IDEATO E DIRETTO
DA ANTONIO CANTARO
E FEDERICO LOSURDO

IDEATO E DIRETTO DA ANTONIO CANTARO E FEDERICO LOSURDO

Indifferenza alla guerra, riabilitare il “sacro”

Pubblichiamo il testo della lezione svolta lo scorso 8 settembre alla Scuola di formazione politica, promossa da "Patria e costituzione", "La Fionda" e "fuoricollana" dedicata al tema l'Europa e la guerra". Un'attualizzazione del saggio L'Orologio della guerra. Chi ha spento la luce della pace.

Come tanti, durante la visione di Oppenheimer, sono rimasto incollato per tre ore allo schermo. Merita il successo che sta avendo. Come lo meritano, fatte le debite proporzioni, i libri sulla guerra posti a base della nostra giornata.

Il giorno dopo aver visto Oppenheimer ho parzialmente riletto L’orologio della guerra. Non male, mi sono vezzosamente detto. Ma anche in questo caso, associato ad un senso di soddisfazione per la lungimiranza di alcune delle pagine che lo compongono, una sensazione di incompiuto, di irrisolto.

Christopher Nolan, il regista di Oppenheimer, fa il suo mestiere. Noi facciamo altrettanto? Ci poniamo, dal punto di vista politico, le domande giuste? Quelle domande senza le quali è difficile che le risposte siano adeguate, senza le quali, difficilmente può esserci l’auspicato cambio di paradigma nell’azione delle forze progressiste che noi tutti in questa sala auspichiamo.

Alle radici della “nostra” indifferenza

A me pare che la domanda cruciale e scomoda che i nostri discorsi continuano ad eludere è la seguente. Perché oggi, a differenza che ai tempi di Oppenheimer, tanta trasversale indifferenza verso le atrocità della guerra infinita che si combatte sul terreno ucraino e verso la possibilità, tutt’altro che astratta, che questa e le altre guerre in corso e all’orizzonte scivolino verso l’apocalisse nucleare? E, perché, al contrario, tanta angosciosa attenzione, non solo mediatica, verso quella fabbrica delle violenze – dai femminicidi allo stupro di gruppo, e a tanto altro – che quotidianamente rimbalzano dalle cronache?

Non ho il tempo di occuparmi in modo ravvicinato di questo singolare capovolgimento. Ma anche questo capovolgimento ci dice, a saperlo leggere, qualcosa di importante sulle nostre società. Dopotutto oggi, più che in passato, se migliaia sono le vittime innocenti delle cronache, molte migliaia di più sono le vittime della guerra. Perché allora la cronaca è oggi al centro delle nostre angosce e la storia è diventata oggetto di culto solo per gli specialisti?

Avanzo una suggestione che meriterebbe altro approfondimento. Con la narrazione su fine della Storia con la S maiuscola perde di senso, di appeal, anche la Storia sulla fine della storia. Se tutto è presente, se tutto è natura, se viviamo in mondo senza una Legge con la L maiuscola, la pasoliniana forza del passato non ha niente da dirci e tanto meno lo ha il sol dell’avvenir. La geopolitica e la geoeconomia – le scienze degli interessi dei potenti – sono l’unica bussola della quale abbiamo bisogno per stare a questo mondo. Una mistificazione che gode di grande credito anche in chi è politicamente impegnato.

Ne ho parlato in alcuni passaggi del mio Orologio della guerra, sottolineando ripetutamente come la storia non sia affatto finita, come sia tutt’altro che innocente la narrazione sulla sua fine. Persino l’apocalisse, ammesso se precipitassimo nel tempo dell’apocalisse, non sarebbe, comunque, la fine del mondo. Ma, pur sempre, la fine di un mondo. La natura e gli viventi umani sopravvissuti, credetemi, si riorganizzerebbero.

Eppure anche questa mia – e non solo mia – avvertenza cade sostanzialmente anch’essa nel vuoto dell’indifferenza. I Bric – lo dico sommariamente, altri ne parleranno specificamente – stanno provando a mettere in forma la fine di un mondo e a mettere in forma un altro mondo. E allora, sembrano rispondermi i miei interlocutori? Altri fanno, ma noi qui, in Occidente, il “vecchio mondo”, perché dovremmo mettere in forma il nostro declino e acconciarci all’ascesa del “nuovo mondo”?

