IDEATO E DIRETTO
DA ANTONIO CANTARO
E FEDERICO LOSURDO

IDEATO E DIRETTO DA ANTONIO CANTARO E FEDERICO LOSURDO

Essere uomini, essere in-relazione

Il Tu è più difficile da pensare che l’Io, quasi che l’io per essere vero debba prescindere dall’altro. Ideologia. Il primo atto comunicativo non è lo scambio economico, ma il pianto. Il rapporto sociale primario è il bisogno inerme e il dono gratuito.

Cosa ci dà certezza del nostro esistere? Per quale ragione, sebbene le profondità della nostra esistenza siano insondabili e resti sempre aperta la domanda circa il suo senso, nessuno di noi nutre alcun dubbio sulla realtà del proprio essere al mondo, pur non sapendo chiarire definitivamente né che cosa significa esistere, né che cosa è il mondo?

Solipsismi filosofici. La rimozione del Tu

La risposta classica, a tutti nota, è quella di Cartesio: in quanto soggetto pensante e cosciente del mio pensiero, non posso dubitare che il mio pensare implichi immediatamente l’essere[1]. Meno classica, ma ugualmente importante e forse nel complesso più credibile, è la risposta di Schopenhauer: prima ancora del pensiero, è la corporeità, con le sue emozioni e i suoi appetiti, a dirmi indubitabilmente che esisto[2]. Entrambe le posizioni sono tendenzialmente solipsistiche. Che io penso implica che io esisto, ma non implica la reale esistenza di altri, che a me si danno solo come possibili oggetti del mio pensiero che potrebbero non avere autonoma realtà: tanto che alla fine solo la dimostrazione della necessaria esistenza di Dio ha come conseguenza la reale esistenza del mondo e di ciò che ne fa parte, e quindi degli altri esseri umani[3]. In Schopenhauer il solipsismo è addirittura presentato come verità metafisica suprema: la pluralità degli esseri fenomenici è illusoria, c’è un unico soggetto che è oggetto a sé stesso, la mia stessa egoità empirica ricade nell’illusione, ciò che chiamo “io” è solo il riflesso nel fenomeno dell’unico essere e il più alto valore morale è la compassione non in quanto riconoscimento dell’alterità, ma in quanto consapevolezza che né l’Io né il Tu hanno realtà sostanziale e non c’è dunque dolore che non sia dolore di tutti perché dolore del Tutto[4].

Molto, moltissimo altro si potrebbe aggiungere; in realtà per la filosofia pensare il Tu è sempre stato assai più difficile che pensare l’Io, e l’autenticità dell’Io sembra dover presupporre che esso, per essere “vero”, debba prescindere dall’altro-da-sé, che lo contamina coinvolgendolo in una pluralità opaca al pensiero.

Le parole non nascono in me stesso, ma dal linguaggio

Non intendo qui proseguire oltre nelle astrazioni metafisiche. Sposto decisamente la questione sul versante del vissuto empirico, che la filosofia in generale disprezza così tanto, ma senza il quale, assai evidentemente, essa stessa non potrebbe esistere. Dunque, certo, il fatto che io pensi, e sia cosciente di pensare, porta già con sé il fatto che sono. Ma in che modo mi si dà il mio pensiero autocosciente? Mi si dà come linguaggio, come una sorta di monologo interiore. “Io penso” significa che parlo a me stesso dentro di me. Forse è sbagliato dire che parlo a me stesso, giacché non mi rispondo, non mi sono interlocutore. Diciamo, meglio, che “io penso” significa che produco un flusso di discorso silenzioso, o, ancora meglio, che in me si produce un flusso di discorso, dal momento che di questo discorso non sono propriamente autore, o autore unico. Solo in parte produco e dirigo questo flusso volontariamente, di sicuro non posso fermarlo. Almeno in parte, questo flusso sorge da sé e va per conto suo. “Io penso” è un modo abbreviato, se non erroneo, di dire “in me si pensa, e ogni tanto in questo si pensa riesco a introdurre, per breve tempo, delle direzioni e degli argini, senza poter fermare il flusso né dargli un indirizzo definitivo”.

Tanto in questo c’è di oscuro, e nulla è più insondabile e incomprensibile del fatto che di questo “si pensa” io so, che penso al “si pensa”, che penso il pensare, e così penso, e so, appunto, l’essere. Il mistero dell’autocoscienza è, e resta, il mistero dei misteri[5]. Ma in questo mistero c’è una chiara evidenza, e cioè che il mio pensare di pensare è fatto di parole, e le parole non nascono in me stesso, vengono da fuori. Appartengono a un linguaggio, ed è il linguaggio, non io, che dà alle parole i loro suoni, il loro ordine grammaticale e sintattico, il loro senso. E tutto ciò è in me in quanto l’ho appreso. Non l’ho prodotto da me, non ne sono il creatore. Senza altri che ho ascoltato, io non parlerei e perciò non penserei neppure. Sentirei, percepirei, avrei in qualche modo il senso di esistere, ma non potendo dire non potrei neanche pensare, e perciò neanche pensare di pensare, sapere di pensare e sapere, pensando, di essere. E se forse saprei di essere, non saprei comunque dire, e dirmi, il mio essere.

Non potrei dare ragione a Cartesio, non potrei cioè usare il linguaggio per dargli ragione, se Cartesio non avesse torto. E dunque, Cartesio ha torto. Il fatto stesso che io penso, e pensando uso un linguaggio, dimostra non che io esisto, ma che noi esistiamo.

Il linguaggio è il Tutto in cui sono e siamo.

