Mentre scrivevo questo libro, gli Stati Uniti hanno visto un’escalation di conflitti. Sostenitori e avversari di Trump hanno ingaggiato una lotta senza esclusione di colpi. Da tempo, a un cambio al timone di un governo democratico non si accompagnavano tanta incertezza, tanto odio e tanta violenza. Il giorno dell’insediamento del nuovo presidente degli Stati Uniti, a Washington, il Campidoglio era una fortezza in stato di guerra.
Non è inverosimile, purtroppo, che in futuro le immagini provenienti dagli Stati Uniti possano essere replicate anche qui, come riflesse da uno specchio ustorio… a meno che non avremo il coraggio di imboccare al più presto una strada nuova. Anche la Germania, infatti, è profondamente spaccata. Anche nel nostro paese la coesione sociale va dissolvendosi. Anche nel nostro paese, quelle che un tempo erano Comunità unite sono spesso afflitte da divisioni e ostilità. Bene comune e senso civico sono termini pressoché spariti dal vocabolario di ogni giorno.
Addio argomenti, dominano le emozioni
Con la pandemia, la situazione è peggiorata ulteriormente. Mentre milioni di persone con lavori spesso malpagati continuavano a fare tutto il possibile per mantenere in piedi la nostra vita sociale, su molti media, nei siti internet, su Facebook e Twitter regnava un’atmosfera da guerra civile. Una spaccatura capace di dividere famiglie e di mettere fine ad amicizie. Sei favorevole o contrario al lockdown? Usi l’app di tracciamento? Ma davvero, dice, davvero lei non vuole vaccinarsi? Chi ha messo anche solo parzialmente in dubbio il senso e l’utilità di chiudere nidi e scuole, ristoranti, negozi e molte altre attività si è sentito accusare e definire indifferente di fronte alla morte di tante persone. Chi, contemporaneamente, riconosceva la pericolosità del nuovo coronavirus veniva aggredito allo stesso modo da quelli che vedevano in ogni misura adottata un mezzo per seminare il panico. E il rispetto per chi la pensa diversamente? E la riflessione ponderata sugli argomenti? Scordiamoceli. Invece di discutere tra noi, abbiamo fatto a chi urlava di più.
La cultura della discussione, però, la nostra società non l’ha persa con l’arrivo della pandemia. Già in passato c’erano stati dibattiti controversi condotti in maniera simile. Facendo cioè della morale invece di argomentare. Un concentrato di emozioni ha sostituito i contenuti e le motivazioni. Il primo dibattito in cui tutto questo è emerso è stato quello sull’immigrazione e sulla politica da adottare nei confronti dei migranti, tema che, dopo l’apertura dei confini tedeschi, nell’autunno 2015, ha oscurato per quasi tre anni tutti gli altri. Allora la narrazione governativa non parlava di lockdown, ma di cultura dell’accoglienza, e le obiezioni erano non meno sgradite di quelle espresse durante la pandemia. Mentre il pensiero politico dominante, a sua volta, bollava come razzista chi manifestava preoccupazione o accennava ai problemi derivanti da un’immigrazione incontrollata, sul fronte opposto dello schieramento politico si formava un movimento che paventava l’imminente tramonto dell’Occidente. Il tenore e i toni della discussione avevano più o meno la stessa acrimonia che ha caratterizzato il dibattito su quale fosse la politica giusta per contrastare la diffusione del coronavirus.
Non molto più obiettivo è stato il dibattito sul clima che ha dominato il 2019. Allora non si temeva il tramonto dell’Occidente, ma quello dell’umanità intera. Gli ambientalisti che ritenevano opportuno reagire con il panico combattevano contro veri e presunti negazionisti della crisi climatica. Una lotta che non ha risparmiato chi continuava ad andarsene in giro con il suo diesel, chi comprava la carne al discount o chi poteva permettersi di pagare di più l’energia e i carburanti. Intanto, al Bundestag, quello che era ormai diventato il più grande partito di opposizione, Alternative für Deutschland (AfD, Alternativa per la Germania), rispondeva a suon di cannonate contro la «lurida dittatura d’opinione dei sinistro-verdi».
Pare proprio che la nostra società abbia disimparato a discutere dei suoi problemi senza aggredire e con un minimo di educazione e rispetto. A sostituire la disputa democratica tra idee oggi sono i rituali emotivizzati dell’indignazione, della diffamazione morale e dell’odio palese. Tutto questo fa paura. Dall’aggressione verbale alla violenza vera e propria, infatti, il passo è breve, come ci dimostrano anche le vicende statunitensi. Ecco, quindi, che sorge un interrogativo: da dove viene l’ostilità che ormai spacca la nostra società su quasi tutti i temi di maggiore importanza?
Chi avvelena l’opinione pubblica?
La classica risposta a questa domanda recita: la colpa è della destra in ascesa. È colpa di politici come Donald Trump, che con le sue aggressioni verbali e i suoi tweet malevoli ha aizzato la gente seminando risentimento e discordia. È colpa di partiti come AfD, che fomentano l’odio e diffondono campagne denigratorie. È colpa, infine, dei social media, che fungono da gigantesca cassa di risonanza per le menzogne e per i commenti astiosi e che consentono agli utenti di muoversi soltanto nella propria bolla.
