IDEATO E DIRETTO
DA ANTONIO CANTARO
E FEDERICO LOSURDO

IDEATO E DIRETTO DA ANTONIO CANTARO E FEDERICO LOSURDO

Il discorso del capitalista

L’insostenibile sviluppo sostenibile. Un’ideologia consolatoria. Da un lato, una esternalizzazione, lontano dai paesi occidentali, delle attività estrattive. Dall’altra, una messa a profitto dell’intero tempo di vita dell’umano, della sua vita biologica e della sua vita emotiva.

Le diverse COP che si svolgono ogni anno, a partire dal Summit della Terra, tenutasi a Rio de Janeiro nel 1992, ci ricordano da un trentennio che non c’è solo l’impatto devastante delle guerre sull’ambiente ma anche una permanente e molecolare guerra all’ambiente. Normalmente l’allarme e l’attenzione dell’opinione pubblica scemano il giorno dopo le loro conclusioni. Ma la riunione che si è svolta tra il 30 novembre e il 12 dicembre a Dubai è caduta in un anno caratterizzato da alluvioni, ondate di caldo eccezionali e all’indomani dell’estate più calda mai registrata sulla Terra. Poteva e doveva andare diversamente, ma come in altre occasioni il cambio di passo non c’è stato. Per ragioni strettamente politiche e geopolitiche, economiche e geoeconomiche certo, ma soprattutto perché un cambio di passo esige a monte quel cambio di paradigma di cui parlano da tempo, da diversa angolatura e con diversa sensibilità, Alessandro Montebugnoli e Vincenzo Comito.

L’insostenibile sviluppo sostenibile

Il simbolo di questo mancato cambio di paradigma porta il suadente e illusorio nome di sviluppo sostenibile. Un nomen evocativo di altruismo, di generosità, di buone pratiche, di lungimirante responsabilità per le sorti dell’ecosistema, per i diritti delle generazioni future. Una formula magica, ossessivamente presente, in ogni discorso pubblico. Da quello burocratico dell’esercito dei funzionari del risk management a quello appassionato dei divi di Hollywood i cui, più o meno succinti e costosissimi capi di abbigliamento, sono tutti rigorosamente prodotti in modo sostenibile. Una propaganda imbarazzante per l’assoluta mancanza di pudore dei tanti che se ne fanno, più o meno consapevolmente, veicolo. L’inganno che sia a portata di mano – “dipende da te” – l’obiettivo di rendere sostenibile l’attuale insostenibile modello di sviluppo, l’aborrito sviluppo senza progresso (contro cui si scagliava Pier Paolo Pasolini) che è all’origine dell’emergenza epidemiologica dell’epoca pandemica e delle sempre più frequenti catastrofi ambientali e climatiche.

Ambiguità e limiti del discorso tecnologico

“Il discorso del capitalista” dei giorni nostri si veste della retorica del discorso tecnologico. La lotta al climate change affidata alla transizione ecologica e digitale. Paradigmatico è il discorso sulle magnifiche e progressive sorti della sostituzione delle auto a benzina con quelle elettriche, una “ideologia” consolatoria che elude il tema della quantità di spazio consumato sia dai motori elettrici che da quelli a benzina. Ovvero, la necessità di un modello di mobilità non più fondato sulla disponibilità di una o più automobili per ogni famiglia ma su altre forme di mobilità – trasporti collettivi, forme “attive” di trasporto (cycling, walking) – che consentano di consumare una minore quantità di suolo pubblico e di tempo e di migliorare l’uso dello spazio e la qualità della vita urbana. Il che esigerebbe di agire contestualmente sul piano della pianificazione territoriale (allocazione e accessibilità dei luoghi, delle funzioni, dei servizi). Esigerebbe che torni a tutti i livelli – internazionale, sovranazionale, nazionale, territoriale – il discorso del sociale e del politico.

Il vestito dei “buoni sentimenti”

Il manifesto della cattiva coscienza che va sotto il nome di sviluppo sostenibile sono le campagne per la transizione ecologica, energetica e digitale dell’Unione europea e dei suoi Stati membri. I dover essere postulati da queste campagne in nome della Green economy e della Sharing Economy. La modernizzazione senza civilizzazione che indossa il vestito dei “buoni sentimenti” e delle buone intenzioni delle giornate di festa: cambiare le regole del gioco senza cambiare gioco, passare una sottile mano di verde e una spessa mano di nuove tecnologie che renda desiderabile il paradigma economico della crescita illimitata delle nazioni (il famigerato Prodotto interno lordo) e quello psico-antropologico, ad esso strettamente funzionale, del poter fare senza limiti.