 Chi mi dà un linguaggio mi dà anche un nome, un’appartenenza e un’identità. E lo fa, generalmente, perché mi ha dato la vita. L’origine immediata della mia vita è molto concreta, molto corporea, molto biochimica. Non un supremo atto creativo dell’Essere, ma l’unione sessuale di due corpi e un corpo materno dentro cui a poco a poco è maturato il mio come una sorta di parassita simbiotico. Poi una separazione dolorosa, atrocemente traumatica per entrambe le parti: un corpo emerge dall’altro, si strappa dall’altro. Ma la separazione non è totale, perché uno dei due corpi continua ad avere bisogno dell’altro, dall’altro ricava nutrimento, cura, protezione. Nessuno viene al mondo come soggetto razionale capace di libera autodeterminazione e responsabile di sé, ma come esserino inerme urlante e scalciante, capace a stento di respirare e bisognoso di tutto. Ma la cosa straordinaria è che il bisogno ottiene risposta, che qualcuno, in cambio di niente, è disposto a dare all’esserino urlante tutto ciò che gli consente di sopravvivere, di nutrirsi, di stare al caldo, di crescere, di imparare a parlare e a pensare, fino al punto di poter leggere Cartesio e concluderne che sì, lui, l’ex esserino urlante, è in quanto pensa. Ma per pensare ha avuto bisogno di un padre e, soprattutto, di una madre, e molto probabilmente di nonni, nonne e babysitter, e di un intero sistema scolastico, e di un intero sistema sanitario, di professori che gli hanno insegnato Cartesio, di editori che lo hanno stampato, di un libraio che gli ha venduto il Discorso sul metodo e di uno Stato che gli ha fornito il denaro per comprarlo, nonché di un intero mondo che ha reso possibile che tutti gli anelli di questa catena pressocché infinita fossero al posto giusto nel momento giusto. E se anche uno solo di questi anelli fosse illusorio e irreale il Cogito non potrebbe esserci, e dunque il pensiero non dimostra immediatamente l’essere, ma dimostra, appunto, un’infinita catena di mediazioni e condizioni. Io penso, dunque tutti siamo. Io penso, dunque non solo io sono, ma è il Tutto in cui sono e siamo.

L’ideologia del libero individuo

 Se ci riflettiamo, è un’ovvietà: nulla che non possa essere capito anche da un bambino. Eppure, affermare quello che ho appena affermato è oggi quasi proibito. Proviamo a esprimerlo in un linguaggio esplicitamente sociopolitico: ognuno di noi, per esistere, ha bisogno di un’intera società e di un’intera cultura. L’individualità isolata non esiste, non avrebbe un terreno vitale. Bene, questo pensiero contraddice il dogma di fondo della nostra società. Secondo questo dogma, siamo soggetti razionali isolati che interagiscono sul mercato comportandosi con sano ed equilibrato egoismo allo scopo di perseguire il massimo utile personale possibile. Siamo inoltre portatori di libere scelte, libere opinioni e libere credenze, ognuna delle quali equivale perfettamente a tutte le altre e si esprime sulla scena politica in un voto elettorale, e poco altro. Sostenere che abbiamo obblighi, responsabilità e doveri per il fatto stesso di esistere, giacche esistiamo con altri e grazie ad altri, è un pensiero illiberale: abbiamo soltanto gli obblighi che volontariamente ci assumiamo per contratto in vista di una qualche convenienza razionale. Sostenere poi che la politica è il tentativo di collaborare nella produzione del bene comune in un’ottica di promozione umana, giacché esistono valori umani e diritti umani non disponibili (e quindi non tutte le opinioni in proposito si equivalgono), appare un pensiero astrattamente metafisico che se messo in pratica si tradurrebbe in comportamenti autoritari. La politica non è che la produzione su basi rappresentative di un apparato di tutela e garanzia degli interessi individuali: lì si deve fermare, se ci si spinge appena un po’ oltre lo si fa a discapito della libertà. Siamo talmente abituati a quest’ideologia che non la percepiamo più come tale, la scambiamo per una solida realtà, tanto più solida in quanto si traduce facilmente nei dati numerici della crescita o decrescita del PIL e nei sondaggi elettorali. Eppure è una costruzione mitologica il cui punto centrale, il libero individuo che agisce secondo scelte razionali miranti al suo vantaggio, non ha più realtà di quanta ne abbiano i centauri o gli ircocervi.

Il rapporto sociale primario. Il bisogno inerme, il dono gratuito

 Ritorniamo a quel che dicevamo prima. Veniamo al mondo come esseri totalmente bisognosi, incapaci di fare alcunché per il nostro vantaggio. Il primo atto comunicativo di un bambino appena nato è un’espressione di dolore e una richiesta di aiuto. Nella nostra stessa struttura biologica è inscritta la capacità di chiedere aiuto, ben più originaria di quella di esprimere un pensiero cosciente e di autodeterminarsi razionalmente. Assai più sostanziale del pensiero è il bisogno, dunque la sofferenza: Schopenhauer vede molto meglio di Cartesio. Il bambino appena nato non è in quanto pensa ma in quanto urla, quell’urlo esprime immediatamente il suo essere. Ma Schopenhauer non vede che quell’urlo è dialogico: cerca un interlocutore, si aspetta un aiuto, ne presuppone la possibilità, sa, certo non razionalmente, che esiste un Tu. L’incompiutezza dolorosa trova fuori di sé un completamento: un corpo morbido che abbraccia, protegge, nutre, rassicura, consola. Il dolore è sostanziale, ma non più di quella calda e compiuta felicità che esso chiama a sé e nella maggior parte dei casi davvero ottiene, e del resto nei casi sfortunati in cui non la ottiene è molto difficile che ci sia sopravvivenza. Si tratta di un rapporto i cui termini sono entrambi profondamente radicati nel nostro essere più intimo e originario: da una parte il bisogno inerme, dall’altra il dono gratuito. È questo il rapporto sociale primario, non il contratto di scambio stipulato nel reciproco interesse. L’individuo autosufficiente non esiste, l’atomo (questo sarebbe l’individuo, detto in greco) dell’umano è duale: un Io e un Tu che si danno simultaneamente nel loro incontro e non potrebbero mai avere (almeno non a lungo) esistenza separata. Un Io e un Tu, peraltro, non isolati in una loro nicchia chiusa, ma continuamente aperti a una serie molteplice e indeterminata di incontri e mediazioni, senza la quale non potrebbero neppure incontrarsi tra loro.