Due opposte passioni

L’assordante silenzio e talvolta l’aperta ostilità che circonda le parole di Papa Francesco su questa cruciale questione dice tutto della nostra attuale impotenza politica, e segnatamente dell’impotenza delle nostre parole sulla guerra. Ma forse cominciando a lavorare sul non detto di Oppenheimer qualche squarcio di luce è possibile ricavarlo.

L’indifferenza per le cosiddette guerre da globalizzazione segna una radicale cesura rispetto al passato. In passato, e segnatamente nel corso del cosiddetto secolo breve, non v’è mai stata, infatti, indifferenza per la guerra, ma due opposte passioni. Una passione che va sotto il nome di adesione. Ed un’altra, opposta, che va sotto il nome di rifiuto. Sino a quella parola, inequivocabile, ripudio, scritta a chiare lettere nell’art. 11 della nostra Costituzione.

Perché adesione o rifiuto ma mai l’odierna indifferenza? Il tema, ripeto, è difficile e ambiguo, ma la politica è l’arte del difficile se vuole essere vera arte.

Mettiamo un primo punto fermo che spiega la passione di chi ha in passato aderito alle ragioni della guerra, una passione che talvolta è stata persino più intensa in coloro che materialmente andavano nei campi di battaglia. Anche costoro sapevano benissimo che in guerra, in tutte le guerre, da tempi lontanissimi, si tratta di uccidere. Che la guerra è guerra, che la guerra reca con sé, quale suo precipuo corollario, l’estremo dell’altrui o proprio annientamento.

Eppure i combattenti, non vivono questa etica come incompatibile con l’ordine sociale. Anzi, sollecitati dalle narrazioni del potere, vivono questa mistica ed estetica della morte come qualcosa di necessario per la difesa e per la durata dell’ordine sociale. Al grido di libertà o morte lo fanno anche oggi – ma nella universale indifferenza – i combattenti ucraini e lo fanno e anche quelli russi sollecitati da una narrazione, che noi sottovalutiamo, di una guerra esistenziale, di una guerra in cui è in gioco la sopravvivenza della forma di vita russa, della sua storia che è anche storia di uno spazio vissuto come vitale.

La collettiva persuasione che la guerra è un’istituzione necessaria per la sopravvivenza e la vitalità della propria comunità è tutt’altro che un residuo arcaico. Così come, per converso, la passione dei partiti della pace che hanno in epoca moderna rifiutato come naturale e necessaria l’istituzione della guerra.

Chi milita nel partito della pace sa bene anch’esso che la distruzione non è solo una conseguenza eventuale della guerra, ma lo scopo della moderna arte della guerra. Almeno a partire dalle guerre napoleoniche non si tratta più, infatti, di amministrare sapientemente costosi eserciti di mercenari cercando di ridurre al minimo gli scontri diretti con l’avversario; ma si ha a che fare con eserciti di proporzioni molto più grandi basati sulla costrizione obbligatoria ed animati dall’etica – se si vuole il predominio sul nemico – del più violento impiego della forza, della distruzione più ampia possibile. Senza risparmio di sangue, se si vuole che non sia il nemico a prendere il sopravvento, a dettare la propria legge.

Perché malgrado questo estremo, le guerre moderne hanno suscitato in tante masse una passionale adesione? Perché quelle masse – direbbe Elias Canetti nella acutissima lettura fatta da Luigi Alfieri- non sono in preda ad una violenza caotica ma sono unificate da un vincolo e uno scopo comune che è sì terribilmente violento ma che viene vissuto come una fede quasi religiosa che rassicura sulla propria appartenenza, ne rafforza l’interna coesione.

Questa fede ‘religiosa’ va sotto il nome di nazione. Una fede che hanno entrambe le masse combattenti di queste comunità immaginarie, immaginarie ma quanto mai sentite come reali, viventi, vitali. E, dice Canetti, «l’una massa tiene in vita l’altra», ne consolida l’identità e allontana l’angoscia per la propria morte individuale. Insomma, la guerra come potente struttura d’ordine. Mentre, coloro che non credono a queste comunità immaginarie, a queste strutture d’ordine, rifiutano, ripudiano, la guerra. Altrettanto appassionatamente.

Tertium non datur. Non c’è spazio per l’indifferenza. Interventisti o non interventisti. Guerrafondai o pacifisti; entrambi ‘partigiani’, senza se e senza ma. Entrambi impegnati in una battaglia ‘sacra’. La sacralità della patria, di ogni patria gli uni; la sacralità della vita, di ogni vita, gli altri.

