IDEATO E DIRETTO
DA ANTONIO CANTARO
E FEDERICO LOSURDO

IDEATO E DIRETTO DA ANTONIO CANTARO E FEDERICO LOSURDO

Intelligenza artificiale. O della “guerra all’umano”

L’IA è sempre più una meta-tecnologia in guerra con l’umano che ci comanda di “Agere sine Intelligere”. L’uomo connesso è sempre meno un uomo relazionale. Nessun Dio ci salverà, solo una mobilitazione collettiva può farlo.

Sostiene Luigi Alfieri che essere uomini è essere in relazione. L’uomo è un essere relazionale, ‘naturalmente relazionale’. Proverò ad aggiungere una postilla a questa, da me condivisa, tranchant contro-antropologia filosofica.

 Naturalmente relazionale, naturalmente artificiale

Una postilla insita in un cruciale passaggio del suo discorso ‘empirico’: «L’origine immediata della mia vita è molto concreta, molto corporea, molto biochimica. Non un supremo atto creativo dell’Essere, ma l’unione sessuale di due corpi e un corpo materno dentro cui a poco a poco è maturato il mio come una sorta di parassita simbiotico. Poi una separazione dolorosa, atrocemente traumatica per entrambe le parti: un corpo emerge dall’altro, si strappa dall’altro. Ma la separazione non è totale, perché uno dei due corpi continua ad avere bisogno dell’altro, dall’altro ricava nutrimento, cura, protezione. Nessuno viene al mondo come soggetto razionale capace di libera autodeterminazione e responsabile di sé, ma come esserino inerme urlante e scalciante, capace a stento di respirare e bisognoso di tutto. Ma la cosa straordinaria è che il bisogno ottiene risposta, che qualcuno, in cambio di niente, è disposto a dare all’esserino urlante tutto ciò che gli consente di sopravvivere, di nutrirsi, di stare al caldo, di crescere, di imparare a parlare e a pensare».

 

L’uomo, dunque, “impara a parlare e a pensare” per il tramite di parole che non nascono da Lui, “ma che vengono da fuori”. Da un linguaggio, da un artificio che dà alle parole i suoni, un ordine grammaticale e sintattico, un senso. L’uomo è ab origine il suo linguaggio (da ultimo E. Dell’Atti, 2022), un essere naturalmente artificiale. Produce il proprio mondo, immagina un futuro diverso da quello dato, ne ipotizza altri. L’uomo è l’animale del possibile (F. Cimatti, 2011). Da questo punto di vista, l’IA non è altro che un’umana possibilità e modalità di esplorare, interrogare, interpretare e organizzare la nostra vita. L’animale umano, in virtù della facoltà del linguaggio, segmenta arbitrariamente il reale, traccia confini, discretizza il continuo della materia per conoscere, progettare, agire. Grazie a tale capacità si emancipa dal contatto in “presa diretta” con la nuda realtà e si colloca in una dimensione simultaneamente naturale e meta-naturale. La natura umana è l’espressione di una dualità: una condizione doppia, in cui vigono, oltre alle leggi fisio-logiche (l’uomo è la più sprovveduta tra tutte le specie per abitare l’ambiente naturale: F. Pasqualetti, 2020) anche norme e abiti precipuamente umani. È in questo “ossimoro” (D. Gambarara 2005) che risiede la specificità dell’uomo, in questa frizione, in questa originaria “opposizione partecipativa” che tiene uniti due poli: l’uno estensivo (natura), l’altro intensivo (cultura, tecnica, artificio). Una dimensione che fa dell’uomo un essere naturalmente artificiale (ultimo M. T. Pansera, 2003; E. Dell’Atti, 2022). Non è mai esistita una natura umana alla quale, strada facendo, si è aggiunta la tecnica. “L’essere umano […] è strutturalmente tecnico, ovvero: diventa progressivamente ‘umano’ nel suo diventare ‘tecnico’ (C. Sini, 2016). L’invenzione della scrittura è un processo non dissimile dalla programmazione di un linguaggio macchina. “Un insieme organico – l’unione di colui che parla, colui al quale si parla (l’ascoltatore), ciò di cui si parla (il contenuto) e ciò attraverso cui si parla (il suono) – viene spezzato per produrre un nuovo mezzo, il testo scritto, a partire dal quale è possibile riprodurre la parola (un simulacro della parola reale). Questa ‘tecnica’ ha indotto Walter Ong a vedere nella scrittura fonetica la tecnologia fondatrice dell’Occidente. Essa incarna, infatti, per la prima volta la strategia di base impiegata in ogni altra tecnologia: un ‘tutto’ dotato di significato viene frantumato in ‘unità’ prive di significato, che poi vengono assemblate di nuovo in schemi prescelti (Walter J. Ong, 2014).