Si nasce accolti da qualcuno. Ma accolti da qualcuno in un contesto. Nascendo, si riceve a poco a poco un linguaggio: è quasi altrettanto essenziale che il ricevere cibo. Ma il linguaggio c’è già, è già formato, preesiste all’incontro dell’Io e del Tu ed è una delle condizioni di quest’incontro. Assai opportunamente si parla di “lingua materna”, o meglio ancora di “lingua madre”. Non soltanto perché si impara a parlare (soprattutto) dalla propria madre, ma perché la lingua stessa è madre, dà vita, non in senso biologico ma in senso umano. E come la vita in senso biologico presuppone un immenso flusso antecedente (chi dà vita a propria volta l’ha ricevuta da una vita precedente che da una ancora precedente l’aveva ricevuta, e così via e così via, fino alle origini del mondo), anche la vita in senso umano, la vita cioè capace di pensiero in quanto capace di linguaggio, è donata da qualcuno che a propria volta ha ricevuto questo dono da un altro che lo aveva ricevuto prima, e così via e così via, fino alle origini di un popolo ed anzi ancora più in là, fino all’origine dei primi esseri capaci di linguaggio. L’incontro dell’Io e del Tu è anche l’incontro dell’attimo con i millenni, è parte di una serie di interlocuzioni che si estende fino ai tempi più remoti ed è frutto di (letteralmente) miliardi di vite precedenti. La mia mamma risponde al mio pianto: dunque esisto. La mia mamma risponde al mio pianto usando un linguaggio umano: dunque siamo umani e l’umanità esiste. Tutto il resto viene dopo ed è conseguenza.

A farmi consapevole del mio esistere, dunque, non è il mio pensare, il mio essere soggetto pensante. È il fatto che qualcuno mi risponde, ed anzi che attraverso questo qualcuno mi rispondono moltitudini indeterminate. È da queste moltitudini sparse in un tempo di millenni che ricevo la capacità di chiamare la mamma, di avere un nome che mi identifichi e di poter dire che esisto e chi precisamente sono. Un condensato di umanità, individuato in un luogo e in un tempo. Non sono un inizio, un punto di partenza, considerarmi tale significa svuotarmi di umanità, trasformarmi in una marionetta. “Io” non è che un modo abbreviato, affrettato, semplificato di dire “noi”. Senza questo “noi”, io non ci sono. E questo “noi” è indeterminato, anche se non proprio infinito. È un noi sincronico: il mio esistere adesso non sarebbe possibile senza la contemporanea esistenza di molti, moltissimi altri. Alcuni li conosco: i miei familiari, i miei amici, i miei colleghi di lavoro, i miei vicini di casa. Interloquisco con loro, se non altro per un saluto, praticamente tutti i giorni. Altri li incontro occasionalmente: la cassiera del supermercato, il passante che mi chiede un’informazione, il cliente che vedo oggi e probabilmente non vedrò mai più, lo sconosciuto che incontro per strada, di cui non so nulla e nulla mi importa, ma della cui esistenza prendo atto e tengo conto, se non altro perché cerco di non urtarlo e se lo faccio gli chiedo scusa (e non mi viene neppure in mente che potrebbe essere un’apparenza illusoria a cui non devo preoccuparmi di pestare i piedi perché tanto non c’è davvero). Ma c’è anche il contadino che ha coltivato la mela che mangio a pranzo, chi da lui l’ha comprata per venderla ad altri, e poi ancora ad altri e infine a me, chi l’ha confezionata, chi l’ha trasportata, chi l’ha disposta sugli scaffali, e il denaro con cui la pago è stato prodotto da qualcuno in un’apposita pubblica istituzione sulla base di disposizioni governative, e il prezzo che pago è stato determinato sulla base di innumerevoli transazioni economiche, e insomma se quella mela è arrivata sulla mia tavola lo devo probabilmente in qualche modo a, forse, centomila persone (approssimazione per difetto), anche se probabilmente ne ho visto solo una, la cassiera del supermercato che, quando le ho pagato la mela, non mi ha neanche guardato in faccia. Insomma, almeno centomila persone mi danno da mangiare tutti i giorni, e io ricambio: quel poco denaro che tutti i giorni metto in circolo, quella poca utilità che viene prodotta dal mio lavoro e dalle mie tasse, senza dubbio dà da mangiare a qualcuno senza che costui abbia nessun bisogno di sapere che esisto. Insomma, dietro ogni respiro c’è la vita di moltissimi altri che rendono possibile quel respiro, senza neanche saperlo, eppure ci sono, e quel respiro ne è la prova.

Ma il “noi” è anche diacronico, prolungato nel tempo in entrambe le direzioni, verso il passato e verso il futuro. Esisto grazie ai miei genitori, che esistono grazie ai loro genitori, che esistono grazie ai loro… Difficilmente so andare oltre tre o quattro generazioni, ma altrettanto indispensabili sono state tutte le precedenti di cui nulla so, e non potrei essere qui ora se qualcosa di me non ci fosse già stato ai tempi di Dante, e ai tempi di Carlo Magno, e di Giulio Cesare, e se un qualche uomo di Cro-Magnon non fosse venuto dall’Africa a dare origine alla mia vita senza averne nessuna intenzione e nemmeno il più pallido sospetto. Ma non si tratta solo della catena di vite che hanno prodotto la mia: si tratta altrettanto delle innumerevoli catene di esistenze che hanno prodotto le parole con cui mi esprimo, gli strumenti che adopero, i valori in cui credo, le regole che mi orientano nel mondo, le speranze terrene ed eventualmente ultraterrene che mi fanno sentire più o meno sensata la mia esistenza. Se a darmi da mangiare tutti i giorni sono almeno centomila persone, a farmi esistere fisicamente e a rendermi capace di orientarmi nel mondo, qui ed ora, sono state non meno di diversi miliardi di esistenze. Ma la mia stessa esistenza si estende fino ad esistenze future: non solo quelle di eventuali figli o nipoti, e figli di figli e nipoti di nipoti, ma tutte quelle a cui, anche solo indirettamente e senza averne intenzione, avrò trasmesso qualcosa: un oggetto, un ricordo, qualcosa che ho detto o scritto, qualsiasi cosa che ho fatto o non fatto e, fatto o non fatto, ha apportato un cambiamento in esistenze future, forse nel bene e forse nel male. “Io sono” è la proposizione più complessa e più lunga che esista; contiene millenni, contiene popoli interi, contiene migliaia di sorrisi e migliaia di lacrime.