Gli apostoli dello sviluppo sostenibile fingono, cioè, di ignorare che cambiare le regole del gioco senza cambiare gioco è un modo per stare aggrappati agli imperativi del modo di produzione neoliberale. Per prolungarli più a lungo possibile, per “guadagnare tempo” direbbe Wolfgang Streeck. La traduzione italiana del francese développement durable, nella sua fresca ingenuità, è illuminante. Mettendo l’accento sulla “durabilità” restituisce perfettamente la modestia dell’orizzonte dello sviluppo sostenibile. Prolungare “il modello di sviluppo conosciuto” nel presupposto che non ci sia, oltre esso, altro futuro. There is no alternative. L’ ideologia consolatoria di chi vuol convincersi e convincerci che la quadratura del cerchio è possibile, che ciò che oggi è profittevole è anche sinonimo di una “vita buona”.

Antropocene?

Non tutte le retoriche dello sviluppo sostenibile sono ascrivibili a cattiva propaganda, a questa cattiva coscienza. Almeno non tutte ne hanno contezza. Le declinazioni più radicali muovono dal presupposto, condiviso ormai dalla quasi totalità della comunità scientifica, che l’umanità è entrata in un’epoca geologica in cui il principale fattore di degrado della vita sulla Terra è l’attività umana. Quello stadio che va sotto il nome di antropocene e che esige una rivalutazione dell’ambiente in quanto tale, attraverso l’affermazione del valore intrinseco della natura e della centralità della biosfera, indipendentemente e prima di una individuazione dell’utilità e della strumentalità delle risorse ambientali rispetto alle attività dell’uomo. Questa consapevolezza postula, invero, un cambio di passo in molti ambiti dell’organizzazione della vita economica e sociale. Postula l’inderogabile e non più rinviabile necessità di dar vita ad un ordinamento oggettivo dell’ambiente nel quale la sua tutela assurga al rango di metro sulla base del quale riscrivere l’intera grammatica dei diritti e dei doveri pubblici, comunitari, individuali. Sino al punto, nelle impostazioni più “profonde” (eco-centriche o anti-antropocentriche: deep ecology), di attribuire soggettività giuridica a entità naturali. Mentre in quelle più “superficiali” (shallow ecology) questa soglia non viene superata e ci si limita a normare principi, più o meno stringenti, per le politiche pubbliche e per le condotte dei consociati (principio di precauzione, principio di prevenzione, e così via). Principi che, si sottolinea da parte dei fautori della shallow ecology, segnerebbero comunque un potenziale passaggio dall’antropocentrismo dei diritti (che considera l’ambiente una valore-risorsa, sia in senso materiale, sia in senso estetico, interamente nella disponibilità degli uomini) ad un antropocentrismo dei doveri. Un antropocentrismo che si lascerebbe alle spalle l’egoistica pretesa di un diritto soggettivo all’ambiente a vantaggio di un ordinamento solidaristico nel quale la sua tutela venga assunta come presupposto e precondizione per l’esercizio di qualsivoglia diritto.

Il vero nome di antropocene, capitalocene

Il grande rimosso delle filosofie eco-centriche “profonde” e, ancor più, di quelle “superficiali”, è il vero nome dell’antropocene. Capitalocene. Non una astratta umanità, ma concreti poteri imprenditoriali e politici artefici delle trasformazioni dell’equilibrio dell’eco-sistema, responsabili di averne esasperato all’ennesima potenza la vulnerabilità. Tutti quei poteri che quotidianamente implementano la shumpeteriana “legge” della distruzione creativa del capitalismo, la “universalizzano”, fanno assurgere il “verbo” del principio di prestazione a principio generale di funzionamento dell’intera vita sociale. La legge del capitalismo in sé, la legge del capitalismo che è in noi. Questa rimozione del capitalocene si traduce concretamente in una deontologia del “guadagnar tempo” da parte delle punte cosiddette avanzate del modo di produzione neoliberale. In una duplice e connessa forma.   Da una parte, con una esternalizzazione dello sviluppo insostenibile a quelle parti del pianeta abitate da popoli che hanno intrapreso da ultimi un sentiero di crescita e di secolare emancipazione dalla povertà (oggi le attività estrattive sono localizzate, perlopiù, lontane dai paesi occidentali). E, dall’altra, con una internalizzazione della distruzione creativa, con una messa a profitto senza precedenti, grazie anche all’accelerazione della rivoluzione digitale, dell’intero tempo di vita dell’umano, della sua vita biologica così come della sua vita contemplativa, della sua natura e della sua cultura. Della vita activa in tutte le sue declinazioni. Capitalizzazione dell’umano, umanizzazione del capitale. L’impresa fordista che uscendo dai cancelli della fabbrica ha fatto di tutta la vita sociale una grande, immensa, fabbrica. Società fabbrica, Uomo fabbrica.

