IDEATO E DIRETTO
DA ANTONIO CANTARO
E FEDERICO LOSURDO

IDEATO E DIRETTO DA ANTONIO CANTARO E FEDERICO LOSURDO

C’era una volta in Italia

Libertà e dignità del lavoro nella relazione tenuta il 24 novembre presso l’Università di Teramo al Convegno “Sembra quasi un mare l’erba. Diritto, cultura e società negli anni 70”. Due giornate dedicate al decennio simbolo delle libertà, delle lotte politiche, della creatività e dell’innovazione.

Per rispondere alla domanda cosa resta degli anni ‘70 è necessario porsi prima un’altra domanda: cosa sono stati gli anni ‘70?  La risposta, per chi non è accecato dalle cattive ideologie dei giorni nostri, è semplice. Gli anni ’70 sono stati il tentativo di mettere in forma gli anni ’60.  Un tentativo tragicamente chiuso, dal punto di vista storico-politico, il 16 marzo 1978 con il rapimento di Aldo Moro. Un giorno che segna anche la fine della prima Repubblica.

Senza i costituenti anni ’60 e la rabbiosa risposta ad essi dei poteri costituiti non si capisce un bel niente degli anni ’70. Il tema assegnatomi mi aiuta. La libertà e la dignità del lavoro è, infatti, il terreno che in modo esemplare riassume la passione costituente degli anni ’60 e ’70. Costituente persino nel lessico, se un gruppo musicale, come quello che qui celebriamo, porta impresso nel nome un luogo artigianale ed operaio. La forneria. Premiata, un auspicio divenuto ben presto, contro ogni previsione dei benpensanti, realtà.

Non la farò lunga. Potete spegnere per qualche minuto i vostri smartphone. Che c’entrano i cellulari? Molto, moltissimo, come dirò conclusivamente.

Prima dell’autunno caldo

Serve fare un passo indietro. Serve un po’ di storia sociale, civile e politica, di storia vissuta e non meramente statistica. Tornare con il cuore alla condizione del lavoro prima dell’autunno caldo.

Dopo il ’48, il clima del nostro Paese è ancora quello di un regime paternalistico, autoritario. Sistematico rifiuto del potere di negoziazione alle rappresentanze dei lavoratori, licenziamenti di quadri sindacali, trasferimenti in “reparti confino” degli operai combattivi, specie di quelli comunisti.

Con rare eccezioni – le aziende governate da capitalisti “illuminati” – le condizioni di lavoro sono degradanti. Molte aziende, anche di grandi dimensioni, sono prive di mense, di spogliatoi decenti, di docce. Vige una disciplina volta a umiliare i dipendenti tramite quasi quotidiane perquisizioni personali ed assai diffusa è una mentalità padronale per la quale dare un posto di lavoro e un salario è un gesto di generosità che richiede in cambio illimitata gratitudine.

La soggezione dei lavoratori verso le gerarchie aziendali è a tal punto la normalità che gli abusi sessuali sulle operaie sono all’ordine del giorno e, talvolta, persino, accettati dalle stesse vittime. Una parte del clero predica di evitare alla donna il lavoro industriale, se vuole mantenere integra la sua moralità. Mentre un’altra parte utilizza le parrocchie come uffici di collocamento per tenere sotto controllo la forza lavoro. E predica che “scioperare è peccato”.

L’ arendtiano animal laborans.

L’operaio italiano dei primi decenni del secondo dopoguerra assomiglia molto all’arendtiano animal laborans. Preoccupato della sua sopravvivenza biologica, il primum vivere fa aggio sulla sua dignità di animale sociale e politico. Di cittadino, di homo civilis.

La cesura verso l’ordine di fabbrica che prende corpo negli anni ‘60 – un decennio di rinnovati conflitti sindacali, di profonde trasformazioni culturali nel mondo cattolico, giovanile e femminile – è netta. Gli operai in quanto tali reclamano sempre più frequentemente un posto nella vita dell’impresa e in quella sociale, smentendo la rappresentazione per la quale l’animal laborans è ineluttabilmente fagocitato dalla necessità biologica dell’autoconservazione e gli è ontologicamente preclusa la possibilità di crearsi un proprio mondo.

A dispetto di questa cupa previsione, gli operai italiani si adoperano per rendere concreta la rivoluzione promessa di una Repubblica fondata sul lavoro. Rimuove gli ostacoli che ne impediscono l’effettiva partecipazione alla vita politica, economica e sociale del Paese. Far vivere il principio che il rapporto di lavoro è un rapporto contrattuale, non un atto di beneficenza.