Il primo atto comunicativo non è lo scambio economico, ma il pianto

 Di tutto questo, tendiamo a riconoscere come reale soltanto la superficie, anzi una piccola parte della superficie: la catena degli scambi. Produco qualcosa per qualcuno. Vendo o compro qualcosa a qualcuno o da qualcuno. Do denaro, ricevo denaro. Fabbrico utilità, ne ricavo utilità. Lo faccio perché a conti fatti mi conviene, e cerco di fare il possibile perché mi convenga sempre di più. Se sono abbastanza bravo, riuscirò ad avere di più di quello che do, e così avrò più risorse che potrò investire in scambi futuri, mirando a un vantaggio sempre più grande, da bravo attore razionale qual sono. Non è razionale dare senza ricevere, e neppure ricevere senza dare. Chi dovesse trovarsi troppo a lungo in una di queste due condizioni verrebbe espulso dal sistema; sarebbe un folle dissipatore nel primo caso, un inutile parassita nel secondo. Il bisogno inerme che chiede aiuto non è contemplato, è irrazionale: eppure tutti indistintamente abbiamo cominciato così, il primo atto comunicativo di un essere umano è il pianto, e un pianto che sa di potere e dovere essere consolato, e se lo aspetta, sa che c’è qualcuno che ascolta. E l’atto che dona, che dona anzitutto la stessa vita, e neppure si sogna di ricevere qualcosa in cambio, è forse l’atto più spontaneo e naturale che esista, l’atto con cui tutte le madri del mondo nutrono i loro bambini. Ma l’economia è fatta di individui razionali che agiscono per la massimizzazione del loro utile, non è vero? È questa la realtà, lo insegnano da secoli (non moltissimi, in realtà, anzi davvero pochini, comunque secoli) economisti, sociologi e politologi. Individui razionali che evidentemente nascono già belli e compiuti, armati di solidi interessi, come Minerva dal cervello di Giove (o forse nascono sotto i cavoli o li porta la cicogna, non possono aver avuto una madre, evidentemente: che interesse avrebbe avuto a partorirli?)[6]. E stanno lì, e scambiano, scambiano, scambiano. E qualche volta votano, per essere rappresentati da altri individui che condividono i loro interessi e garantiscono che essi siano tutelati nelle sedi pubbliche mediante un sistema di regole. Regole che non debbono avere altro fine che di garantire la libertà e l’equità degli scambi secondo una linea costante di sviluppo ascendente per la quale non sono previsti limiti, ed ogni tentativo di introdurre limiti sarebbe oppressivo. Che tutto ciò non abbia nulla a che fare con la vita umana e che anzi su tali basi la vita umana proprio non sarebbe possibile dovrebbe essere evidente a tutti, ma dobbiamo fare sforzi enormi per percepirlo e per dirlo, e se lo diciamo nel migliore dei casi ci sentiamo rispondere che siamo degli utopisti, o dei “comunitaristi” autoritari[7].

Fino a un passato abbastanza recente (ma ce ne siamo dimenticati con stupefacente rapidità, sembra ormai qualcosa di vago e indistinguibile, perduto nelle nebbie) la realtà autentica e strutturale della vita sociale a molti sembrava tutt’altra, e in certi paesi si trattava proprio di una verità ufficiale e obbligatoria, a cui era molto pericoloso non credere. La società non è fatta di scambi finalizzati a un ragionevole profitto, ma di rapporti di dominazione e sfruttamento tra proprietari e non proprietari. Da ciò derivano inevitabili contraddizioni e conflitti tali da generare una serie storica di sistemi di produzione legati da una logica di progresso ascendente, fino al superamento finale della contraddizione sociale di fondo e all’instaurazione di una società armonica basata sull’abolizione di ogni rapporto di potere e sulla gestione collettiva della produzione[8]. Non era – oggi lo possiamo probabilmente capire assai meglio che ieri – un modello più concreto e realistico. Lo poteva sembrare: “dominazione”, “sfruttamento” hanno un suono più concreto di espressioni come “scelta razionale” o “libertà dell’individuo” (che effettivamente sono espressioni impalpabili ed eteree relative ad entità insussistenti). Ma la base era sempre quella: produrre e scambiare, perché la vita umana è essenzialmente economia. Una visione ottocentesca, miscuglio di positivismo, evoluzionismo ed hegelismo (forse hegelismo malinteso, se ne potrebbe discutere) che tutte le volte che è stata messa in atto in sistemi sociopolitici reali ha prodotto regimi polizieschi tra i peggiori della storia. Forse alla fine farebbe meno danno lo sfarfalleggiare dei liberi individui, se davvero potesse esistere.

 Chi è solo ha paura, chi è solo fa paura.

Dobbiamo affrettarci a capire una cosa fondamentale dell’uomo. Una cosa ovvia, evidente, che abbiamo sotto gli occhi da sempre, ma è scomoda, faticosa, poco maneggevole. Dobbiamo però deciderci a farci i conti, perché il futuro si sta chiudendo e potremmo avere poco tempo. Dobbiamo capire, cioè, che l’uomo è complessità irriducibile in cui non ci sono strutture e sovrastrutture, dimensioni più autentiche e meno autentiche, realtà più reali e apparenze più apparenti. Tutto l’umano è ugualmente umano e nulla dell’umano è meno essenziale all’uomo di quanto lo siano altre dimensioni umane. E nessun progetto di liberazione dell’uomo e promozione umana può basarsi sulla rimozione o repressione o “superamento” di nessuna delle dimensioni costitutive dell’uomo.