 

Con la scrittura l’intera esperienza umana può essere trasferita – narrata, immaginata – in un testo, continuamente rielaborabile e perfettibile. Nasce la coscienza storica grazie al fatto che il passato è conservato in forma scritta, non è semplicemente ripetuto: si esce da una concezione ciclica della storia e ci si apre all’idea di futuro, un futuro immaginabile e pianificabile. Non è un caso che la scrittura inauguri il primo sistema di controllo della popolazione con il censimento e la riscossione delle tasse. Si strutturano anche le istituzioni fondamentali della società stabilendo un nuovo ordine gerarchico: nel tempio, nella fortezza e nel granaio di allora possiamo vedere all’opera gli stessi criteri che hanno poi dato vita ad istituzioni come la Chiesa, lo Stato, il Tesoro (F. Pasqualetti, 2020). La tecnologia non solo, quindi, è l’essenza dell’uomo (U. Galimberti, 2016) ma è il suo modo naturale per relazionarsi con il mondo e di stare al mondo. Il mondo così come lo conosciamo non esisterebbe senza il linguaggio. Il linguaggio per l’uomo è l’interprete e traduttore di tutti i segnali che vengono dai sensori naturali del proprio corpo e di quelli inventati strada facendo per abitare l’ambiente. La ‘vera’ IA, da questo punto di vista, è quella dell’uomo e non della macchina che usa molto bene delle forme di calcolo che simulano alcune funzioni dell’intelligenza umana (F. Pasqualetti, 2020).

 L’IA come simulazione

Possiamo, dunque, sgombrare il campo da molti equivoci che circolano anche nelle rappresentazioni più attrezzate dell’artificial intelligence. Il primo di questi è la semplicistica contrapposizione tra intelligenza umana e intelligenza artificiale. L’intelligenza umana è tutt’altro che “naturale” e l’intelligenza artificiale simula, in misura assai superiore che in passato, alcune funzioni tipicamente “umane”. Ciò non toglie che l’IA è solo uno dei modi di essere dell’intelligenza umana che ancora oggi viene generalmente dipinta come una realtà più ricca fatta di emotività, empatia, socialità. Questa considerazione è alla base di molte tranquillizzanti rappresentazioni circa la funzione delle tecnologie digitali. Perché dovremmo temere da una riproduzione dell’attività intellettuale propria dell’uomo? Perché la simulazione del pensiero umano da parte di una macchina dovrebbe preoccuparci se questa si limita ad apprendere e fare in modo più veloce ed efficiente ciò che noi facciamo solo in modo più lento? Siamo di fronte – si dice – ad uno strumento certo molto complesso ma per essenza non molto diverso da un tagliaerba automatico, con cui interagiamo senza temere che possa mai prendere il potere, limitandosi a sostituirci nella funzione, noiosa, del tagliare l’erba in giardino. Non abbiamo del resto sempre chiesto alla tecnologia, sin dall’era dell’homo faber, di assolvere a questa funzione simulatoria?

 

Queste considerazioni inducono tanti a ritenere del tutto infondati i timori che la tecnologia possa sostituirsi agli uomini. Questi timori – sostiene Maurizio Ferraris – sono «frutto della mancanza di intelligenza naturale, quando non volersi lavare le mani dal sangue di cui sono sporche. Ciò che è comprensibile in Albert Speer, ministro degli armamenti del Terzo Reich che a Norimberga si difese invocando l’onnipotenza dell’apparato tecnico tedesco, è inspiegabile in Martin Heidegger». La fiaba del Golem che prende il potere – una macchina artificiale onnipotente – non è che una vana fiaba. Gli educati componimenti di ChatGTP non possono in nessun modo turbare i sonni dell’umanità, prospettandone un prossimo crepuscolo. E ciò per la ragione che noi umani abbiamo delle qualità che ci fanno tendere verso qualcosa che nessuna macchina mai possiederà. Il fatto che esistono macchine che possono svolgere delle operazioni caratteristiche della intelligenza umana meglio di quella intelligenza stessa (risolvere equazioni, riassumere testi) non significa affatto che esse possano stabilire dei fini e deliberare coerentemente. Nessuna macchina potrebbe autonomamente comportarsi in quella maniera teleologica che caratterizza la forma di vita umana. Chi parla di un’intelligenza artificiale che possa prendere il potere o quantomeno surrogare l’intelligenza naturale non ha mai visto un bambino davanti a una pasticceria o un adulto o un’adulta disposti a giocarsi per amore, o per qualcosa che ne ha una vaga parvenza, la fama, la rispettabilità, la grandezza (M. Ferraris, 2023). Un computer non si comporterà mai né come Cesare Pavese né come Dominique Strauss-Kahn. Questo non dipende dal fatto che siamo traboccanti di sentimenti preclusi ad altri organismi: due cervi si sfidano esattamente come due bulli fuori da una birreria. Deriva dal fatto che noi abbiamo dei bisogni e delle qualità «che ci fanno tendere verso qualcosa con una urgenza che nessuna macchina mai possiederà». Nessuno, se sano di mente – incalza Maurizio Ferraris – «ha mai pensato che una enciclopedia sappia di essere una enciclopedia o che un software per giocare a scacchi sa di giocare a scacchi, ed è contento se vince o frustrato se perde». L’intelligenza artificiale non è in alcun modo una forma di vita, umana o non umana, e questo semplicemente perché le macchine non sono né vive né morte, diversamente dagli organismi. Il nostro telefonino non è intelligente, giacché non ha alcuna forma di vita ma piuttosto si applica a misurare, registrare e calcolare la nostra forma di vita. Una sconfinata biblioteca di Babele rappresenta un passo in avanti per chi vuol esercitare il compito fondamentale della intelligenza, ossia stabilire dei fini e deliberare coerentemente. Un passo indietro per chi vuole copiare una tesi.

