IDEATO E DIRETTO
DA ANTONIO CANTARO
E FEDERICO LOSURDO

IDEATO E DIRETTO DA ANTONIO CANTARO E FEDERICO LOSURDO

L’Europa di fronte alle sue Afriche

Parlare di Africa ed Europa senza parlare di migrazioni è impossibile, perché la mobilità delle persone si intreccia con le diseguaglianze economiche, le guerre, l’ambiente e il controllo sulle materie prime, il principale strumento con il quale si perpetua il controllo autoritario dello stato in Africa.

Un’intera area continentale del pianeta appare periodicamente lanciata nel dibattito europeo (ogni volta, come fosse la prima) sul fondo di una scoraggiante banalizzazione dei suoi reali contesti politici, sociali ed economici. I tanti stereotipi circolanti sull’Africa hanno potuto tracciare, indisturbati, un solco profondo nelle culture europee, con la falsa coerenza con la quale ogni stereotipo, per definizione, blocca e cauterizza i processi conoscitivi. La possibilità che si offre così alla comunicazione politica di ridurre tutto a formule note invita ad accomodarsi negli errori (un invito raccolto anche in ambiti inaspettati). E tuttavia, non mancano opportunità.

Unioni africane e divisioni europee

Parlare di Africa ed Europa senza parlare di migrazioni è impossibile; e non per i cliché della comunicazione politica europea; ma perché la mobilità delle persone tocca temi di diseguaglianze economiche, guerre, ambiente e, soprattutto, del controllo sulle risorse, che resta ancora il vero strumento con il quale si perpetua il controllo autoritario dello stato in Africa (e nel Golfo).

Proprio sul tema della mobilità delle persone (diritto di libera circolazione, mobilità per lavoro, rifugiati, profughi di conflitti, esuli politici) la politica africana ha seguito un itinerario storico che meriterebbe migliore stampa in Europa. L’Unione Africana (https://au.int/) – che da qualche settimana è stata ufficialmente integrata nel G20, al summit di Delhi – è il quadro istituzionale comunitario degli Stati del continente e svolge, pur fra limiti e rigidità, le attività di coordinamento politico  su grandi temi (attività che sono ignorate dalle nostre testate nazionali di informazione, come lo è del resto tutta l’ordinaria vita istituzionale africana, con rarissime eccezioni). Dopo anni di negoziati e valutazioni politiche, l’UA ha inaugurato nel 2018 l’Area di libero scambio continentale in Africa (CFTA Continental Free Trade Area, au-afcfta.org/), divenuta, con le ratifiche ‘pesanti’ di stati come il Sudafrica e la Nigeria, la più grande area di libero scambio al mondo. Il trattato corona uno straordinario progetto di visione politica continentale che gli africani hanno coltivato già prima di completare le indipendenze, sperimentando poi vari livelli di cooperazione regionale e continentale.

L’azione politica sul tema della mobilità era iniziata già con la Convenzione dell’Organizzazione della Unità Africana (OUA) del 1969 su aspetti specifici dei problemi dei rifugiati in Africa e definiva in modo ampio la voce rifugiato per includere tutti gli individui sottoposti a persecuzioni, permettendo di applicare in Africa lo status di rifugiato senza restrizioni rispetto a standard internazionali. L’atto fu promulgato mentre una parte dell’Africa era ancora impegnata in lotte di liberazione nazionale e doveva affrontare massicci spostamenti forzati di individui fra paesi vicini, a seguito di azioni dei movimenti di liberazione o di interventi militari esterni, oltre che di calamità naturali. Nel complesso, l’Africa ha elaborato e negoziato sul tema, dagli anni ’60 in poi, almeno 28 testi a livello continentale fra trattati, convenzioni, protocolli e carte (mentre continua ad accogliere la grande parte di rifugiati e di migranti africani). Dopo l’evoluzione della OUA in vera e propria Unione, fra 1999 e 2002, l’UA è riuscita ad elaborare un quadro continentale sulla migrazione sottoscritto nel 2006 come Accordo-Quadro per le Migrazioni Africane o Migration Policy Framework for Africa, MPFA (condiviso fra i Paesi africani, un decennio prima che la comunità internazionale elaborasse sul tema il Global Compact Migration, GCM di Nazioni Unite). Nel merito, la diseguaglianza economica fra gli stati e le crisi locali possono rendere molto difficoltosa, o a volte pregiudicare, l’attuazione di diverse di queste disposizioni (com’è comprensibile); ma la filosofia di fondo dei protocolli infra-africani tende a liberalizzare sia il regime migratorio sia la gestione dei confini in Africa e a facilitare ‘l’integrazione regionale e lo sviluppo economico’, pur con diverso impatto sulle regioni africane.

