C’è una lezione negli avvenimenti spaventosi di queste settimane. Gli errori si pagano, prima o poi. Anche quando in realtà sono crimini. Crimini contro la vita, come cantava Pierangelo Bertoli. Da quarant’anni non si fa altro: contro la natura e l’ambiente; contro il diritto e l’umanità; contro la vita, sempre più ridotta a merce; contro l’intelligenza e lo spirito. Tutto ciò ha un nome: guerra. Il più orrendo dei crimini, soprattutto nell’epoca in cui, inevitabilmente è di sterminio. Forse il momento in cui colpevoli e innocenti dovranno rendere conto è arrivato. D’altra parte, quanto può durare ancora questo sprofondare? Certo, abbiamo ancora a disposizione molti modi per distrarci. Ma è sempre più difficile sfuggire alla sensazione che non la follia, ma il nemico stesso marci alla nostra testa. E la voce che ci comanda sia la sua.
Eppure abbiamo ancora speranza. O meglio, possiamo ancora essere speranza. Perché abbiamo un compito da assolvere. Quello di esercitare il difficile mestiere della critica. Tenendo al centro della nostra riflessione questa assurda e suicida guerra, in tutte le sue forme e declinazioni, certo. Ma con la consapevolezza che ciò che più va messo a fuoco è l’origine profonda di tutte le guerre, la guerra all’uomo, la madre di tutte le guerre. Prodotto del trinomio (uccidibilità, desiderio, produttività) che compone il paradigma del moderno di cui parla Luigi Alfieri nella sezione “Lezioni d’autore”. Il paradigma, cioè, di un’epoca già tramontata; che però rischia di trascinarci con sé se non sapremo sostituirla con un nuovo trinomio: cura, rispetto del limite, condivisione.
È di questo che ci occupiamo nel numero venti di Fuoricollana. Perché è venuto il tempo di cominciare a parlarne approfonditamente, di nominare il tema in tutte le sue ambivalenti declinazioni. Si tratta di rompere un tabù. Noi occidentali e occidentalizzati del XXI secolo passiamo larga parte delle nostre esistenze a raccontarci – nei media, nei discorsi istituzionali, nelle aule universitarie – una rassicurante menzogna. Quella di vivere in una società che si propone di essere accogliente con l’umano (una “visione centrata sulle persone”, human-centric vision) e che sempre più, in futuro, lo sarà. E invece no, siamo in guerra con l’umano. E al centro di questa guerra v’è l’uso dell’intelligenza. Umana e artificiale.
Occorre, innanzitutto, sgombrare il campo da molti equivoci che circolano anche nelle rappresentazioni più raffinate dell’artificial intelligence. Il primo di questi equivoci è la semplicistica contrapposizione tra intelligenza umana e intelligenza artificiale. L’intelligenza umana è tutt’altro che ’“naturale” e l’intelligenza artificiale presenta alcune caratteristiche tipicamente “umane”. Ci serviamo, da tempo, di procedimenti tecnici che simulano alcune funzioni umane, quali l’osservazione di dati e la loro gestione, (alcune delle foto di questo numero sono prodotte dall’IA). Oggi i programmi di intelligenza artificiale sono in grado di riprodurre testi di ogni genere, immagini , video, ma ciò non toglie che l’IA è ancora oggi solo uno dei modi di essere dell’esperienza e dell’intelligenza umana, sebbene questa sia una realtà infinitamente più ricca fatta di socialità, emotività, empatia.
Questa considerazione è alla base di molte tranquillizzanti rappresentazioni in ordine alla funzione delle tecnologie dell’informazione e dell’IA. Perché dovremmo temere da una riproduzione dell’attività intellettuale propria dell’uomo? Perché la simulazione del pensiero umano da parte di una macchina dovrebbe preoccuparci se questa si limita ad apprendere e fare in modo più veloce ed efficiente ciò che noi facciamo solo in modo più lento?
Questo è il lato “rassicurante” delle narrazioni riduzioniste dell’IA di cui parla il contributo di Salvatore Bianco. L’IA non è altro che la continuazione con mezzi stupidi dell’intelligenza umana. Ciò che, tuttavia, sfugge ad alcune di queste rappresentazioni è che il crescente scollamento tra intelligenza umana e la possibilità di conseguire risultati a prescindere da una contestuale deliberazione consapevole dei fini rappresenta una vera e propria cesura epocale dal punto di vista antropologico.