Il lungo autunno caldo

Le idee forza che permeano gli anni ’60 e ‘70 – il lungo autunno caldo aperto con le lotte per i rinnovi contrattuali del ‘69 e chiuso con la sconfitta operaia alla Fiat nel 1980 – non lasciano adito a dubbi. Siamo di fronte ad idee materialmente costituenti.

La prima idea forza, in seguito ingiustamente dileggiata come demagogica, fu quella dell’egualitarismo. Strumento e condizione, nel contesto della realtà italiana di allora, per scardinare il sistema disciplinare, per sottrarre i lavoratori a varie forme di ricatto e divisione, all’arbitrarietà di scelte punitive o di promozione che poco avevano a che fare con il rendimento e l’abilità.

La seconda idea forza fu la costituzionalizzazione della fabbrica, l’acquisita consapevolezza della dignità sociale dell’operaio. È grazie ai rinnovi contrattuali del ‘69 che la Costituzione, con il suo corredo di diritti, varca i cancelli delle fabbriche. Una conquista di civiltà che verrà simbolicamente e giuridicamente recepita nella seconda Carta Costituzionale della storia repubblicana. Quello Statuto dei lavoratori del maggio 1970 che impediva alle guardie giurate di entrare nelle linee di produzione, trasferiva dai medici aziendali all’Inps la titolarità delle visite fiscali, vietava il controllo del personale a distanza con apparecchiature audiovisive, disciplinava le sanzioni disciplinari e il trasferimento ad altre mansioni del lavoratore.

La terza idea forza fu la lotta per la riduzione dei ritmi di lavoro che negli anni ‘50, soprattutto nella produzione di serie, si erano intensificati al punto tale da dar vita – grazie a punte inaudite di cottimo e di turnover – ad una vera e propria selezione darwiniana della mano d’opera.

La quarta idea forza fu la difesa dell’integrità fisica del lavoratore, la lotta contro la nocività dell’ambiente e delle lavorazioni. Per tanti versi il lascito più duraturo di quella stagione, grazie anche al coinvolgimento della classe medica che vedeva aprirsi nuovi orizzonti alla deontologia professionale con l’emergere di nuovi modelli di prevenzione e trattamento della malattia.

Un insieme organico di grande coerenza interna. Non espressioni epidermiche di collera o infatuazioni ideologiche, ma processo di pensiero, scoperta di una collocazione sociale non più subalterna, parallelamente a quanto avveniva con il processo di emancipazione femminile e giovanile.

È, comunque, la soggettività operaia il fondamentale driver del “lungo autunno” degli anni ‘70. Nascono nuove forme di rappresentanza, il Consiglio dei delegati. Nascono nuove forme di partecipazione diretta, l’assemblea, una agorà dove il lavoratore diventa cittadino di una repubblica separata. In seguito, l’assemblea diventerà una pratica stanca e rituale e perderà la freschezza iniziale. Tuttavia, per migliaia di persone quell’agorà rappresentò un’occasione di emancipazione, un momento indimenticabile della loro vita, quando per la prima volta ebbero il coraggio di prendere la parola in pubblico.

Il largo autunno caldo

Il lungo autunno caldo iniziato nel ’68 fu anche un largo autunno caldo: le sue idee forza esercitarono una “pulsione seducente” sull’insieme della società, innanzitutto nelle Università, tra studenti e docenti.

A partire da lì molte categorie professionali innescarono una radicale contestazione di consolidati stili deontologici. Gli insegnanti chiamati in causa dalle “150 ore”, una conquista che ha permesso a migliaia di lavoratori di assolvere la scuola dell’obbligo e di continuare una formazione politico-culturale iniziata in fabbrica. I medici, coinvolti nelle vertenze sulla nocività in sostituzione dei medici aziendali, disposti a sacrificare le loro ambizioni di carriera per diventare medici al servizio degli operai, dentro e fuori l’istituzione ospedaliera. Giudici del lavoro, avvocati, architetti, urbanisti, giornalisti.

Il movimento dei militanti di fabbrica, i delegati, il sindacato, avevano guadagnato alla propria causa preziosi alleati. Tra la borghesia, il ceto medio, le professioni liberali.

Quando termina il “lungo” e “largo” autunno caldo?

Quando termina il “lungo” e “largo” autunno caldo? Si è detto, in sede di storiografia sociale, nell’ottobre del 1980, con i 35 giorni di sciopero e con la marcia dei 40.000 quadri e impiegati di Torino che chiedono di lavorare. Dal mio punto di osservazione, la controffensiva contro l’autunno caldo in Italia – e contro la ragione laburista e socialdemocratica a livello globale – ha inizio quasi dieci anni prima, quando vengono poste le fondamenta intellettuali per fare assurgere alla ragione economica neoliberale lo scettro di sovrano del mondo.

