IDEATO E DIRETTO
DA ANTONIO CANTARO
E FEDERICO LOSURDO

IDEATO E DIRETTO DA ANTONIO CANTARO E FEDERICO LOSURDO

La COP28, l’Africa e il sottosviluppo

Il diritto a non dipendere da altri per il proprio progresso va di pari passo con la rescissione del legame di dipendenza che crea la finanza. La sfida è trasformare le società africane attraverso l’industrializzazione e non solo con il credito. Ma l’Occidente non ha mai voluto un’Africa indipendente e autonoma.

La Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, meglio nota con l’acronimo inglese UNFCCC, è un’iniziativa necessaria, ma che implica un mastodontico giuoco economico-diplomatico su scala globale. Giuoco, si fa per dire, perché il processo di riconversione della produzione industriale in pectore è un affare multi-miliardario e come tale tocca storici equilibri mondiali e rapporti di interesse sociali, internazionali e regionali, tra classi sociali, tra ricchi e poveri, tra nord e sud, tra ex-colonizzatori ed ex-colonizzati, tra Europa e Africa.

Inquinamento industriale, colonialismo e sottosviluppo africano

La 28esima Conferenza delle Parti (COP28) dell’UNFCCC di Dubai, alla quale si sono registrati 97.372 partecipanti, si è appena conclusa. Il fatto stesso che la COP28 si sia svolta nel Golfo Persico, dove monarchie assolute si reggono sulla produzione del prodotto più inquinante di tutti, cioè il petrolio, il combustibile fossile per eccellenza, potrebbe apparire come un sarcastico parossismo della grande contraddizione del nostro presente capitalistico, diviso tra produzione immanente di cose per lo più inutili ma utili al profitto e distruzione ambientale. Qualche difensore dei sultani con la kandora e la kefiah controbatte che dalle parti delle autocrazie islamiche batte anche tanto sole e perciò esse continueranno a restare i maggiori produttori di energia, ma questa volta pulita. Può essere, molto sole è presente anche nei deserti del grande Sahara e del Kalahari in Africa. Tuttavia, sono pochi quei paesi Africani che sarebbero stati in grado di ospitare 100 mila persone tra lusso, hotel stellati, voli speciali. La causa è l’arretratezza economica e strutturale del continente africano e la ragione di questa arretratezza è storica ed è centrale alla grande questione della crisi climatica, in discussione a Dubai: l’industrializzazione.

Nel caso di molte economie africane – non tutte a dire il vero – si tratta della mancata industrializzazione. A parte i settori estrattivi ed agricoli – e anche in questo in maniera molto ridotta rispetto al resto del mondo – la quasi totalità delle economie africane non è mai riuscita a raggiungere livelli di crescita tali da elevare le proprie società verso gradi di progresso accettabili o almeno comparabili a quelli europei.  Questo perché la produzione africana è da secoli restata ferma al palo.

L’Afrique noire est mal partie (l’Africa nera è partita male). Così, negli anni ’60, titolava il libro dell’ingegnere agronomo René Dumont. Erano gli anni dell’ottimismo post-indipendenza. Il colonialismo sembrava finito e il neo-colonialismo non era ancora evidente ai più. Quel libro fece scalpore, perché squarciò col suo urlo scandaloso la quiete del concerto delle nuove nazioni africane. L’analisi puntava il dito sul carattere rinunciatario e per questo corrotto delle élites africane francofone che preferivano l’aiuto caritatevole dell’ex-colonialista Francia, piuttosto che mettere in atto piani industriali autonomi che rendessero il lavoro africano più produttivo e che aumentassero i volumi e gli investimenti di capitale produttivo. Il problema dell’agronomo era quello di produrre più cibo per sfamare la crescente massa demografica africana. Ma l’industrializzazione dell’agricoltura e non solo avrebbe anche portato all’espansione di una classe lavoratrice degna di questo nome, più consumi e più infrastrutture.