Il tabù infranto dell’atomica

Questi secondi, i pacifisti, hanno guadagnato nell’immaginario collettivo del XX secolo (almeno sino all’89) numerosi punti. E questo perché il secolo breve è stato il secolo nel quale l’orrore estremo della guerra emerge tragicamente già nelle trincee della prima guerra mondiale, sino alla distruttività senza precedenti della seconda.

La tecnologia delle armi porta a distruzioni catastrofiche, l’entità delle perdite umane va completamente fuori controllo. E la mobilitazione delle risorse raggiunge proporzioni titaniche sino al conseguimento della possibilità tecnica della distruzione della vita sulla Terra, senza la quale, per quanto immaginarie, non vi sono nemmeno le nazioni. Oppenheimer.

Quello che Oppenheimer non spiega, e che è nostro compito mettere politicamente a tema, è l’attuale indifferenza. Una indifferenza a tutto campo che sembra non risparmiare niente e nessuno. Perché, quali ne sono le radici?

Immagino che l’ipotesi che sto per formulare, coerente sviluppo di quanto detto, risulterà alla sensibilità di molti, anche in questa sala, irritante e urticante. La nostra indifferenza ha un comune DNA: la pasoliniana desacralizzazione di tutto ciò che sacro, anzi con più esattezza del sacro in sé. Quel pensiero unico che postula che il sacro non esiste in nessuna cosa, in nessuna attività e convinzione, perché tutto quello che facciamo e pensiamo ha – deve avere – motivazioni esclusivamente utilitaristiche, razionali, pratiche.

Non è che la parola sacro sia scomparsa nel lessico corrente. Tutt’altro. Ma è oggi divenuta mera sovrastruttura, retorica, ideologia consolatoria che nomina, come sacre, entità ancora più astratte e immaginarie di quella dell’appartenenza nazionale o di quella della nostra comune umanità.

La riabilitazione del sacro

La sacralità delle persone e dei diritti della persona umana è uno, il principale, di questi discorsi consolatori. Ed è un discorso consolatorio perché affinché l’appello al rispetto della sacralità della persona abbia un senso è necessario che sia rivolto a esseri in grado di sentirlo: «è inutile spiegare – osservava a suo tempo Simone Weil – a una collettività che in ciascuna delle unità che la compongono vi è qualcosa che essa non deve violare», come è altrettanto inutile è «dire alla persona che lei stessa è sacra. Non può crederlo. Non si sente sacra. E il motivo che impedisce alla persona di sentirsi sacra è che effettivamente non lo è».

In ogni uomo – dice la Weil – vi è qualcosa di sacro. Ma non la sua persona. E neppure la persona umana. È semplicemente lui, quell’uomo…. Ecco un passante: ha lunghe braccia, occhi celesti, una mente attraversata da pensieri che ignoro, ma che forse sono mediocri…Ciò che per me è sacro non è né la sua persona né la persona umana che è in lui. È lui, Lui nella sua interezza. Braccia, occhi, pensieri, tutto …. Se quel che vi è di sacro in lui per me fosse la persona umana, potrei cavargli gli occhi facilmente. Una volta cieco, sarà una persona umana esattamente come prima. Non avrò affatto colpito la persona umana che è in lui. Avrò soltanto distrutto i suoi occhi».

Perdonate questa lunga citazione. Non posso definirmi filosoficamente parlando un seguace della filosofia di Simone Weil, della sua originale convinzione che solo nell’impersonale (nella bellezza, nella verità, nello strazio che proviamo a ferire l’anima di qualsiasi essere vivente) possiamo ritrovare il senso del sacro che abbiamo perduto. Sono però politicamente interessato al suo involontario pasoliniano messaggio. La riabilitazione del sacro. Anche costo di passare per una “forza della restaurazione”.

Una “forza del passato”

Restaurazione di ciò che merita di essere restaurato. Il sacro, per stare specificamente al nostro tema, che v’è nella pace di ogni singolo uomo, nel “non fargli del male”. Un giorno un leader che noi tutti ancora amiamo ha detto di sentirsi un conservatore e, allo stesso tempo, un rivoluzionario. Non avrebbe dubbi nel dire che per essere rivoluzionari è oggi indispensabile essere anche una forza del passato. D’altronde, il campo della conservazione, della conservazione del declinante ordine neoliberale ed atlantico, è ben presidiato dalle destre e dal cosiddetto progressismo liberal.

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