L’uomo produce e scambia, certo, è importante. E senza dubbio nel farlo tiene sott’occhio il proprio vantaggio, almeno in generale. Altrettanto vero è che l’uomo costruisce, con grande inventiva, relazioni di potere, a volte accettate come naturali, a volte imposte con brutalità, e ciò senza dubbio incide in profondità sulle varie forme del produrre e dello scambiare. È vero anche che violenza, guerra e distruzione accompagnano tutta la storia dell’uomo, che il conflitto è il motore della politica e le identità politiche sono plasmate da esso. E pure è vero che l’uomo è sessuato e desiderante, governato da pulsioni inconsce che dolorosamente e a volte rovinosamente si scontrano con i limiti posti dalla realtà o dalla società. Come è vero che l’uomo è un essere instabile, non più definito, come lo sono gli animali, da precisi limiti biologici e istintuali, costretto a produrre mediante l’artificio condizioni di esistenza che la natura da sola non gli garantisce. Tutti questi aspetti e molti altri ancora sono stati indagati da illustri tradizioni teoriche, che molto hanno fatto per far avanzare il difficile ma essenziale compito dell’autocomprensione dell’uomo. Ma ciascuna di queste teorie cessa di essere vera nel momento preciso in cui afferma di essere l’unica vera, l’unica che abbia colto dell’uomo la dimensione essenziale, fondamentale, portante, strutturale, mentre tutte le altre sarebbero conseguenze sovrastrutturali o mistificazioni ideologiche o fantasticherie. L’uomo è umano tutto, in ciò che è basso e in ciò che è alto, in ciò che è ammirevole e in ciò che è ignobile, in ciò che è innocuo e in ciò che è distruttivo. Ed eminentemente umana è proprio l’incapacità di definire con precisione ultimativa i confini, i contenuti, le prospettive di ciò che è umano. Per cui non si avrà mai la teoria che risolve ogni ambiguità e definitivamente spiega l’uomo a sé stesso. Ma nonostante ciò esiste un terreno solido e si può cogliere senza ragionevole possibilità di dubbio non la, ma una verità dell’umano, e cioè che nessun essere umano è umano da solo, non c’è uomo che per essere tale non abbia bisogno, e fino a un’estensione amplissima, dell’altrui umanità. Ogni uomo è fatto da altri uomini, nel suo essere biologico come nel suo essere storico, sociopolitico, culturale. Con un po’ d’enfasi, ma non senza verità, si potrebbe dire che ogni uomo esiste in quanto dono di tutta l’umanità, ed è debitore all’umanità di sé stesso.

Da ciò deriva quello che è contemporaneamente il limite naturale di fondo e la regola sociale minima e necessaria dell’esistenza umana: non si può, e non si deve, essere soli. Essere soli è impossibile, essere soli è terribile, essere soli è proibito. Tre aspetti fondamentali dell’essenza relazionale dell’uomo, che adesso è indispensabile cercare di chiarire. Come è indispensabile cercare di comprenderne l’apparente contraddizione. Come può qualcosa di impossibile essere contemporaneamente temuto e proibito? Come si può aver paura di qualcosa che non può accadere, come si può vietare qualcosa che nessuno può fare?