Le ristrette élite africane più illuminate ben comprendevano tutto questo e capivano che se l’Africa continuava a rimanere impelagata nel soffocante rapporto di dipendenza con le ex-potenze coloniali, anche dopo la sua indipendenza formale, nessun tipo di progresso sarebbe stato possibile. Come auspicava l’economista egiziano Samir Amin, la logica del «nastro di trasmissione», coi prodotti primari africani scambiati per i prodotti finiti europei, andava reciso. Un leader illuminato fu Kwame Nkrumah, primo ministro e presidente del Ghana, il quale cercò, ed entro certi limiti riuscì, di far progredire il proprio paese nell’industrializzazione. Non passarono che pochi anni e nel 1966 il sogno di un progetto di modernizzazione fu scalzato da un colpo di stato militare. Una decina di anni dopo usciva il libro di John Stockwell, ex-funzionario della CIA, In Search of Enemies, in cui si dichiara candidamente il coinvolgimento dell’Occidente nel colpo di stato. La storia del Ghana non è l’unica. L’Occidente non ha mai voluto un’Africa indipendente e autonoma. Non poteva permetterselo.

Quindi, il mancato sviluppo industriale dell’Africa è anche di natura esterna. Per questo economisti radicali parlano di sottosviluppo, parola quasi scomparsa dal gergo sia accademico che giornalistico. Un’eclissi che è come un’autoassoluzione. Le interferenze e il controllo esterno avevano come perno d’azione gli interessi economici africani. Perseguire politiche di potenza implica il controllo degli altri per i propri interessi. In effetti, ci si potrebbe chiedere perché l’Occidente non dovrebbe perseguire i propri interessi. Perché l’Occidente dovrebbe smettere di fare l’Occidente? Perché il capitale dovrebbe smettere di fare il capitale? Ma domanda dopo domanda, arrivando all’oggi, perché le élite mondiali dovrebbero privilegiare l’Africa nel grande giuoco sistemico della riconversione ecologica? La risposta è semplice, la domanda è mal posta. L’Africa non è al centro di un grande progetto di aiuto o di ribilanciamento storico tra parti.

Inoltre, dal punto di vista dei dominati, che cos’è “l’Africa”? Quale sarebbe l’interesse della società africana? In Africa, come altrove, ci sono delle élites e delle masse popolari. Sarebbe la crisi climatica a unire questi opposti sociali?  Gallup, la società americana di sondaggi di opinione, che opera a livello globale, dopo decenni di analisi in diversi paesi dell’Africa, rivela che per la maggioranza degli africani il problema più importante non è (purtroppo) l’ambiente, non è la corruzione, non sono l’autoritarismo o la democrazia, eccetera. Il problema principe per gli africani è il lavoro e più precisamente la mancanza e la bassa qualità del lavoro.

Il lavoro e la qualità del lavoro, come tutti sanno, dipendono dal livello di avanzamento di un’economia, dalle capacità tecnologiche e dagli investimenti di capitale. Nelle società moderne, dal Cinquecento a oggi, è stato il settore industriale a guidare lo sviluppo tecnologico-capitalistico, nel bene e nel male. In questi cinquecento anni, l’Africa è stata trattata come merce di scambio, come una riserva di lavoro schiavile e di materie prime. Lo sfruttamento dell’Africa da parte di Gran Bretagna, Francia, Germania è stato possibile per via della superiorità tecnico-industriale dell’Europa che nessuna resistenza indigena poteva fermare. La superiorità industriale si è ripercossa nella conquista politico-militare.

Come si lega tutto questo con la COP28? L’industrializzazione del Nord del mondo ha avuto dei costi ambientali. L’inquinamento, quello vero, è stato prodotto in Europa a partire soprattutto dall’Ottocento. Anche una bambina o un bambino delle scuole elementari, con un/a insegnante decente, sa che lo sviluppo del sistema di fabbrica in Europa è la causa dell’inizio dell’aumento di CO2 nel globo. La concentrazione di gas serra nell’atmosfera è un fenomeno del passato più che del presente. L’industrializzazione capitalistica e la logica capitalistica stessa dell’accumulazione illimitata sono state causa sia dell’inquinamento che del dominio industriale-coloniale. L’Africa ha subìto e continua subire le conseguenze di tutto questo.