 L’IA come pilota automatico

Le rappresentazioni riduzioniste dell’artificial intelligence – l’IA non è né una panacea né un apripista di una imminente schiavitù – si propongono di placare il senso di smarrimento suscitato dalla percezione di trovarsi di fronte ad un mondo governato in toto da una tecnologia eterea e sfuggente. L’intelligenza artificiale non è intelligente nel senso nel quale noi occidentali “colti” continuiamo a rappresentare l’intelligenza. L’intelligenza artificiale non è comparabile all’umana intelligenza. Le odierne macchine operano con successo nel mondo senza essere consapevoli di agire in vista di un risultato. Siamo di fronte a una tecnologia fatta di “meravigliose invenzioni” ma nient’affatto dotata di comprensione, coscienza, emotività, intuito, consapevolezza, di tutto ciò che fa ancora ai nostri occhi di un essere umano un’entità unica. Il Papa ricorda che sono macchine. Meccanismi, sistemi, o servizi software che fanno cose al posto nostro, sempre più spesso meglio di noi, ma in modi diversi, nello stesso senso in cui una lavastoviglie lava i piatti al posto nostro e meglio di noi, ma non come noi, e senza alcuna ragione, motivo, aspettative, speranze o timori che abbiamo solo noi. Sono sistemi di ausilio per il pensiero. Augmented Intelligence. Agere sine Intelligere, Agency without Intelligence (L. Floridi, F. Cabitza 2021). La continuazione con mezzi stupidi dell’intelligenza umana.

 

Ciò che sfugge anche alle più perspicue rappresentazioni riduzioniste dell’IA è che il crescente scollamento tra intelligenza umana e la possibilità di conseguire risultati a “prescindere” da una contestuale deliberazione consapevole dei fini sta ingenerando una vera e propria cesura epocale dal punto di vista antropologico. La capacità dell’IA di risolvere problemi e completare compiti sta da tempo “divorziando” dall’intelligenza umana, assumendo sempre più la fisionomia di un pilota automatico che solo esteriormente assomiglia a quello delle navi con le quali il re dei Feaci rimpatrierà Odisseo appena gli dirà chi è: «Dimmi la terra tua, la gente e la città, perché le navi dirigendosi con le menti là ti conducano. Infatti i Feaci non hanno piloti, le navi non hanno timoni come le altre, ma sanno da sé i pensieri e le menti degli uomini» (Omero, Odissea 8.555–563). Le navi a guida autonoma senza timoni, di cui narra Omero, sono solo una finzione. Sono navi che «sanno i pensieri e le menti degli uomini», intimamente guidate dallo scopo etico-emotivo del ritorno ad Itaca, un ritorno denso di passione. L’odierno pilota automatico (L’IA) è, invece, guidato esclusivamente dal risultato empirico da conseguire, dal calcolo su quale sia il percorso più breve per raggiungere un luogo, su quale sia la soluzione meno dispendiosa. Non vuol sapere chi è “la terra nostra, la nostra gente e la nostra città”, non ci chiede perché vogliamo tornare ad Itaca, ci “informa” sul come tornarci nel modo più “economico”.

