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Che l’Europa sia essenzialmente una «comunità di diritto», ebbe a spiegarlo già il primo presidente della Commissione. Sin dall’esordio del processo integrativo si è fatto affidamento decisivo sul diritto e sulle sue risorse. Al diritto si è chiesto di trascendere definitivamente lo stato di natura nel quale erano precipitate le relazioni tra gli Stati europei, superando il loro passato bellicoso con un ordine di pace basato sull’addomesticamento dell’egoismo economico dei paesi fondatori della nuova Comunità.
L’integrazione attraverso il diritto
La celebre formula della «integrazione attraverso il diritto» si è imposta nei primi anni Ottanta come motto di successo grazie all’opera seminale di giuristi tra i più influenti nella scena europea. In effetti, nessun altro tentativo di razionalizzazione ha saputo restituire più compiutamente di quello espresso con tale formula lo specifico equilibrio tra diritto e politica sul quale si è costruito il processo d’integrazione europea nella sua fase formativa.
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L’Unione monetaria e il vuoto di solidarietà
L’Unione monetaria, come concepita dal Trattato di Maastricht del 1992, era evidentemente un progetto politico, ma un progetto nuovamente affidato ai codici normativi della integrazione attraverso il diritto. La moneta unica non doveva essere infatti affidata ad un’Unione politica, ma doveva essere vincolata da un rigido sistema di norme giuridiche sovranazionali, preordinate a compensare il vuoto di solidarietà politica tra gli Stati membri. La politica monetaria veniva in tal modo federalizzata e al contempo depoliticizzata.
Questa costruzione svela tuttavia sin dall’origine una differenza decisiva rispetto al classico paradigma della integrazione attraverso il diritto. La differenza essenziale rispetto alla funzione assegnata da Weiler al diritto nel processo di integrazione comunitaria sta nel fatto che in quella concettualizzazione sopranazionalità normativa e politica intergovernativa debbono mantenersi in equilibrio. Il carattere duale del sistema comunitario implica, in quel modello, un necessario equilibrio dinamico tra diritto e politica nella costruzione europea. Il diritto sovranazionale non avrebbe dovuto e potuto sostituirsi interamente al processo politico di integrazione, l’equilibrio complessivo del sistema comunitario dipendendo, in questo schema concettuale, dai meccanismi di adattamento e di bilanciamento reciproco tra le due componenti.
Le radici ordoliberali
L’unione monetaria concepita dal Trattato di Maastricht rompe irreversibilmente questo equilibrio. E alla base della funzione dominante assegnata al diritto nella realizzazione di questo progetto politico si rintracciano piuttosto i retaggi di un’altra concezione del sistema normativo comunitario, molto più esigenze e prescrittiva circa la funzione costituzionale del diritto dell’economia. Non si fatica a scorgere i segni teorico-politici dell’ordoliberalismo tedesco: è questa concezione ad esigere una politica economica e monetaria «vincolata da regole costituzionali, basate come tali su criteri giustiziabili», l’unica a poter essere affidata alla responsabilità delle istituzioni sovranazionali.
La costituzione giuridica della politica monetaria ha in realtà inteso uniformarsi a queste prescrizioni, dando alla UEM una configurazione che avrebbe dovuto immunizzarla una volta per tutte da possibili derive keynesiane nella gestione macroeconomica. Politiche macroeconomiche di questo tipo avrebbero infatti dovuto necessariamente dare la priorità alla predeterminazione politica degli obiettivi, oltre che degli strumenti di azione, alla stregua di una valutazione discrezionale e contingente della situazione economica evidentemente incompatibile con l’idea che l’Unione avrebbe dovuto agire sulla base di criteri normativi certi e predeterminati, se del caso giudizialmente sindacabili.
Una vittoria di Pirro
Come risulta sin troppo evidente, questa strategia è risultata fallimentare. I difetti di progettazione istituzionale dell’Unione monetaria, nella forma perfezionata dal Patto di stabilità del 1997, erano peraltro già noti all’origine, e hanno del resto cominciato a manifestarsi ben prima della crisi finanziaria che ha contagiato i debiti sovrani degli Stati della «periferia» europea.
Il fatto che proprio la Germania e la Francia non si siano per prime attenute alle regole del Patto di stabilità e crescita (nella sua originaria versione), e che poi la relativa procedura d’infrazione per deficit eccessivo iniziata dalla Commissione sia caduta nel nulla, ha tuttavia portato gli apologeti tedeschi dell’euro ad auto-incolparsi in un autodafé postumo, strumentale alla richiesta di perfezionare l’ordine giuridico violato, rafforzandone gli automatismi e l’efficacia sanzionatoria.
Oggi possiamo affermare con più convinzione di ieri che si è trattato, ancora una volta, di richieste evidentemente mal concepite e, soprattutto, mal indirizzate. «Il limite del 3% è, nel migliore dei casi, sciocco e, nel peggiore, perverso», ebbe a scrivere Barry Eichengreen – uno degli osservatori più autorevoli della politica monetaria europea – in un articolo apparso su Die Zeit del 20 novembre 2003. L’economista americano sapeva perfettamente che la Germania non poteva permettersi il Patto di stabilità nella sua posizione di allora, e che dunque nemmeno vi si sarebbe adeguata. Il che dimostra che col Trattato di Maastricht il progetto dell’integrazione attraverso il diritto, esteso alla costituzione monetaria, aveva ottenuto una vittoria di Pirro. Un decennio più tardi avrebbe trovato la sua Canne.
[estratto da una saggio in Merkur – Zeitschrift für europäisches Denken, 2012, pp. 1013 ss., tradotto in italiano da Elena Guella e consultabile a questa pagina.]