Che l’uomo non possa essere tale da solo è facilmente comprensibile. Ogni uomo viene da altri esseri umani ed è uomo grazie alle molteplici interazioni con loro: in questo senso, una solitudine originaria dell’uomo, il suo nascere e il suo formarsi senza un tessuto relazionale, è radicalmente impossibile, e sotto questo profilo non esisterebbe il problema. Però è possibile una solitudine derivata. Per ragioni interiori o esterne, il tessuto comunicativo può essere lacerato e un essere umano può trovarsi ad essere incapace di tenersi in relazione, oppure espulso dalla relazione. Può trattarsi di follia, di un vero o presunto crimine, di una grave deviazione dalla normalità sociale, di un fenomeno persecutorio: per propria disgrazia o colpa o per ostile volontà di altri, un essere umano può trovarsi cacciato ai margini, privo dell’impalpabile ma fitta rete di protezione in cui tutti viviamo. Non sarà una solitudine assoluta, ma è una modalità negativa della relazione. La richiesta di aiuto non viene percepita, non viene compresa o viene respinta. È come se un neonato piangesse senza che nessuno mai venga a consolarlo. Forse l’esperienza umana più terribile. Un neonato non sopravvivrebbe, un adulto può sopravvivere fisicamente anche a lungo, ma qualcosa in lui si spegne in una sorta di morte sociale. La temiamo persino più della morte fisica, è la minaccia che sempre ci sentiamo gravare addosso nella nostra vita di relazione. Sotto questo profilo, la solitudine è impossibile in un altro senso ben peggiore: non nel senso che non può esistere (e quindi non sarebbe da temere), ma nel senso che in condizione di isolamento non possiamo esistere noi, e quindi l’isolamento ci spegne, ci chiude in un dolore senza risposta, in un’esistenza quasi spettrale. L’esistenza del povero non considerato e non soccorso, dell’anziano senza affetti, del malato non curabile o non curato, del deviante espulso dall’interazione sociale, del migrante oggetto di “respingimento”. Che si tratti in questo secondo caso di un’impossibilità reale, cioè di un nostro divenire “impossibili” per gli altri che davvero può capitarci e davvero capita a molti è a questo punto facilmente comprensibile, e altrettanto facilmente si comprende quanto tale solitudine “impossibile” meriti di essere temuta. C’è però un profilo di questa temibilità che va approfondito, perché essa non è a senso unico, non riguarda soltanto il singolo che rischia di venire isolato, ma l’intero tessuto sociale che in conseguenza di quest’isolamento subisce una lacerazione, forse piccola, ma non impercettibile né innocua. Escludendo qualcuno, o rifiutando di accogliere qualcuno, la società si dà un limite, cioè riconosce una debolezza. Non siamo capaci di soccorrere, non siamo capaci di comprendere, non siamo capaci di educare o convertire, non siamo capaci di integrare, colui che abbandoniamo o espelliamo. Potremo dirci che va bene così ed è tutta colpa sua, potremo dirci che si tratta di un atto di legittima difesa o di giustizia, ma stiamo toccando con mano una nostra incapacità, o una nostra distruttività. In quella condizione potrà trovarsi in futuro ciascuno di noi, dunque nessuno di noi è veramente garantito. Se una qualsiasi categoria di individui non è accoglibile o può essere espulsa, questo implica comunque una lesione della capacità sociale di garantire e rassicurare, e a quel punto anche chi è lontanissimo dall’appartenere alle categorie discriminate sa di non essere più sicuro di nulla. Se c’è anche una sola categoria sociale soggetta ad emarginazione ed espulsione, ogni categoria sociale potenzialmente lo è, anche le più privilegiate. Nell’individuo o nel gruppo sottoposto a una procedura sociale di emarginazione, espulsione o persecuzione vediamo un’immagine di quel che potrebbe succedere in un altro momento a ciascuno di noi. In più, colui che decretiamo essere troppo diverso da noi per stare ancora tra noi si trasforma immediatamente in un’alternativa a noi stessi. Se lui non è come noi, allora non è ovvio essere come noi, non è garantito, non è automatico, non è naturale, non è indiscutibile. Se ci sono eretici, che ne è dell’ortodossia? Non sarà semplicemente un’eresia più numerosa? Se ci sono tanti modi di essere anormali, che fine fa la norma? A quel punto, per continuare ad essere ciò che siamo, siamo costretti a sceglierci: viene meno l’automatismo dell’ovvietà. Se ci sono opinioni divergenti da quella obbligatoria, allora anche quella obbligatoria è solo un’opinione, fondata sull’obbligo e non sulla verità, e percepisco allora, con dolorosa sorpresa, che il deviante è più libero di me. Se ci sono comportamenti sessuali “innaturali”, come posso dar per certo che la mia sessualità è quella “naturale”? Potrebbe darsi che sia solo repressa e frustrata. Se qualcuno dà torto a me e a quelli come me, per continuare a darmi e a darci ragione sono costretto a pensare che potrei, potremmo avere torto. E dunque potrei, potremmo essere nell’ingiustizia, potrei, potremmo porre in atto un’oppressione. Quindi, anche la temibilità della solitudine ha un duplice volto: chi è solo ha paura, ma è altrettanto vero che chi è solo fa paura.

La proibizione della solitudine. Matrimonio, religione, scambio simbolico

Per questo la società, o la cultura, due modi di dire la stessa cosa con diverse accentuazioni, è nel suo insieme un potentissimo (ma non onnipotente) apparato di prevenzione della solitudine. Detto in altri termini, la proibisce. A tale scopo sono stati elaborati stupefacenti apparati istituzionali risalenti alle epoche più remote e tuttora funzionanti. Ne vedrei tre, senza pretendere che l’elenco sia completo, mi basta che sia sufficientemente esemplificativo. Tre, s’intende, oltre al linguaggio, che è il più potente di tutti e di tutti gli altri sta alla base, ma di questo abbiamo già parlato. Direi che si tratta del matrimonio, della religione e dello scambio simbolico, di cui lo scambio economico è soltanto un caso particolare.

Il matrimonio. Quali che ne siano le forme, che qui non contano, si tratta del consenso sociale alla riproduzione sessuale. Non posso avere una donna (adotto per mia comodità il punto di vista maschile, ma non è affatto detto che la donna sia un oggetto passivo, non diamo per scontato che la donna sia sempre e dovunque oppressa e sempre e dovunque impotente), e quindi non posso avere figli, se qualcuno estraneo alla mia immediata cerchia familiare non me la concede in forma solenne, pubblica e socialmente riconosciuta. Il futuro della mia famiglia, la possibilità che essa si estenda a future generazioni, dipende dal consenso diretto di un’altra famiglia e dal consenso indiretto di tutte le altre. Se io potessi riprodurmi all’interno della mia cerchia familiare immediata, cioè per via incestuosa, la mia famiglia potrebbe teoricamente non stare insieme alle altre. Ma in tal caso si sarebbe circondati soltanto da estranei, potenzialmente minacciosi, e, non avendo bisogno degli altri, si sarebbe per gli altri una potenziale minaccia[9]. È questa la ragione, come credo che Lévi-Strauss abbia definitivamente dimostrato, per cui il divieto dell’incesto è una regola sociale universale, presente, sia pure in forme e con limiti diversi, in tutte le società che ci sono note[10].

La religione. Prescindo qui dagli aspetti metafisici, spirituali, teologici e soprannaturali per ragionare in chiave squisitamente sociologica. La religione non è un sistema di credenze individuali, un modo di pensare, una “libera opinione”. La libertà religiosa come libertà di opinione sarebbe null’altro che una libertà di delirio. La religione è un dato storico-sociale perfettamente oggettivo: una collettività che si autolegittima, in un’ottica di lunga durata che può anche essere di millenni, mediante un riferimento a un’origine costantemente riattualizzata che conferisce senso, produce consenso e determina un indirizzo verso il futuro. Potremmo dire: è una comunità di destino. Non ci si può separare da altri e non si possono abbandonare altri finché restano “fratelli”, perché significherebbe separarsi dal senso stesso dell’esistenza, abbandonarsi al gratuito e al casuale, sentirsi esposti senza difesa al male (ed eventualmente al Maligno). S’intende che la dimensione religiosa del sociale non è legata soltanto e necessariamente al culto di divinità o spiriti o comunque a un orientamento al soprannaturale. Se la religione è una forma del sociale, il sociale stesso ha un aspetto “religioso”. Ci sono religioni “laiche”, ci sono religioni “civili”, ci sono religioni “politiche”, e si potrebbe probabilmente dire che ogni attribuzione di valore all’umano in quanto dimensione condivisa con altri implica il riconoscimento di una “fraternità” in senso ampio “religiosa”. Forse anche questo breve scritto è un piccolo trattato di religione, sebbene non abbia nessuna ispirazione confessionale.