 

Si pensi alle raccomandazioni sulle piattaforme. Tutto è digitale, e agenti digitali hanno la vita facile a processare dati, azioni, stati di cose altrettanto digitali, per suggerirci il prossimo film che potrebbe piacerci. Tutto questo non è di per sé un problema. Ma per far funzionare sempre meglio l’IA stiamo concretamente trasformando il mondo a sua dimensione. Paradigmatica è, in questo senso, la discussione su come modificare l’architettura delle strade, della circolazione e delle città per rendere possibile il successo delle auto a guida autonoma. Tanto più il mondo è “amichevole” (friendly) nei confronti della tecnologia digitale, tanto meglio questa funziona, tanto più saremo tentati di renderlo maggiormente friendly, fino al punto in cui siamo noi a doverci adattare alle nostre tecnologie e non viceversa (L. Floridi, 2020). Agire come robot ci rende più familiari ai robot, e noi stiamo ottimizzando la nostra vita a questo scopo.  Nell’infosfera non si dà più relazione con gli altri uomini nel doppio, dialettico, senso di quel “noi sincronico” e di quel “noi diacronico” di cui ci parla Luigi Alfieri.

 

Nell’infosfera, l’altro familiare è solo un pallido ricordo. Le differenze con la società della relazione sono abissali. Si sentono a pelle quando proviamo a passeggiare nelle strade di città sempre più popolate da fantasmi con gli occhi solipsisticamente e imprudentemente incollati sullo smartphone e le braccia prolungate a fare selfie. L’IA è il veicolo, oltre che l’esito, di un progetto di mutamento antropologico che «ha perso il senso del completamente Altro. Lo ha perso con la cosiddetta morte di Dio prima, e poi con il dominio sulla Natura, prima disincantata e oggi sempre più rovinata. La crisi spirituale moderna non è una crisi di attenzione verso noi stessi. Ne abbiamo fin troppa. E non è una crisi di introspezione. Anche questa abbonda. È una crisi di dialogo interno, anche solo socratico e non necessariamente religioso, con l’Altro. La vera distrazione (etimologicamente parlando) moderna, il rumore che nasconde il segnale, è l’antropocentrismo individualista che non lascia alcun spazio all’Altro. Abbiamo sempre più alterità aliene (nel senso etimologico di estranee), spesso conflittuali, tra individui, generi, classi, etnie, nazioni, popoli, religioni e filosofie. Ma sono alterità interne all’umanità, un disconoscerci tra noi, che non corrispondono a un Altro trascendente, cioè fuori dalla storia umana, ma familiare, cioè vissuto e riconosciuto come esperienza quotidiana, sia esso divino, per chi crede, o solo naturale, per chi non crede» (L. Floridi, 2024).

 Agere sine Intelligere

Chi vuol esser lieto sia, lo dico senza ironia. Non sono in possesso di formule magiche su come ri-umanizzare l’umano nell’era dell’artificial intelligence. Ma ci si risparmi, di fronte alla profondità del mutamento del paradigma antropologico da questa indotto, la favola della sua neutralità, una banalità condita con il trito esempio del coltello che può essere usato per tagliare il pane o la gola di una vittima. Non è mai stato così, per nessuna tecnologia, per nessun artificio, nemmeno per l’“invenzione” del linguaggio, tanto meno per l’IA. E a svelarcelo sono i suoi stessi “apostoli” che da tempo si adoperano per fare del potere tecnico-economico un potere legibus solutus (non controllato e non bilanciato da un contro-potere) e per ricondurre la condotta degli uomini ad un Agere sine Intelligere (la cui icona è la rappresentazione dell’IA come di un pilota automatico). Una tecnologia vissuta come un giocattolo, malgrado una app e un social non siano esattamente il vecchio “meccano” o il “piccolo chimico”, ma mezzi diretti di produzione e di accumulazione, di ingegnerizzazione comportamentale. E lo sono perché la tecnoscienza capitalista ha attivamente “lavorato” a fare del modo di produzione una forma di “comunicazione-produzione”, in cui la comunicazione non si limita più solo allo scambio tra produzione e consumo, ma la produzione avviene sotto forma di processo comunicativo (i messaggi sono essi stessi merci: L. Demichelis, 2021).