All’inizio degli anni ’60 Gary Becker, esponente di spicco della Scuola di Chicago e allievo di Milton Friedman, dà alle stampe Human Capital. Archeologia? No, tutt’altro. I suoi studi sul capitale umano saranno nel 1976 al centro delle motivazioni per il conferimento a Becker del Premio Nobel per l’economia e, a dispetto della loro spregiudicatezza, sono penetrate a fondo nella nostra mentalità, nel nostro senso comune. A destra e a sinistra.

La capacità unificatrice, imperialista, dello sguardo economico è il cuore epistemologico della teoria beckeriana. L’economia è assunta come la regina scientiarum in grado di descrivere, tutti i comportamenti umani. E di prescrivere le condotte più consone ogni qualvolta vi sia un problema di scarsità di risorse da impiegare per raggiungere, in maniera ottimale, il fine favorito.

Da forza lavoro a capitale umano

Una vera e propria riscrittura dello statuto del lavoro e del lavoratore.

Una riscrittura spiazzante nella misura in cui emancipa l’attività lavorativa dalla dimensione meramente astratta e quantitativa nella quale l’aveva confinata la tradizione liberale. Spiazzante anche per quella tradizione marxista che denunciava l’ineluttabilità del fatto che nel modo di produzione capitalistico il lavoratore è ridotto a forza-lavoro biologica, a soggetto ineluttabilmente deprivato delle sue più proprie qualità umane.

A fronte, cioè, di una tradizione che aveva pensato il lavoro come mero elemento di passività – merce che i lavoratori vendono al capitalista in cambio di un salario – la teoria neoliberale, estende il suo raggio d’azione oltre gli aspetti quantitativi (mercati, capitali, investimenti, produzione) e mette al centro la dimensione concreta dell’agire economico, le “qualità umane” dei lavoratori.

Il mutamento del lessico è quanto mai rilevatore di una radicale revisione epistemologica. L’attività lavorativa non è più la messa a disposizione di forza-lavoro in cambio di un salario, ma l’attività di chi in base ad un razionale calcolo costi/benefici mette a frutto tutte le risorse di cui dispone, il suo capitale umano, al fine di ottenerne un rendimento. Il posto dell’astratta, quantitativa, forza-lavoro, è preso dall’insieme delle capacità fisiche, cognitive, emotive di cui dispone ogni individuo. Il rendimento/reddito che ciascuno individuo ottiene dipende dalla razionale messa a frutto di queste sue capacità umane.

Capitalizzazione dell’umano, umanizzazione del capitale

 Capitalizzazione dell’umano. A disporre di capitale non è solo chi dispone di proprietà in senso giuridico – banchiere e imprenditore – ma ciascun individuo in virtù delle capacità qualitative di cui dispone in termini di forza biologica, di attitudini, di conoscenze. Il lavoratore non ha un capitale, è un capitale: le sue attitudini e le sue capacità non possono essergli tolte.

Capitalizzazione dell’umano, ma anche umanizzazione del capitale. Non si dà alcuna differenza tra un finanziere di Wall Street e un minatore cileno: entrambi lavorano, investono il capitale di cui dispongono. La differenza è solo di grado: il finanziere percepirà un reddito superiore a quello del minatore perché farà fruttare un capitale maggiore di competenze e attitudini; ossia, in modo più sottile, perché sarà stato in grado di accumulare un capitale umano maggiore.

La razionalità particolare dell’homo oeconomicus del liberalismo classico portatore di interessi soddisfatti nella sola sfera dello scambio mercantile, si trasmuta nel neoliberalismo in razionalità universale. Se capitale non è solo la proprietà di denaro e mezzi di produzione ma anche la disponibilità di capacità e attitudini, capitale è il patrimonio genetico e biologico di ciascuno individuo (capitale innato) e tutto ciò che attiene la formazione è “investimento educativo” sul capitale: è attraverso la formazione che l’individuo disporrà di un capitale più elevato (capitale acquisito) e, quindi, in futuro di un maggior reddito

L’impresa come l’istituzione generale della vita sociale.