Per paradosso, le pressioni esercitate da stati dell’UE sui paesi dell’Africa occidentale – come Senegal, Gambia o Guinea – per frenare i flussi verso l’Europa, finiscono per contrastare con la libertà di movimento sancita dal protocollo del 1971 della Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (ECOWAS) sulla libera circolazione delle persone, il diritto di soggiorno e di stabilimento. In linea di principio, i cittadini di questi stati hanno il diritto di muoversi, lavorare e fare affari in altri stati di quest’organizzazione e questi hanno pochi mezzi legali per contrastare quella che gli europei qualificano come immigrazione “clandestina”.

Cui prodest?

Nonostante questa articolazione del quadro interno africano e dei suoi dispositivi (giuridici e di attuazione), una reale cooperazione euro-africana su questi temi non è mai decollata. I vertici afro-europei del passato, come nel 2006 a Rabat e poi a Tripoli, non sono mai andati oltre le dichiarazioni di buone intenzioni e i propositi di aumentare la cooperazione euro-africana. Gli stati europei non hanno ritenuto di percorrere la via dei flussi regolari di mobilità, in trasparenza e cooperazione fra partner istituzionali di pari dignità. All’interno di stati sia europei sia africani hanno agito attori che hanno “un ben scarso interesse genuino” a fermare la mobilità o a renderla governabile, sicura e regolare e sono, invece, molto più interessati a negoziare contropartite nazionali, one-to-one, fuori dai rispettivi quadri comunitari. Si è sistematicamente privilegiata la via di accordi bilaterali “opachi”, fra singoli stati, per negoziare soprattutto – con intese o contropartite non esplicitate – altri interessi e altri patti; ad esempio, per lo sfruttamento di manodopera o di risorse o per utilizzare flussi di mobilità come leva politica su diversi tavoli (non solo in Europa; Gheddafi la manovrava per rafforzare alleanze o sostenere linee di politica estera). Le intese bilaterali hanno però incoraggiato le rivalità fra stati in Europa – che si percepivano come competitori nelle trattative – e consolidato oligarchie autoritarie in Africa; le stesse che la nuova UA, sia pur con fatica, iniziava allora a censurare politicamente con nuovi strumenti, in favore di una evoluzione sempre più democratica dei sistemi politici africani (una novità che avrebbe meritato maggiori attenzioni e solidarietà da parte della UE). Il rafforzarsi di stati autoritari (con ricchezze illegali, circuiti criminali, conflittualità interna, crescita delle diseguaglianze) mina, peraltro, lo sviluppo democratico anche di paesi vicini. Un dato, questo, che è considerato di per sé uno fra i più seri fattori sistemici che sospingono le migrazioni: la mancanza di libertà e dignità per i cittadini africani stimola nuovi flussi, anche fra giovani istruiti che abbandonano contesti non politicamente liberi. Si è alimentata così una circolarità infernale, che buona parte di società e istituzioni africane ha cercato faticosamente di contrastare, dopo la fine della Guerra fredda, ma senza trovare buoni alleati al suo fianco.

Mentre a Barcellona, negli anni ’90, si apriva nientemeno che un “dialogo con le componenti della società civile” sulle sponde del Mediterraneo (obiettivo fallito del Partenariato europeo e del Processo di Barcellona del 1995, e persino di un ambizioso Forum civile euromediterraneo: F. Burgat), la politica europea prendeva invece tutt’altra direzione. Qualche anno dopo, Gian Paolo Calchi Novati osservava amaramente che la cooperazione allo sviluppo, inaugurata con l’obiettivo di contrastare le diseguaglianze fra i paesi del mondo, era andata perdendo, dopo la fine del bipolarismo, la sua funzione originaria: l’integrazione veniva ora, piuttosto, perseguita attraverso le guerre (Il Sud del mondo, 2009).

Orizzonti politici, fra passato e futuro

Rispetto al continente africano abbiamo dunque un serio problema che è d’ordine filosofico e culturale, e forse persino psicologico, prima ancora che politico o “geopolitico”; ma la buona notizia è che abbiamo dati e strumenti teorici per affrontare questi problemi.