 

Non siamo di fronte ad un destino demoniaco, ma ad un preciso sviluppo del modo di produzione. Ad una razionalità divenuta totalitaria anche perché «il digitale si aggiunge e si integra con il taylorismo, ma non lo cancella in nome di un lavoro intelligente, semmai lo esaspera nei suoi tempi ciclo, nell’organizzazione, nel comando e nel controllo». Una razionalità che spoglia progressivamente gli uomini, in nome del calcolo e della sua esattezza, di ogni immaginazione (l’uomo animale del possibile), delegando sempre più alla tecnica l’amministrazione e l’automatizzazione della vita umana, ad un algoritmo capace ormai di darci le risposte prima ancora di avere fatto le domande. Una razionalità strumentale/calcolante diventata una ontologia (il senso dell’essere uomo è il calcolo, siamo dati e capitale umano), una teleologia (la razionalità calcolante-industriale ordina e predetermina la realtà), una teologia che uniforma le molteplicità del mondo e delle persone, riducendo tutto al pensiero di un dio razionale (L. Demichelis, 2021). Il digitale si erge – ha scritto Éric Sadin – a potenza aletheica, a un’istanza destinata a mostrare l’aletheia, la verità nel senso definito dalla filosofia greca antica, la forma di un techne logos, di un dispositivo dotato del potere di dire, con sempre maggiore precisione e immediatezza, lo stato teoricamente esatto delle cose.  Una logica pensata per essere applicata a tutti gli aspetti della vita individuale e collettiva. I dispositivi aletheici sono destinati, per via della loro crescente sofisticatezza, a imporre la loro legge, a orientare dall’alto della loro autorità le condotte umane (É. Sadin, 2019). Una “verità” sostenuta da una duplice, potente, rappresentazione della legittimazione di cui oggi gode il tecno-capitalismo.

 

Da una parte, una rappresentazione del tecno-capitalismo come di una forza del passato; dall’altra come di una forza del futuro. Una forza del passato, mitica, nella misura in cui le tecnologie digitali sono vissute come l’ultimo stadio di una lunga storia della razionalità occidentale che grazie alla tecnica si è assicurata un dominio sempre crescente sul corso del mondo, consentendo all’uomo di porre rimedio alla sua ontologica lacunosità. Una forza del futuro, rivoluzionaria, nella misura in cui l’uso massiccio delle tecnologie digitali dà vita ad un mondo nuovo: l’accesso a un bacino inesauribile di informazioni, l’enorme facilitazione delle comunicazioni, l’effettuazione di una grande quantità di azioni a distanza, il tutto accompagnato da un certo senso di compiacimento, di comodità, di potere. Tutto, magicamente, in tempo reale. Un tempo nuovo rispetto alle tre modalità temporali – passato, presente e futuro – che scandivano nel ventesimo secolo la nostra forma di vita. Un tempo inizialmente destinato a facilitare certe pratiche (il riconoscimento dell’identità di un individuo tramite una telecamera di sorveglianza, l’analisi di una radiografia) ma ben presto divenuto un tempo della conoscenza immediata e automatizzata delle situazioni e della conseguente emissione di istruzioni da eseguire seduta stante. L’indicazione di seguire questo o quell’itinerario in funzione dello stato del traffico, la trasmissione di segnali agli addetti alla logistica per ordinare loro di andare a ritirare il tal articolo nel tal momento e poi depositarlo nel tal posto. Cosicché il tempo reale è passato da una iniziale, strumentale, dimensione di comfort che teneva insieme tecnica e attività umana (una accelerazione dell’innovazione tecnologica) alla generalizzazione del fatto che un robot computazionale indica a un essere umano quale comportamento adottare (Èric Sadin, 2022). In ogni occasione e situazione.  Che studi intraprendere, quale attività lavorativa, quale sia il profilo ideale del proprio partner. O, persino, indurre – pare sia ‘realmente’ accaduto – una settantaduenne single statunitense a sposarsi con sé stessa.

 

La robotizzazione dei gesti, tipicamente incarnata dal nostro rapporto con gli schermi dei computer, degli smartphone, dei tablet, produce in noi il “cartesiano” sentimento di agire in solitaria. Tutti i “messaggi” che riceviamo «in quanto risultato di operazioni algoritmiche sono automatizzati e non hanno un firmatario identificato». Lo schermo fa letteralmente schermo al dialogo, alla possibilità di discutere e di negoziare. Cosicché, «la natura del gesto, oggi divenuto normale in ambito professionale, di posizionarsi di fronte a uno schermo» rinvia l’homo digitalis «unicamente a sé stesso e alla propria responsabilità in una sorta di nudità senza appello». Una mobilitazione totalitaria che investe non solo il lavoro ma, sempre più, l’insieme delle nostre vite quotidiane (É. Sadin, 2022). Senza tregua, senza aria, senza fiato, come se le cose si fossero bloccate, se non ci fosse più spazio per quell’animale del possibile che è l’uomo di fronte ad un ordine che assume i contorni di un ordine naturale, eterno, inscalfibile.