Il nuovo imperativo. Far finta di esser sani

Una tragedia pari e strettamente connessa a quella della distruzione dell’eco-sistema. Destrutturante, come il banale e dilagante verbo della nostra epoca, l’illusorio antidoto del “pensare positivo” e il “dovere” di far finta di esser sani. Laddove per tornare a pensare veramente dovremmo semmai riabilitare il pensiero tragico, l’unico autenticamente costituente, l’unico in grado di rimettere al centro il tema del ricominciare, il tema di un nuovo ordine. Le filosofie eco-centriche non aiutano in questa direzione. Si illudono di attingere il nostro “dover essere” dall’ “essere” della natura, dai suoi armonici scopi mutilati dall’individualismo possessivo del “borghese” e da quello ossessivo, ancor più pernicioso, dell’uomo neoliberale. Non nego che questi scopi della natura possano esserci. Chi siamo noi umani per arrogarci questo diritto di scomunica?

Penso, tuttavia, che per ricominciare veramente, per dar dire vita a un ordine che metta al centro un nuovo tipo di sviluppo – che io continuo a chiamare progresso (una modernizzazione guidata dalla civilizzazione) – avremmo bisogno di attingere il nostro “dover essere” da una qualche condizione del nostro “essere” che coniughi cultura e natura. Quella filosofia dell’ascoltare e prendersi cura delle umane vulnerabilità uscita – questo è il mio auspicio – solo temporaneamente sconfitta nel tempo della (post)pandemia.

Per un costituzionalismo diversamente antropocentrico

In nome di un costituzionalismo esigente, diversamente antropocentrico. Perché il punto di vista con il quale guardiamo la natura, l’ambiente, l’ecosistema non può che essere quello degli uomini situati che si battono in prima persona per la liberazione dalla miseria economica e sociale non meno che dalla liberazione della miseria ambientale. Se questo è quello a cui pensa Luigi Ferrajoli, sottoscrivo senz’altro. La “marxiana” esortazione a “cambiare lo stato delle cose” non può non incontrare il mio favor quando Ferrajoli enfatizza l’urgenza, sull’onda delle sfide aperte dalla pandemia e dalle nuove guerre globali, di dar vita ad un movimento diretto a promuovere una Costituzione della Terra. Una Costituzione che ponga rimedio alla «asimmetria tra il carattere globale degli odierni poteri selvaggi dei mercati e il carattere ancora prevalentemente locale della politica e del diritto». Quello che mi lascia perplesso è che il fondamento di legittimazione di questa auspicata nuova stagione del costituzionalismo globale possa essere rintracciato nel «valore razionale della solidarietà», nella sua intrinseca idoneità a tenere insieme gli interessi di tutti. Non vedo in giro, come Ferrajoli, «la comune consapevolezza della necessità della costruzione di una sfera pubblica globale» incaricata «di colmare il vuoto di diritto pubblico» tramite una cogente disciplina delle garanzie dei diritti fondamentali che sottragga alla disponibilità del mercato e delle nazioni i beni comuni (salute, acqua potabile, foreste, mari, ghiacciai, informazione) e ne affidi la tutela «a un servizio sanitario mondiale, a un’organizzazione mondiale dell’istruzione e del lavoro, a un demanio planetario, a un fisco globale» .

La potenza della razionalità della solidarietà abbisogna di essere accompagnata dalla potenza dei popoli, delle loro emozioni organizzate, delle loro giuste passioni. Passioni costituenti.

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