Per questa ragione il tema della formazione è così centrale nelle politiche dei nostri Stati neoliberali. È questa la radice della vulgata che attribuisce alla scuola e all’Università il solo compito di formare competenze spendibili sul mercato. Se un tempo il sistema scolastico e universitario era finalizzato alla costruzione dell’homo civilis, oggi tutto è in funzione della costruzione di capitale umano. Persino le cure che i genitori dedicano ai figli sono un investimento educativo e tanto maggiore sarà il tempo che vi dedicheranno quanto maggiore sarà il capitale di cui questi disporranno. L’impresa non è più la specifica istituzione dell’economia di mercato, ma l’istituzione generale della vita sociale. È tutta la società a essere un’azienda.

Tutti gli aspetti della vita – tempo, ambiente, amicizie, studi da intraprendere – vanno pensati imprenditorialmente. L’individuo neoliberale è un’impresa costante diretta a moltiplicare capacità d’investimento e profitti. Il modo in cui sta al mondo è esclusivamente quello della forma dell’impresa. Uomo fabbrica, tutto l’anno, ogni giorno dell’anno, a tutte le ore del giorno. È questa la ragione per cui, malgrado il mio accorato appello iniziale, tutti voi siete rimasti, in questi venti minuti, aggrappati con lo sguardo al vostro smartphone.

Una deontologia totalitaria

 Massimo rendimento e godimento estremo, secondo quanto esige la parola magica che va sotto il nome di performance. Lo spettacolo di una riuscita totale in omaggio alla quale siamo diventati esseri iperattivi e ultra-reattivi, sottoposti alla doppia ingiunzione di “sfondarci” di lavoro e di godere più che si può. Rendimento estremo nel tempo di lavoro. Godimento estremo nel “tempo libero”, nello shopping, negli inderogabili aperitivi serali, nel sacro week end.

La teoria del capitale umano e l’antropologia dell’imprenditore di sé sono, insomma, i tasselli di una vera e propria Weltanschauung. Di una trasversale visione morale, come ci racconta Ken Loach nel suo affresco sul paradigmatico mondo delle consegne digitali. Una famiglia di lavoratori formalmente autonomi costretti a vestire la maschera di “guerrieri” e, al tempo stesso, di “schiavi”.

La logica normativa della forma capitale e della forma impresa non è, tuttavia, un dato naturale. La sua pervasività è opera di un terzo e cruciale tassello. L’istituzione per legge della deontologia della concorrenza generalizzata. Far agire il mondo nella, con e per la concorrenza.

Una deontologia totalitaria. Planetaria in quanto postula un mondo popolato di imprese e Stati che si ergono ad “apostoli” della fede della competitività. Universale in quanto postula la messa in concorrenza di ogni ambito dell’esistenza degli uomini e delle istituzioni che ne indirizzano, organizzano e disciplinano le condotte. Nella forma del di più, dell’extra, del sempre di più. E non più in quella classica dell’assoggettamento ad un imprenditore che dispone formalmente e direttamente della forza-lavoro.

Il “capolavoro” del neoliberalismo. Raffigurare l’universale messa in concorrenza come una necessità oggettiva e, al tempo stesso, come l’incarnazione più autentica della soggettiva aspirazione dell’uomo alla libertà. Necessità e libertà, un binomio seducente e apparentemente irresistibile.

Riabilitare le virtù dell’homo civilis

In questo mezzo secolo che ci separa dagli anni ‘70 il progetto neoliberale ha conosciuto il suo apogeo in Italia e nel mondo. La realtà sembra coincidere, senza alcun apprezzabile scarto, con la teoria del capitale umano.

E tuttavia, se torniamo a interrogarci sull’autunno caldo, ad apprezzarne l’ethos, è perché le falle della razionalità neoliberale sono evidenti. Come ci segnala, pur ambiguamente, l’ascesa della ragione populista, la domanda di protezione dei mondi vitali espropriati dalla forma di vita neoliberale.

La ragione neoliberale non toglierà, tuttavia, educatamente il disturbo sino a quando l’interesse che suscitano in noi gli anni ‘70 resterà meramente commemorativo. Sino a quando rimuoveremo il fatto che in quella stagione si è sperimentata una critica pratica del capitalismo in nome delle virtù dell’homo civilis. Virtù oggi rimosse dall’immaginario dominante. E, tuttavia, sempre latenti in un mondo che produce troppi “scarti” per essere eternamente tollerabile.

Cercate, cercate ancora, amava dire all’epoca un economista di formazione marxista. Non lo abbiamo fatto, per opportunismo o per incapacità poco importa a questo punto. È tempo per la mia generazione di una autocritica profonda e spietata. È tempo di occuparsi qui ed ora delle nuove generazioni, di quelle presenti, senza nessuna concessione all’ideologia consolatoria di uno indistinto e futuribile sviluppo sostenibile

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