C’è del vero. I politici di estrema destra contribuiscono senz’altro ad avvelenare il clima politico. Gli Stati Uniti dopo Donald Trump sono un paese ancora più spaccato degli Stati Uniti prima di Donald Trump. Se il politico di AfD Björn Höcke vorrebbe, senza tante cerimonie, «ausschwitzen» [verbo che, letteralmente, significa ‘espellere sudando’ ma foneticamente appare come la trasformazione in verbo del nome “Auschwitz”, N.d.T.] chi la pensa diversamente, a noi viene la pelle d’oca. È anche vero che i social media favoriscono l’aggressività e i comportamenti più bassi perché sono fatti proprio per questo. Tutto ciò non ha migliorato la nostra cultura della discussione. Questa però è solo una parte della spiegazione. La verità, infatti, è che l’opinione pubblica non viene avvelenata solo da destra. Una destra più forte non è la causa, ma solo il prodotto di una società profondissimamente dilaniata. Non ci sarebbe stato nessun Donald Trump, e nessuna AfD, se gli avversari di entrambi non avessero preparato il terreno al loro avvento.
Hanno preparato l’ascesa delle destre dal punto di vista economico, distruggendo le garanzie sociali, liberando i mercati da ogni vincolo e amplificando all’estremo le disparità sociali e l’incertezza economica dei cittadini. Molti partiti socialdemocratici e di sinistra hanno però appoggiato l’ascesa delle destre anche dal punto di vista politico e culturale, schierandosi dalla parte dei vincitori mentre molti dei loro portavoce invitavano a disprezzare i valori e il modo di vivere di quello che un tempo era il loro elettorato, con i suoi problemi, le sue rimostranze e la sua rabbia.
Le regole del gioco per i vincitori
Ad avere la peggio, per colpa di un capitalismo globalizzato e senza regole, è soprattutto la cosiddetta gente comune. Il reddito di molti non aumenta ormai da anni, il che costringe queste persone a una lotta senza tregua per mantenere il proprio tenore di vita. Se qualche decennio fa i figli di famiglie disagiate avevano ancora concrete possibilità di ascesa sociale, oggi il tenore di vita individuale è determinato soprattutto dalla famiglia di provenienza.
Nell’epoca attuale, a vincere sono soprattutto i proprietari di grandi patrimoni finanziari e aziendali. La loro ricchezza e il loro potere economico e sociale sono cresciuti moltissimo, negli ultimi decenni. Tra i vincitori, però, c’è anche il nuovo ceto medio dei laureati delle grandi città, l’ambiente in cui il liberalismo di sinistra è di casa. L’ascesa sociale e culturale di questa borghesia è riconducibile agli stessi cambiamenti politici ed economici che hanno reso la vita difficile agli operai dell’industria e agli impiegati nel settore dei servizi, ma anche a molti artigiani e piccoli imprenditori. Chi però si trova sul carro dei vincitori ha un’altra visione delle regole del gioco, ovviamente diversa da quella di chi ha pescato la carta perdente.
Mentre le differenze di reddito, di prospettive e di mentalità aumentavano sempre più, cresceva allo stesso tempo anche la distanza fisica. Se mezzo secolo fa i cittadini abbienti e quelli meno privilegiati condividevano spesso gli stessi quartieri e a scuola i loro figli erano compagni di banco, l’esplosione dei prezzi degli immobili e l’aumento degli affitti ha fatto sì che benestanti e meno abbienti oggi vivano in quartieri distinti. Di conseguenza sono diminuiti i contatti, le amicizie, le convivenze o i matrimoni che vadano oltre il proprio ambiente sociale.
Via le spaccature, via le paure
Ora che la vita è diventata molto più incerta e il futuro più imprevedibile, i confronti politici mettono in gioco una quantità molto maggiore di paure. E che la paura sia in grado di irrigidire il clima delle discussioni ce l’ha dimostrato lo scontro sulla politica da adottare per contrastare la pandemia. La cui particolare aggressività era naturalmente legata al fatto che il coronavirus è una malattia che può portare alla morte molti anziani e, in determinati casi, anche soggetti più giovani. Al contrario, i lunghi lockdown hanno fatto sì che molti temessero per la propria sopravvivenza sociale, per il proprio posto di lavoro o per il futuro dell’impresa che gestiscono da una vita. Chi ha paura diventa intollerante. Chi si sente minacciato non vuole discutere, vuole solo resistere. È comprensibile. La situazione diventa tanto più pericolosa quando i politici scoprono che si può fare politica alimentando proprio tali paure. E a fare questa riflessione non è stata certo solo la destra.
Una politica responsabile dovrebbe fare l’esatto contrario. Dovrebbe preoccuparsi di eliminare le divisioni e la paura del futuro e di garantire più sicurezza e protezione. Dovrebbe introdurre cambiamenti che arrestino la diminuzione della coesione sociale e che ostacolino l’incombente declino economico. Un ordinamento economico in cui la maggioranza dei cittadini pensa che il futuro sarà peggiore del presente non è un ordinamento in grado di garantirlo, il futuro. Una democrazia in cui una notevole quota della popolazione non ha voce né rappresentanza non può chiamarsi tale.
Possiamo produrre in maniera diversa, in maniera più innovativa, più legata al territorio e in modo più sostenibile per l’ambiente, e possiamo distribuire quanto prodotto in maniera migliore e più meritocratica. Possiamo rendere democratica la nostra collettività, invece di lasciare che qualche gruppo di interesse per cui conta solo il proprio profitto decida della nostra vita e del nostro sviluppo economico. Possiamo tornare a una convivenza positiva e solidale, che in definitiva giovi a tutti: a quelli che negli ultimi anni hanno perso e che oggi hanno paura del futuro, ma anche a quelli che se la passano bene, ma che non vogliono vivere in un paese spaccato che rischia di finire come gli Stati Uniti di oggi.
[Sahra Wagenknecht, Contro la sinistra neoliberale, Fazi editore, 2022]