IDEATO E DIRETTO
DA ANTONIO CANTARO
E FEDERICO LOSURDO

IDEATO E DIRETTO DA ANTONIO CANTARO E FEDERICO LOSURDO

Guerre economiche, economie di guerra, guerre identitarie

Incubo e realtà. Ci avevano autorevolmente rassicurato all’inizio di questo ennesimo anno horribilis che la guerra in senso classico no, roba di altri tempi. E, a modo suo, ci aveva rassicurato anche Vladimir Putin annunciando urbi et orbi che l’invasione dell’Ucraina era una ‘semplice’ operazione militare speciale (ma ormai anche i bambini sanno che siamo precipitati in una guerra infinita, per procura per ora, ma guerra). Incubo e realtà. Ci hanno altrettanto autorevolmente rassicurato che tecnicamente “l’incidente nucleare” è sempre possibile, ma è altamente improbabile. In questi mesi ne sono stati sfiorati a decine, mentre a tacere è stato messo l’enorme danno ambientale prodotto dalla fuga di gas prodotta dagli attentati al gasdotto Nord Stream e sempre più assordante (per chi ha ancora orecchie per sentire) è il generale ‘rompete le righe’ intervenuto sul (pur ambiguo) terreno della transizione energetica (a vantaggio del carbone e del gas statunitense). Di tutto questo, nelle colonne del nostro web magazine, ci siamo in questi mesi ripetutamente occupati. E continueremo a farlo. Nel frattempo, gli incubi si moltiplicano e le bugie più che mai hanno le gambe corte. La retorica che la più grande guerra economica (sanzioni, ma non solo) degli ultimi decenni ci avrebbe condotto alla pace o quantomeno ad una pacificazione non regge all’evidenza dei fatti. I fatti dicono che la guerra economica è oggi più che mai la continuazione/dilazione della guerra militare con altri mezzi, che stiamo entrando in una sorta di economia di guerra e che ci attende un doloroso autunno, freddo e caldo da tutti i punti di vista. Una nuova condizione che viene irresponsabilmente e superficialmente evocata dalla generalità dei media come se si trattasse di un agente atmosferico, di un evento ineluttabile verso il quale ci adatteremo grazie a quella fantomatica resilienza che dalla pandemia in poi condisce il lessico quotidiano dei nostri governanti. Non dovremmo, insomma, essere allarmati più di tanto. In particolare, non lo dovremmo essere noi italiani in quanto il nostro paese non è alle prese con una ristrutturazione del sistema produttivo diretta ad indirizzare la produzione verso il settore degli armamenti, né deve ricalibrare la spesa pubblica per finanziare il dispiegamento di forze armate su un teatro di guerra (anche se molte risorse economiche sono state impegnate in questa direzione). Ma il fatto che non stiamo ancora ad una economia di guerra in senso letterale (all’adeguamento, cioè, di tutto il sistema economico e sociale alle necessità di una guerra) non significa affatto che non siamo investiti da tutti quei fenomeni (inflazione, recessione, crisi energetica, razionamento, crisi aziendali) che richiamano alla mente la situazione di un paese in guerra. Una nuova economia politica i cui i tratti essenziali sono persuasivamente richiamati nei contributi di Federico Losurdo e di Vincenzo Comito. Le prime vittime di questa nuova fase della (de)globalizzazione – lo ha prontamente rilevato il giuslavorista Luciano Fontana (“Economia di guerra”, crisi e diritto del lavoro. Note critiche in Costituzionalismo.it. n. 2, 2022) – sono ancora una volta i salari della grande maggioranza dei lavoratori italiani, già da anni falcidiati da una prolungata stagnazione dei redditi, i diritti sociali fondamentali della parte più sofferente della popolazione e del Paese (il Mezzogiorno in primis). Nel frattempo, per un paradosso solo apparente, la Cina di Xi celebra il suo “sogno” di riscatto e di emancipazione da una povertà secolare, ben avvertita e consapevole che il confine tra sogni ed incubi è assai sottile. Per questa ragione della “questione cinese”, ignorata e demonizzata dalla cosiddetta intellighenzia occidentale, si occupano direttamente gli interventi contenuti nel link audio-video che apre la Sezione “Le cose e le parole” (Guido Samarani, Marco Meccarelli, Asia Marcantoni) e indirettamente numerosi altri (quelli di Andrea Guazzarotti, Walter Cerfeda, Nicola Giannelli). Ciascuno di essi, sia pur da una specifica prospettiva, richiama l’attenzione sulla necessità di fare i conti con il tema del gigante asiatico, con il suo crescente ruolo nell’economia e nella politica globale. Perché dagli incubi si esce solo adoperandosi sinceramente ed autenticamente per un nuovo ordine internazionale, come avvenuto alla fine del secondo conflitto mondiale. Guardando in faccia il “partito della guerra” e adoperandosi per isolarne le componenti più cieche ed oltranziste. Quella in corso non è, oggi ancor più che in passato, la nostra guerra, ma una guerra le cui radici sempre più chiaramente affondano nell’irrisolta crisi dell’egemonia americana e nella concomitante ascesa della Cina (come ci ricorda il contributo di Alessandro Montebugnoli che ospitiamo nella Sezione fuoridinoi). La pretesa degli Stati Uniti di continuare a far leva sul dollaro e sulle proprie forze armate al fine di salvaguardare la supremazia del passato è il carburante permanente dell’attuale disordine internazionale e della guerra freddo-calda in corso. Se questa consapevolezza di una ancora minoritaria letteratura non diventa una consapevolezza diffusa, nessun partito della pace è credibile. È anche nell’interesse della potenza in ascesa, della Cina, farsene carico, mettere a tema la “questione americana”, proporre una via d’uscita alla crisi dell’impero americano. Una lungimiranza che aiuterebbe anche l’Unione europea ad uscire dal sonno dogmatico in cui è improvvidamente caduta e che innescherebbe quel circolo virtuoso di cui ancora non si vede traccia. E sulla cui assenza oggi si fondano le improbabili e disastrose ambizioni espansionistiche della Russia di Putin. Un problema minore, questo, se crescesse la consapevolezza del problema maggiore. Un salto di qualità intellettuale e politico che esige che il discorso dei movimenti pacifisti esca dalla dimensione delle mere esortazioni e degli accorati appelli e metta i piedi nel piatto di una nuova economia politica all’altezza della sfida di un mondo sempre più interdipendente e, al contempo, ancora desideroso di avere una propria storia e una propria identità. Condizioni che possono alimentare, come paventa Mario Barcellona nel suo scritto, tragiche e fatali guerre identitarie. Ma anche, se adeguatamente comprese, aprire la strada ad una nuova consapevolezza sulla portata e natura dell’attuale guerra globale. E sulle vie da percorrere per uscirne in modo giusto e duraturo.

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