Se l’Occidente industriale continua a dominare il Sud del mondo, che include l’Africa, lo fa in funzione di una posizione di dominio acquisita tramite la sua industrializzazione – si pensi per esempio a chi controlla Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale.

Allora, perché le economie dell’Africa non possono altrettanto mirare a uno sviluppo industriale? La risposta è semplice. Perché l’industrializzazione inquina e come razza umana abbiamo raggiunto il punto di saturazione. È evidente dunque che gli africani stanno pagando due volte il conto della storia dello sviluppo industriale-capitalistico. Da un lato, gli africani si trovano in una posizione di inferiorità economica e strutturale oggettiva, dall’altro lato, non possono più permettersi di promuovere processi di industrializzazione autonomi senza essere tacciati di volere distruggere il mondo.

Finanza climatica o trasferimento industriale?

Nessuno conosce ancora i risvolti economici, politici e globali della transizione ecologica auspicata fin dagli anni ’90. Il bilancio stesso della COP28 è difficile da tracciare. Persino tra gli attivisti-ecologisti, le posizioni sono divergenti. Ci sono coloro che ritengono l’accordo finale un atto storico verso l’abbandono dei combustibili fossili, anche se solo nel 2050; e ci sono coloro che ritengono che la COP28 sia stata un fallimento, perché il compromesso finale consiste solo in un’intesa di principio senza vincoli. Se si osserva il problema dal punto di vista del continente più svantaggiato del mondo, l’Africa, le posizioni di cui sopra non possono che essere considerate parziali. Esse non tengono in considerazione la struttura globale dell’economia capitalistica attuale in cui il cosiddetto Sud Globale, per le ragioni storiche di cui sopra, potrebbe pagare due volte e in maniera sproporzionata i costi della transizione ecologica.

Ma che cosa hanno chiesto i rappresentanti africani alla COP28? Che cosa voglio le organizzazioni non-governative (ONG) africane e le tante associazioni ecologiste?  In una parola: soldi. Soldi per cambiare. Se il mondo non vuole che l’Africa inquini bisogna pagare. L’istituto forse più rappresentativo della “voce africana” nella questione ecologica è l’African Group of Negotiators on Climate Change (AGN) con sede ad Addis Abeba. L’AGN è stato uno degli attori africani più prominenti a Dubai.

Ma che cosa è la AGN? Partiamo dagli “stakeholders” (i membri). Essi sono: i governi africani, rappresentati dall’Unione Africana; la finanza, rappresentata dall’African Development Bank (AfDB); alcune agenzie delle Nazioni Unite (che non sono l’Africa); e tutta una serie di ONG, africane e non, che non si capisce bene come o con quali criteri di selezione siano finite a fungere da rappresentanti dell’Africa tutta. Più che la voce dell’Africa, sembra che la voce sia quella dei governi, della fantomatica comunità internazionale e degli interessi privati rappresentati dalle ONG (uno dei grandi business nascosti dell’Africa).

Analizzati gli attori, si può entrare nel merito. Le priorità della ANG sono la finanza climatica, il global stock-take (il sistema di condizionalità), l’efficientamento verso l’elettrico, il rafforzamento del fondo per i disastri naturali (Loss and Damage Fund), la necessità di dare all’Africa uno status speciale ovvero più diritti a sfruttare i fondi internazionali pur di non industrializzarsi.

L’AGN assieme all’Alleanza dei piccoli stati insulari, del G77 + Cina, delle economie di recente industrializzazione del gruppo BASIC (Brasile, Sudafrica, India e Cina), ecc. hanno tentato di creare un blocco economico del Sud globale per rivedere l’architettura finanziaria globale e delle banche di sviluppo multilaterali, in modo da «fornire finanziamenti significativi per il clima e lo sviluppo». Siccome gli effetti del cambiamento climatico si fanno sentire di più nel Sud Globale, la finanza climatica dovrebbe agire di più in questa regione. L’approccio è semplice, se non semplicistico. Infatti, resta lo storico rapporto di potere unidirezionale, dai paesi industrializzati e più ricchi verso l’Africa.

