L’Europa complice e vittima
Sotto quest’aspetto, mi permetterei di essere alquanto più pessimista dell’autore. Personalmente non vedo progetti e propositi consapevoli e razionali, per quanto tragicamente ingiusti e destinati al fallimento. Vedrei piuttosto dei fallimenti senza progetto, alimentati da una sorta d’inerzia storica, da memorie frantumate e vaghe nostalgie, da una sorta di imperialismo residuale senza chiara coscienza di sé e senza obiettivi definiti. Verosimilmente il progetto iniziale di Putin non era altro se non di riaffermare con convincente brutalità che la Russia è tornata ad essere un attore globale e che nessuno può azzardarsi a toccare ciò che ha deciso appartenerle, come ad esempio l’Ucraina. E Putin pensava di avere successo in poco tempo, a costi bassi, con poche perdite e scarso rischio di un confronto globale con un Occidente appena umiliato dalla vergognosa fuga dall’Afghanistan. E gli americani, da parte loro, avevano inizialmente le stesse aspettative: l’Ucraina non poteva resistere, si trattava di salvare la vita a Zelensky e di prendere qualche misura difensiva sul fianco est della Nato. Penserei che non si debba sottovalutare il ruolo di “terzo incomodo” degli ucraini, che non fanno quello che avrebbero “dovuto” fare: cedere subito. Invece non solo resistono, ma su alcuni fronti vincono già nelle prime ore. E chiedono armi. E non dargliele sarebbe un’altra fuga e una clamorosa manifestazione di inferiorità verso l’aggressore. E siccome quelli che avrebbero dovuto perdere continuano a vincere, quasi dovunque, anche se a carissimo prezzo, non si può che continuare a dargli armi. Mentre dall’altra parte l’aggressore non può ammettere di aver clamorosamente sottovalutato l’avversario sbagliando l’intero piano d’attacco, deve fingere di aver previsto fin dall’inizio una guerra difficile e di lunga durata, perché si ha di fronte l’intero Occidente e si lotta per la sopravvivenza. La guerra diventa uno scontro tra imperi per sbaglio. Ed è questo che la rende tremendamente pericolosa. Perché mette in questione qualcosa che nessuno dei due rivali principali, che ormai si combattono per interposta Ucraina, voleva inizialmente mettere in questione: la propria natura di impero. E chi verrà sconfitto verosimilmente non sarà un impero mai più. E forse entrambi gli imperi crolleranno. Per questo non posso che concordare con Cantaro che l’opzione nucleare è tragicamente realistica (pp. 110-118). Temo fortemente che un uso “limitato” di armi atomiche (o la minaccia estremamente prossima e credibile di usarle) possa essere la via di uscita più probabile, costringendo a una soluzione negoziata senza vinti né vincitori. Sempre che esista qualcosa come un uso “limitato” e “tattico” dell’arma nucleare. A meno che non si verifichi prima un crollo del fronte interno da una parte o dall’altra, cosa che mi sembra assai più probabile negli Stati Uniti che in Russia (ma improbabilissima, invece, in Ucraina). Non c’è da attenderlo a cuor leggero, il crollo del fronte interno. Il mondo ne verrebbe destabilizzato probabilmente per molti decenni, sempre che, dopo una tale destabilizzazione, si possa ancora ragionare in termini di decenni, del che dubito assai.
Secondo Cantaro, la guerra è un’occasione tragicamente mancata per l’Europa, che anzi ne è una delle vittime. Vittima di sé stessa, anche. “In questa drammatica partita il Vecchio continente gioca un doppio ruolo. Quello di vittima nella veste di Europa, quello di complice nella veste di Unione europea. L’attuale guerra è l’apice di una seconda guerra freddo/calda che vuol mettere fuorigioco il progetto di un’occidente europeo alleato ma distinto dall’occidente atlantico” (p. 42). Non posso che concordare con l’autore che è solo una vuota apparenza, un autoinganno anche abbastanza consapevole, che l’Unione Europea stia emergendo dalla crisi come un soggetto politico a sé, uno dei grandi attori sulla scena globale: “stucchevole è apparsa sin dal febbraio 2022 la complice retorica unionista di rappresentare l’attuale ri-militarizzazione del mondo come l’occasione per un inedito e storico protagonismo dell’Europa come potenza geopolitica. La nuova era glaciale, l’assoluta incomunicabilità nelle relazioni internazionali, fa oggi molto più male all’Europa di quanto accaduto nella prima guerra fredda. È la NATO dal punto di vista organizzativo e istituzionale che sta tornando in vita, con gli Usa al timone. La declamata autonomia strategica europea dei mesi precedenti la guerra in Ucraina è un pio desiderio, se i Paesi dell’Ue non preservano un potere di valutazione autonoma e si acconciano a diventare i subappaltatori dell’industria della difesa americana” (pp. 42-43, ma cfr. anche pp. 139-155). Solo Francia e Germania, in effetti, tentano occasionalmente, con scarsa convinzione e ancor minore credibilità, di svolgere una qualche mediazione, non l’Unione Europea, interamente arroccata dentro la fedeltà atlantica. E un altro mediatore mancato, credo lo si possa aggiungere, è la Cina, sempre che non si voglia considerare come mediazione la sua ambiguità, che sta culminando in questi giorni nell’elaborazione di un piano di pace che si accompagna, a quanto sembra, con la disponibilità a fornire armi alla Russia. Senza voler escludere che la seconda cosa miri a indurre la Russia a una qualche disponibilità verso la prima, cosa che mentre scrivo non è ancora giudicabile.
Vie d’uscita? Cantaro non ha la pretesa, che sarebbe ridicola, di offrire ricette. Invoca però – e nello stesso tempo ne offre esempio – uno stile di pensiero onesto e pulito, contrario alla retorica manichea. Cominciando da un punto fondamentale: non bisogna cadere nella trappola di una contrapposizione tra Russia ed Europa. La Russia è Europa, ne è parte integrante. “Come spiegare altrimenti la diffusa convinzione dell’inseparabilità del grande romanzo russo dalla vita europea? Come spiegare la reciproca fascinazione tra Russia e Europa, una fascinazione che non si è interrotta nemmeno nel corso del “secolo breve”? Come spiegare che al volgere del ventesimo secolo l’ultimo segretario del Partito comunista sovietico indicherà nella costruzione di una casa comune europea l’orizzonte al quale legare il destino del suo popolo? E, d’altra parte, il fantasma del comunismo non era forse nato nel Vecchio continente e preso dimora in Russia? La Russia è stata ripetutamente attratta nella sua storia dall’idea d’Europa. L’ha identificata nella cultura alta, nel genio dell’illuminismo, in un modello umanistico compatibile con la sua anima” (p. 51).