E nel caso dell’IA a svelarcelo sono i suoi “apostoli” che da tempo si adoperano per fare del potere tecnico-economico un potere legibus solutus (materialmente sciolto dalle leggi in quanto non controllato e non bilanciato da un contro-potere) e per ricondurre anche la condotta degli uomini (della maggioranza degli uomini) ad un Agere sine Intelligere, la cui icona è la rappresentazione dell’IA come pilota automatico. Impresa tutt’altro che scontata. Si dirà, e con ragione. Come bene è spiegato nel brano tratto dal libro di Gino Roncaglia ospitato in Lezioni d’autore. Dove viene detto che la riconquista della complessità corrisponde a linee di tendenza abbastanza chiaramente individuabili negli stessi strumenti che sono stati e vengono sviluppati in questi ultimi anni. È vero però che nulla può essere considerato già risolto dalla logica dello strumento. Che anzi richiede un’azione educativa ancora più consapevole. Soprattutto nel contesto della tecnoscienza odierna. Che ha una duplice vocazione – il potere tecnico-economico come potere legibus solutus e l’ingiunzione all’Agere sine Intelligere degli uomini – . Gli esiti più pericolosi di questo combinato disposto non sono, dunque, il frutto di un destino demoniaco sfuggito al controllo dell’uomo, ma l’esito di uno sviluppo deliberato, storico, del modo di produzione. Di una razionalità strumentale/calcolante/industriale/capitalista divenuta totalitaria nell’epoca della c.d. quarta rivoluzione scientifica, quando “il digitale si aggiunge e si integra con il taylorismo, ma non lo cancella in nome di un lavoro intelligente, semmai lo esaspera nei suoi tempi ciclo, nell’organizzazione, nel comando e nel controllo”. Una “rivoluzione” che spoglia progressivamente gli uomini, in nome del calcolo e della sua presunta razionalità/esattezza (oggi algoritmica/digitale), di ogni libero arbitrio, di ogni immaginazione (l’uomo come animale del possibile), delegando sempre più alla tecnica l’amministrazione e l’automatizzazione della vita umana. E tutto ciò avviene mentre si proclama l’ human-centric vision. Come dimostra Anna Valvo nel suo contributo, questa retorica ipocrita caratterizza le scelte o, meglio, le enunciazioni dell’Unione europea in punto di rispetto di diritti e libertà fondamentali. Mentre il c.d. AI act, il Regolamento europeo sull’intelligenza artificiale, come tutti gli atti normativi di fonte europea, è sostanzialmente rivolto al funzionamento e alla tutela del mercato interno che da sempre costituisce il principale obiettivo di tutto il processo di integrazione europea e ne rappresenta contemporaneamente il valore aggiunto e il limite.
Affinché si possa invertire questa tendenza, non è solo o soprattutto necessario un onesto processo di regolazione, pure utile. È indispensabile, lo dice Luigi Alfieri nel suo contributo, recuperare il senso originario e autentico del nostro essere al mondo e del nostro comunicare. Che non è quello della catena infinita degli scambi: Produco qualcosa per qualcuno. Vendo o compro qualcosa a qualcuno o da qualcuno. Do denaro, ricevo denaro. Fabbrico utilità, ne ricavo utilità. Bensì è l’atto che dona, che dona anzitutto la stessa vita, e neppure si sogna di ricevere qualcosa in cambio, è forse l’atto più spontaneo e naturale che esista, l’atto con cui tutte le madri del mondo nutrono i loro bambini. E non a caso il primo atto comunicativo di un essere umano è il pianto, e un pianto che sa di potere e dovere essere consolato, e se lo aspetta, sa che c’è qualcuno che ascolta. Mettere davvero al centro l’umano è possibile se si riattualizza questa relazionalità, che ci fa umani in quanto ci colloca in una comunità vivente. In un “noi” diacronico, prolungato nel tempo in entrambe le direzioni, verso il passato e verso il futuro.
Ma Perché non ci ribelliamo ed anzi diamo crescente credito alla razionalità digitale? È la domanda decisiva che pone Antonio Cantaro nel suo contributo a questo numero. La risposta, sostiene Cantaro, va innanzitutto ricercata in una situazione in cui la critica e la denuncia del suo dominio integrale, totalitario, è resa problematica e velata dal ‘fatto’ che le odierne scoperte scientifiche e le loro conversioni tecniche, aprono indubbiamente nuovi scenari di azione e inedite possibilità di intervento, allargano gli orizzonti di scelta. La libertà del “poter fare” contro la libertà, ben più onerosa del “sapere per cosa fare”. In altre parole, l’assolutizzazione dell’approccio tecnico scientifico ed efficientistico che produce lo scetticismo sui fini (cioè il nichilismo) di cui parlava Husserl quando si interrogava sulla legittimità dell’aspirazione europea a rappresentare il telos dell’umanità. Quella domanda oggi accantonata, lo ricorda Donato Caporalini nel suo intervento, perché oscurata dalla follia storico-fattuale del suo successo.
Un successo, peraltro, ampiamente minacciato dall’emergere di nuovi soggetti. A cui l’Occidente sembra non saper rispondere che con la sfida militare. Una postura, quella dell’Occidente che è peraltro replicata e fatta propria in modo irresponsabile da quasi tutti i protagonisti della scena internazionale. Con la conseguente scomparsa della Politica e l’affermarsi della geopolitica. Cioè della politica di potenza. E il suo necessario corollario: il riarmo. Assistiamo infatti a una vera e propria ubriacatura della tecnologia bellica da sperimentare e vendere dopo averla testata sulla popolazione civile. Con l’impiego di Ai per la sorveglianza, la repressione e lo sterminio. Intelligenza umana e artificiale al servizio del male. E qui il cerchio si chiude.