 Il muskismo che è in noi

A inizio novembre 2023, si è svolta in Gran Bretagna una due giorni sull’intelligenza artificiale organizzata da Rishi Sunak.  Un evento nel quale il Primo ministro del Regno Unito non si è limitato a sedere al tavolo con un CEO, ma ha intervistato Elon Musk per avere lumi su come procedere per regolamentare l’IA, su quali sono i suoi rischi e le sue opportunità. Un politico che intervista un CEO è un evento che non desta più meraviglia. Musk non è solo uno degli uomini più ricchi al mondo, quello delle auto elettriche Tesla, quello degli Shuttle che portano i “turisti” nello spazio. Oggi Musk ambisce ad essere un attore geopolitico assoluto. Quello dei satelliti Starlink che offrono Internet agli Ucraini sotto assedio degli hacker russi, quello che decide se fornire o meno la connettività. Un Capo di Stato, di uno Stato che non ha confini. Un guru, un visionario, che può parlare da pari dall’alto con tutti. Leader democratici e autoritari lo interpellano come fosse un oracolo, una fonte di saggi consigli sull’essere umano e di profezie sul domani (https://legrandcontinent.eu/it/2023/11/06/il-potere-geopolitico-di-elon-musk-deve-essere-tenuto-sotto-controllo-una).  Non è un caso che la conferenza tenuta in Gran Bretagna fosse incentrata sui “rischi esistenziali” dell’IA. «Cosa succede se l’IA diventa generale e super intelligente?». Cosa succede se l’IA supererà nel giro di uno-due anni l’intelligenza umana? L’ “inventore” delle auto elettriche dice di avere la ricetta giusta per questi “rischi esistenziali”. Un “megalomane”, un “pallone gonfiato”? Può darsi. Ma questo è il problema minore, quello maggiore è che riteniamo degne di attenzione le sue profezie, le sue ricette. Il problema con la P maiuscola non è Musk, ma il muskismo che è in noi.

 

Il muskismo non è un deus ex machina. È il “deus” della neo-filosofia dell’umano della Silicon Valley. Nessuno ci aveva detto, si è ironicamente osservato, che la fine del mondo sarebbe stata la cosa più noiosa che potessimo immaginare: si devono leggere dati complicati, ascoltare notizie provenienti da città che in Occidente non abbiamo mai sentito nominare, misurare i gradi e i centimetri di oceano. E poi stare dietro agli anziani, agli infermieri in burnout, impastare la pizza per tutta la famiglia e seguire lezioni universitarie su Zoom. Il futuro arriva, noioso, e bisogna farci i conti. A farlo si candida una ideologia – quella degli apostoli della Silicon Valley: “filosofi” di Oxford, miliardari, ideologi e guru degli ultraricchi – che si fa strada non solo tra grandi fondazioni filantropiche, aziende multinazionali, istituzioni, ma anche nel senso comune. Il fascino che questa neo filosofia esercita è comprensibile. Mentre il mondo arranca tra clima impazzito, povertà, epidemie, guerre e diseguaglianze crescenti, questo piccolo e agguerrito gruppo di potenti sostiene di avere in tasca le soluzioni scientifiche ai dilemmi esistenziali dell’umanità. Promette di farci prosperare tra millenni, addirittura milioni di anni. Il suo nome è lungotermismo (I. Doda, 2024).

 

In una società sempre più povera di relazioni, i lungotermisti ci dicono che siamo tutti uniti da un destino comune, ci parlano di una fiorente civiltà multi planetaria. Riabilitano l’utopia, restituiscono miticità al tempo lungo che loro stessi – gli apostoli della Silicon Valley – hanno cancellato in nome della mistica del tempo reale. E Musk, tra le tante cose, è un adepto anche del longtermism, uno che si (pre)occupa dell’uomo come genere, del suo bene in quanto tale. Un “abilitatore del progresso” investito da una missione superiore, salvifica, epica, non diversa, da quella del Ciclo delle fondazioni con cui Asimov dipinge i suoi robot. Esseri perfettamente razionali cui viene programmato all’interno del codice genetico l’idea che non possano fare del male all’umanità. Ma, soprattutto, che per farlo possano violare tutte le regole che ne ostacolano la salvezza. Perché l’imperativo è quello di massimizzare il bene dell’intera umanità, non solo di quella esistente ma anche di quella che esisterà. Un argomento con cui Musk giustifica le sue mire di colonizzare lo spazio, al fine di consentire la nascita di miliardi di individui del cui benessere prendersi cura da subito. In vista del ‘nobile fine’ di non cadere nella “barbarie” della fine della civiltà umana (F. Chiusi, 2023).