Lo scambio simbolico. Quando incontro altri, e voglio che l’incontro sia significativo e produca effetti duraturi, cioè instauri una reciprocità affidabile, debbo dare qualcosa di mio, debbo condividere. Non occorre che siano oggetti dotati di intrinseca preziosità o tali da conferire uno specifico vantaggio, utili a qualcosa di strettamente pratico. Possono benissimo essere oggetti in sé banali, non difficili da ottenere, non utilizzabili in nulla che sia direttamente vantaggioso. Possono essere braccialetti o collane di conchiglie, ad esempio[11]. Quello che conta è che danno concretezza, visibilità e durata a un rapporto. Chi accetta qualcosa di mio accetta un rapporto con me. Per questo è difficile rifiutare: sarebbe un rifiuto di riconoscimento, una chiusura di rapporto, un atto ostile, quindi una minaccia che potrebbe anche incitare a una risposta violenta. Ma chi accetta qualcosa di mio, contrae un debito con me. Proprio perché ha accettato un rapporto, deve dargli durata e riattivarlo periodicamente. La prossima volta toccherà a lui darmi qualcosa. Non necessariamente qualcosa di concreto. Non necessariamente un oggetto. La relazione di scambio può essere molto variata. Oggetti in cambio di oggetti, cibo in cambio di cibo, ma anche sottomissione in cambio di protezione, o alleanza in cambio di alleanza. L’essenziale è essere e restare in relazione. Il che prima di tutto esclude la relazione negativa, la reciprocità violenta. Chi accetta da me un dono, non può essere mio nemico; sarebbe un debitore insolvente, cioè un traditore sleale. Ne deriva dunque un legame positivo. Escludendo l’inimicizia, resta la possibilità di arricchire la relazione. Se ci si fanno doni, si potranno anche contrarre matrimoni, celebrare culti comuni, lavorare insieme, commerciare, essere alleati in guerra. Il punto di coagulo della relazione sociale è l’obbligatorietà del dono. È obbligatorio fare doni, il dono ricevuto obbliga[12]. Sembra una contraddizione legare dono e obbligo, ma la nostra stessa esperienza ci dice che non c’è contraddizione, che funziona così. Saremo pur andati a una festa di compleanno qualche volta: sappiamo che si deve fare un regalo, ed anche che si deve contraccambiare l’invito e ricevere un regalo. È così che “si fa”, non farlo è “maleducazione”, cioè atto antisociale di rottura della reciprocità. Naturalmente può darsi benissimo che il dono sia commestibile o utile a fini pratici e che dagli scambi derivi un reciproco vantaggio. Specialmente in forme “primitive” la differenza tra lo scambio di doni e il commercio è difficile da determinare. Diventa più chiara, questa differenza, quando in cambio dell’oggetto (o del servizio reso) si dà denaro. E qui la simbolicità dello scambio raggiunge un vertice stupefacente. Il denaro non è una “cosa”; non ci si fa assolutamente niente, in maniera diretta. Un pezzetto di metallo, oppure di carta, o addirittura un semplice messaggio telematico, come oggi è già normale e in un prossimo domani sarà probabilmente l’unico modo. Il denaro non è un oggetto: è un condensato di relazionalità sociale, nonché una misura della capacità soggettiva di relazione sociale. Avere denaro significa poter scambiare con un oggetto qualsiasi l’astratta capacità di scambiare. Alla cassiera del supermercato che mi vende la mela do in cambio la possibilità di acquistare (nella misura in cui quello che le do servirà in parte anche a pagarle lo stipendio) un altro oggetto qualsiasi, in cambio della possibilità di acquistare altri oggetti qualsiasi… E la quantità di denaro che ho a disposizione dirà a quale livello sociale mi colloco, se sono un morto di fame, o un esponente della classe media, o un ricco e quindi un leader. Una delle più vertiginose astrazioni elaborate dall’uomo produce risultati estremamente concreti. E determina che il rapporto di dono e controdono diventi universale: siamo tutti universalmente debitori e creditori non gli uni degli altri, ma tutti quanti dell’insieme, tutti quanti della totalità sociale. L’aveva ben visto Hegel quando parlava di necessità assoluta della “dipendenza universale”[13].

Il libero individuo non esiste. Non posso farci niente, non è colpa mia.

 Ma allora, che ne è del libero individuo che agisce razionalmente mediante il calcolo del proprio vantaggio? Mi dispiace: non esiste. Non posso farci niente, non è colpa mia. Significa allora, secondo l’obiezione che viene di solito rivolta ai sostenitori del “comunitarismo” (e tale tutto sommato potrei dichiararmi): se viviamo in un sistema di appartenenze collettive obbligatorie non c’è libertà politica e siamo soffocati dentro una rete di costrizioni senza speranza. No, per fortuna le cose sono più complicate di così. La relazionalità è mobile. Non possiamo non essere in relazione, ma alcune relazioni possiamo sceglierle o non sceglierle e le altre, che non possiamo rifiutare, le possiamo però cambiare, anche se è di solito un processo lento e faticoso, a volte anche drammaticamente. Non possiamo evitare di parlare una lingua, ma possiamo decidere di impararne più di una, moltiplicando e variando le reti di appartenenza. Possiamo pure decidere di adottare come nostra una lingua non nativa, e magari eccellere nel suo uso: uno dei più grandi scrittori inglesi è un polacco, Joseph Conrad, uno dei più grandi scrittori tedeschi è un ebreo sefardita bulgaro, Elias Canetti. Dobbiamo fare delle scelte politiche che non sono illimitate perché dipendono dall’“offerta” politica di volta in volta esistente, ma fa molta differenza se possiamo votare o non possiamo votare, se possiamo scegliere tra più partiti e candidati oppure abbiamo di fronte un partito unico o un candidato unico. Nel primo caso possiamo parlare di libertà, anche se non è la libertà di ciascuno di fare tutto quello che vuole (e meno male!), nel secondo caso sicuramente no, non c’è libertà. E se riusciamo nel difficilissimo esercizio di andare controcorrente senza farci travolgere, possiamo agire, a volte con sorprendente efficacia, per cambiare l’indirizzo comune. Anche la libertà ha un soggetto plurale, non “io”, ma “noi”. Un “noi” per fortuna molto mobile, non condannato alla ripetizione identica di sé.