La posizione dell’AGN è naturalmente legittima. Per molti osservatori è anche la più logica. Si riconosce all’Africa una certa eccezionalità rispetto al resto del mondo. La transizione ecologica deve essere giusta. Si parla di “just transition”. Per questo i diversi meccanismi escogitati avranno un occhio di riguardo per l’Africa. Ma può esserci equità in un rapporto tra datore e ricevente mediato da interessi? Tra creditore e debitore? Neppure tra benefattore e mendicante esiste equità. È l’assistenzialismo finanziario-climatico la sola soluzione per l’Africa nel grande giuoco della transizione ecologica?  Il paradigma dell’assistenzialismo è stato alla base della cooperazione allo sviluppo con cui l’Occidente ha continuato a condizionare l’Africa, anche dopo il colonialismo. La finanza climatica comporta pur sempre rapporti di tipo creditizio, anche se agevolato.

Se da un lato, molti paesi africani restano attenti ai processi legati al cambiamento climatico, come la desertificazione o gli eventi climatici estremi, alluvioni e siccità; ce ne sono altri più accorti a non fare della transizione ecologica un dogma, che in quanto tale non può essere discusso. Il Climate Action al quale si richiama l’accordo raggiunto alla COP28 è composto da diversi elementi. Tutte le parti finanziarie, legate alla riconversione economica (chiamata “adaptation”) e alla cosiddetta “net zero” (il taglio delle emissioni di greenhouse gas) sono molto problematiche, per le ragioni di cui sopra e perché le economie africane sono molto, anzi troppo indebitate per potere entrare in un rapporto regolato secondo le fredde logiche della finanza. Si tenga anche presente che la tecnologia necessaria e da finanziare non è africana. L’Africa non possiede i brevetti e li deve importare. Le compagini economiche in grado di mettere in atto e costruire le infrastrutture necessarie alla transizione sono anch’esse per lo più esterne. Insomma, il capitale, la tecnologia e le imprese (il lavoro) necessari alla transizione ecologica sono in Europa, in America e certe parti dell’Asia e sono il risultato di quella storia di progresso economico e tecnologico che nasce dalla rivoluzione industriale, anch’essa in qualche modo una transizione da un mondo a un altro. L’Africa ha fornito a quello sviluppo economico schiavi e materie prime letteralmente rapinate dal continente.

Arriviamo allora al cuore della controversa questione: il diritto dell’Africa di industrializzarsi e di potere inquinare in maniera relativamente maggiore dei paesi già industrializzati. Se “just transition” significa veramente giustizia, allora la riduzione della produzione industriale e dell’inquinamento nel mondo ricco andrebbe controbilanciata con il diritto di potere produrre di più in Africa. Questo diritto, misurabile e spendibile, potrebbe diventare un asset e persino una merce di scambio per le economie africane per attirare i capitali produttivi che si aggirano per il globo.

Il diritto delle economie africane a non dovere dipendere da altri per il proprio progresso va di pari passo con la rescissione del legame di dipendenza che crea la finanza, inclusa quella climatica. Le questioni al centro dell’attività delle COP e della UNFCCC, cioè le energie rinnovabili, il Loss and Damage Fund (i soldi a fondo perduto per fare fronte ai disastri naturali) e del sistema “early warnings” (l’allerta meteorologica) potrebbero benissimo non essere intaccate da questo processo di trasferimento industriale. Al contrario, si tratta di strumenti neutrali di cui indubbiamente beneficerebbero le economie africane in via di industrializzazione. Si tratta di trasformare le economie e le società africane attraverso l’industrializzazione e non solo con l’aiuto, il credito e la finanza climatica.

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