 Umano, troppo umano

I lungotermisti e Musk proiettano la vita umana milioni di anni nel futuro, promettono un’umanità multi planetaria florida e felice. A patto che seguiremo qui e ora una logica iper-utilitarista, la loro. Il lungotermismo e il suo predecessore, l’altruismo efficace, “suggeriscono” di risolvere qualsivoglia sfida in modo completamente apolitico. Annullano il conflitto, persino il dilemma: basta fare tanti soldi e donarli alle cause giuste, e con la magia di un’equazione matematica si possono affrontare tutte le grandi sfide del mondo. Si può fare del bene, si può agire in maniera etica, in modo perfettamente efficace. Non serve chiedersi da che parte si sta. Le risposte ai dilemmi del nostro tempo stanno in una formula, in valori concreti e misurabili. Stanno nelle quantità: di soldi, di crescita, di persone che possono abitare la Terra o il cosmo senza mettere in nessun modo in discussione lo status quo dell’ordine tecno capitalista. Un umanitarismo futurista e utilitarista che postula che nel nome del benessere futuro di un numero infinito di individui qualunque numero finito di individui è qui e ed ora sacrificabile (F. Chiusi, 2023). Un orrore con la “o” minuscola, se fossimo certi che le nostre democrazie occidentali possiedano ancora degli antidoti efficaci per combattere questa deriva; se fossimo certi che l’orrore che questa “religione” suscita ancora in coloro che conservano memoria delle tragedie del XX secolo fosse universalmente, largamente, condiviso.

 

Il problema con la “P” Maiuscola che abbiamo è che a ritenere degne di considerazione le ‘verità ‘di Musk non sono solo dei fanatici di una setta esoterica e millenarista. Il brodo di cultura del muskismo è in ognuno di noi, nella nostra quotidiana impotenza di fronte a un mondo un passo più in là della nostra comprensione. Un mondo in cui fare individualmente la cosa giusta ci appare impossibile e, in fin dei conti, inutile. Possiamo certo decidere di consumare meno acqua quando facciamo la doccia, di diventare vegetariani, di usare meno l’automobile, di fare volontariato. Tuttavia, la realtà è troppo complessa per arrivare a comprendere la vasta rete di conseguenze delle nostre azioni. Mentre digito sulla tastiera sto utilizzando energia elettrica che proviene in parte da fonti fossili estratte con conseguenze disastrose sull’ambiente. L’applicazione cloud che uso per scrivere è alimentata da data center che consumano una spaventosa quantità di energia. I metalli presenti nelle batterie del mio smartphone sono estratti da multinazionali occidentali in Paesi del continente africano, nel totale spregio dei diritti umani basilari. Molti beni di consumo comuni sono prodotti da persone che lavorano senza tutele, venduti da colossi del commercio mondiale che hanno potere di negoziare alla pari con Stati nazionali (I. Doda, 2024).

 

È precisamente all’altezza di questa “crisi esistenziale”, che la narrazione “alternativa” di Musk si colloca. «Forza uomini», il suo motto, è un fervente invito a sondare il futuro al fine di partecipare ad una esaltante avventura collettiva. Il cui visionario punto di caduta è l’occupazione di Marte, un luminoso spazio extra-terrestre nel quale le promesse ancora non mantenute dalle tecnologie digitali di un mondo libero da ogni difetto (a disposizione di coloro che intendono realizzare profitti) possano pienamente realizzarsi. Diventare una specie multi planetaria per massimizzare la possibilità di sopravvivenza ed evitare che un evento cataclismatico causi la scomparsa di quella che è l’unica specie altamente intelligente presente nell’universo. Da qui l’inferenza che non è importante solo che l’essere umano sopravviva, è fondamentale anche che si moltiplichi il più possibile. E poi, l’ulteriore inferenza, che non ha senso battersi per il cambiamento climatico, per ridurre diseguaglianze e marginalità, per occuparsi delle conseguenze che la diffusione dell’intelligenza artificiale genera nel campo della sanità, del welfare, del lavoro. Fare profitti qui ed ora lucrando sulle paure, sul nostro senso di impotenza. L’ultima frontiera della guerra all’umano. Agli apostoli della Silicon Valley piace vincere, vincere facile. Una “paranoia” che fa disinvoltamente dire loro che salvare una vita in un paese ricco è più importante che salvarne una in un paese povero, perché la vita salvata nel primo ha maggiori probabilità di creare valore nel lungo termine e, quindi, di salvare a sua volta altre vite. Umano, troppo umano.

 Perché non ci ribelliamo?