Quando le fasi di accelerazione delle globalizzazioni ottocentesche avevano costretto piccole nazioni europee a ripensarsi su base sovranazionale, gli statuti disciplinari deputati a dare visione di sé a ogni comunità hanno, pur con fatica, dovuto mediare fra il concetto romantico di nazionalità – malato di unilateralità – e le necessità di interpretare le lotte politiche fra stati europei. Si è così ampliato il teatro dell’appartenenza condivisa e, con esso, il dominio di coerenza per l’analisi dei fenomeni e dei processi. Questo ha consentito a società nazionali in formazione, che andavano estendendo e accelerando enormemente le loro interrelazioni, di comprendere e interpretare i processi, potendo disporre di strumenti teorici comuni e verificati per affrontarli. Oggi, la cornice (di per sé idealizzata) di autonome civiltà distinte, entro la quale sono state ricondotte in passato sia le idee di cultura sia le narrazioni storiche e identitarie, è da tempo divenuta insufficiente per pensare il mondo contemporaneo. Nei fatti, le formulazioni culturali e identitarie di ogni luogo del pianeta sono già ampiamente fuoriuscite da queste cornici di apparente coerenza “interna” sin dall’età definita coloniale (senza contare che l’appartenenza di certi paesi alle regioni in cui sono inseriti ‘non appare del tutto ovvia’: R. Dahrendorf, La società riaperta 2005: 119-120). Il risultato è che le differenze culturali fra esseri umani sul pianeta non sono mai state così lievi nella storia dell’umanità e che la globalizzazione degli stili di vita e delle istituzioni è oggi ben più avanzata di quanto singole società locali (europee o africane o di altre latitudini) siano disposte ad ammettere.

Sull’Africa contemporanea, la ricerca scientifica africanista nazionale e internazionale è, su tantissimi fronti disciplinari, tanto ricca quanto inascoltata in Europa (dai cittadini come dalle istituzioni). È un patrimonio disponibile. E tuttavia, le resistenze culturali europee ad accettare il teatro mondiale come orizzonte condiviso per il futuro, e a farlo anche in termini politici, culturali e sociali (e non solo di mercato) sono un freno tremendo per qualunque visione politica sul futuro, non solo delle crisi ma anche delle opportunità connesse all’Africa. Queste resistenze privano la ‘next generation EU‘ di una delle più fertili innovazioni culturali disponibili, già a portata di mano, per poter dare solide basi a una nuova visione delle sfide e delle opportunità planetarie che l’attendono.

È certamente vero che “più il capitalismo si universalizza, più le sue contraddizioni diventano universali”, con l’unificazione di mercati, della comunicazione e del vivere comune; e questo può favorire l’agire entro uno scenario condiviso, ma solo adattando gli strumenti teorici a tutela delle specificità dei contesti, senza le gerarchie del passato e grazie alla ricerca.

I più significativi (e desiderabili) traguardi nei rapporti con l’Africa non si otterranno inseguendo il gioco di instabili alchimie “geopolitiche” o dispiegando eserciti, come il passato trentennio ha dolorosamente dimostrato (sin dall’operazione Restore Hope in Somalia, ogni azione militare euro-occidentale ha fallito gli obiettivi dichiarati e seminato morte e distruzione; e le conseguenze degli errori fatti, militari e politici, sono in questi mesi sotto gli occhi di tutti). In Africa, la diplomazia ha sicuramente più chances della guerra. Non solo perché l’Africa, che è molto ricca, non è poi così disposta a farsi ri-colonizzare per mezzo di propri dittatori. Assumere oggi la responsabilità morale di scelte corruttive e predatorie per “interessi nazionali” non è senza conseguenze; e tali scelte non promettono neppure di garantire a lungo i frutti goduti in passato. In questo sistema interconnesso, se si mette fuori gioco la storia e la politica, restano solo i rapporti di forza; e trent’anni di conflitti scellerati hanno creato un fatto nuovo: con le guerre, ingentissime risorse sottratte al benessere di milioni di cittadini africani hanno arricchito gruppi di criminalità internazionale che si sono enormemente ampliati e rafforzati e sono diventati oggi estremamente pericolosi per le società africane e anche per le stesse società europee. Nel pianeta in cui viviamo, nessuna società può pensare di restare interamente al riparo in una “civiltà chiusa” (civiltà che, peraltro, “chiuse” non lo sono mai state, neanche in passato).

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