua importanza al lavoro non solo per ovvie ragioni immediatamente comprensibili, ma anche per complesse e nascoste ragioni che possono emergere solo con un’analisi scientifica e una riflessione filosofica, al fine di dare tutta la sua pienezza al ritorno del lavoro “come oggetto di preoccupazione etica e politica”. Non dovremmo sottovalutare l’alto livello di “contiguità” con l’ideologia neoliberale (che avrebbero voluto combattere) espresso da decostruzionismo e postmodernismo. In vari casi il fastidio culturale verso il lavoro, e l’etica del lavoro (per cui si è giunti a titolare interi libri a “Lavoro male comune” e oggi una parte della sinistra estremista rimane corriva con un simile andazzo), è andato di pari passo con il fastidio verso l’umanesimo, il che è vero per coloro che hanno sostenuto l’idea della “liberazione dal lavoro” contrapposta a quella della “liberazione del lavoro”. Pertanto, bisogna avere consapevolezza di quanto il filone postmoderno e il decostruzionismo siano arrivati a condannare ogni tentativo critico che cerchi di universalizzare la condizione umana ricorrendo a concetti quali la dignità, la giustizia, la verità, la coscienza, giungendo a bollare l’intera riflessione sul lavoro, sullo sfruttamento e sull’alienazione come ritorno alle illusioni, dichiarate “regressive”, di Rousseau, Marx, Fromm, Marcuse. Al contrario, dobbiamo considerare estremamente preziose l’analisi dell’alienazione di Marx e di Lukacs, la teoria della razionalizzazione di Weber, la riflessione sul “disagio della civiltà” di Freud, la “teoria critica” della società ideata a Francoforte e portata avanti da Habermas, proprio perché si appuntano sulle patologie della modernità senza revocare in dubbio il significato emancipatorio rivoluzionario della modernità e i suoi fondamentali valori universalistici legati al lavoro.

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