Del resto, dobbiamo pur fare i conti col fatto che qualsiasi possibile forma di libertà si inscrive nel comune contesto dell’essere uomini. Ed essere uomini, ci piaccia o no, significa essere in relazione.

 

[1] Cfr. R. Descartes (Cartesio), Discorso sul metodo, parte IV, in Opere, a cura di G. Cantelli, trad. di G. Cantelli e M. Renzoni, Mondadori, Milano 1986, p. 168. Cfr. anche Id. Meditazioni metafisiche, II Meditazione, in Opere, cit., pp. 218-219.

[2] Cfr. A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, a cura di A. Vigliani, introd. di G. Vattimo, trad. di N. Palanga riv. da A. Vigliani, Mondadori, Milano 1989, libro II, § 18, pp. 161-166.

[3] Cfr. R. Descartes, Meditazioni metafisiche, cit., VI Meditazione, pp. 253-266. Da notare che per Cartesio gli altri esseri umani di cui devo ammettere l’esistenza in quanto creazione di Dio non sono che oggetti del mondo materiale insieme a tutti gli altri, e del mondo materiale non posso negare l’esistenza in generale, mentre ciascun singolo dettaglio potrebbe essere una mia illusione.

[4] Cfr. A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, cit., libro IV, § 68, pp. 530-557.

[5] Cfr. in proposito F. Desideri, L’ascolto della coscienza. Una ricerca filosofica, Feltrinelli, Milano 1998.

[6] Chi pensasse che esagero dovrebbe leggere uno dei libri più influenti e celebrati della filosofia politica contemporanea, Una teoria della giustizia di John Rawls (cfr. J. Rawls, Una teoria della giustizia, cura e revisione di S. Maffettone, trad. di U. Santini, Feltrinelli, Milano 2008). Una società è giusta quando individui razionali preesistenti potrebbero scegliere di entrarvi pur senza sapere prima quale ruolo occuperanno e quale sarà la loro identità (detto in estrema sintesi). Naturalmente ci viene detto che si tratta di un modello normativo di società giusta, non della descrizione di qualsiasi società reale, ma chiaramente questo modello è poi utilizzato appunto come tale, cioè come parametro valutativo della società reale, la quale è di conseguenza tanto più giusta quanto più assomiglia a un libero incontro di liberi individui motivati dall’utile reciproco, cioè quanto più assomiglia a una rappresentazione mitologica.

[7] Il “comunitarismo” (da non confondere, s’intende, col comunismo) è la tendenza teorica opposta all’individualismo neo-liberale ed è fondata sull’impossibilità di pensare l’individuo astrattamente al di fuori di appartenenze etniche, religiose, culturali. È una tendenza nel complesso minoritaria, generalmente accusata di voler sacrificare le libertà individuali a reti comunitarie oppressive e regressive legate a una dimensione premoderna. Per una presentazione sintetica e accurata (non molto simpatetica), cfr. V. Pazé, Il comunitarismo, Laterza, Roma-Bari 2004.

[8] Mi riferisco, ovviamente, al marxismo. Fino a poco tempo fa non ci sarebbe stato bisogno di precisarlo, oggi probabilmente sì.

[9] Cfr. la celebre affermazione del padre fondatore dell’antropologia culturale, Edward Burnett Tylor: “Sempre, nella storia del mondo, le tribù selvagge devono aver avuto ben presente questa semplice alternativa pratica: sposarsi al di fuori del proprio gruppo, o essere uccisi”: E. B. Tylor, On a method of investigating the development of institutions; applied to laws of marriage and descent, in “Journal of the Royal Anthropological Institute”, n. XVIII, 1889, p. 267. Non esiste, che io sappia, una traduzione italiana di questo testo fondamentale.

[10] Cfr. C. Lévi-Strauss, Le strutture elementari della parentela, a cura di A. M. Cirese, trad. di L. Serafini, Feltrinelli, Milano 2003, pp. 39-49

[11] L’esempio si riferisce ad uno dei casi più importanti e meglio studiati di “commercio” rituale, il kula melanesiano. Vi è dedicato uno dei maggiori classici dell’antropologia culturale: B. Malinowski, Argonauti del Pacifico occidentale. Riti magici e vita quotidiana nella società primitiva, introduzione di V. Lanternari, prefazione di J. G. Frazer, trad. di M. Arioti, Newton Compton, Roma 1973.

[12] Il testo classico sull’obbligatorietà del dono e sulla sua importanza nel legame sociale è M. Mauss, Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche, introduzione di M. Aime, trad. di F. Zannino, Einaudi, Torino 2002. Per un’interessante ripresa contemporanea del tema, cfr. M. Anspach, A buon rendere. La reciprocità nella vendetta, nel dono e nel mercato, trad. di C. Fontanile, Bollati Boringhieri, Torino 2007.

[13] Cfr. G. W. F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, trad. di F. Messineo, Laterza, Roma-Bari 1978, in particolare § 195, p. 198, e §§ 198-199, pp. 199-200.

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