Non c’è da meravigliarsi, dunque, se tutti i “buoni propositi” dei lungotermisti alla Musk di essere responsabili, di porre dei limiti allo sfruttamento infinito del lavoro e delle risorse della Terra, vengano, un minuto dopo la loro proclamazione, disinvoltamente messi da parte. In linea di principio, i lungotermisti dicono di temere un eccesso di tecnologia. Ma prestissimo scatta in loro una coazione a ripetere, la fede nel credo che solo con un suo uso crescente si possa governare il mondo. “Naturale”, mettono in forma i loro interessi e le loro umane paure, rifugiandosi nella favola che sia a portata di mano la possibilità di pianificare il loro personale destino e quello del mondo.  Perché ci credono e, soprattutto, perché in tanti credono in questa capacità magica del tecno-capitalismo? Semplicemente perché è “vero”. Vero in senso normativo, come in sostanza aveva sostenuto nel 1966 Martin Heidegger in una fulminante intervista al direttore del Der Spiegel, pubblicata dieci anni dopo con il titolo Ormai solo un dio ci può salvare: «Tutto funziona. Questo è appunto l’inquietante, che funziona e che il funzionare spinge sempre oltre verso un ulteriore funzionare. Tutto ciò che resta [sono problemi] di pura tecnica». Heidegger non era, a differenza di ciò che pensa Maurizio Ferraris, un pazzo. Sapeva bene che gli uomini hanno sempre affinato la tecnica come elemento di razionalizzazione e affidato ad essa la loro vita. Sapeva bene che la società moderna è orientata ad una tecnica che funziona e che questo suo funzionare è per gli uomini una impareggiabile “rassicurazione” per il loro “antropologico” desiderio di risolvere i problemi. Ad inquietarlo era che la tecnica in sé non prevede altro che l’azione di calcolo e che se resta in campo solo questo codice «tutto ciò che resta [sono problemi] di pura tecnica» (M. Heidegger,2011).

 

Giunti a questa soglia, la tecnica non ha più bisogno per funzionare degli uomini che diventano – ha ripetutamene osservato Umberto Galimberti – funzione di un apparato, di «un ingranaggio che serve all’apparato per il suo funzionamento. L’apparato analizza, valuta, razionalizza, assegna ruoli, premia e penalizza (…) secondo regole che non richiedono l’essere umano. L’apparato creato dall’uomo non necessita dell’uomo per rimanere in vita e vivere» (E. Limone, 2013). L’IA non solo per funzionare può non aver bisogno dell’essere umano, ma gli uomini sono «in grado di risolvere problemi o svolgere compiti con successo, senza la necessità di essere intelligenti» (L. Floridi, 2020). Con tutte le conseguenze socio-antropologiche che ciò comporta.: la razionalità digitale nella misura in cui marginalizza l’apprendimento discorsivo (gli algoritmi imitano ma non argomentano: Byung-Chul Han, 2023) marginalizza l’intelligenza relazionale che viene rimpiazzata dal sostituto funzionale della continua possibilità di connettersi. Soluzionismo e concretismo: se google maps mi porta a destinazione non mi preoccupo di ciò che perdo in termini di esperienza. Salvo, se il mio cellulare “non funziona”, scoprirmi totalmente disorientato.

 

Ad inquietare Heidegger è che la pretesa della tecnica a escludere a priori tutto ciò che non è funzionale faccia venir meno le “passioni” degli umani per ciò che è giusto e ingiusto, buono o cattivo, bello o brutto.  Heidegger non aveva forse del tutto intravisto l’ancor più inquietante evenienza che gli uomini risolvano problemi senza essere intelligenti (anche nel limitato senso in cui lo è l’IA). Un cambio di passo che non è da imputare esclusivamente all’“ontologico” funzionalismo della tecnica. A differenza delle rivoluzioni scientifiche del passato che hanno prevalentemente riguardato la capacità del genere umano di creare manufatti per meglio controllare un ambiente ostile, l’odierna razionalità tecnoscientifica non si propone semplicemente di dotare gli uomini di macchine che ne agevolano l’esistenza (homo faber), ma li espropria della capacità di servirsi della macchina (homo sapiens) per accrescere la loro intelligenza relazionale.  E non soltanto nel senso che Google Dream emula la visione umana, che le IA di terzo livello producono in modo autonomo dipinti e brani musicali, ma altresì nel senso di comandare gli uomini ad agire come delle macchine.

 

Ascoltiamo con attenzione il messaggio veicolato dal continuo, tambureggiante, marketing sulle magnificenze della società digitalizzata. La narrazione su “la forza delle connessioni” – il martellante mantra che occupa le nostre giornate – conferisce al processo di digitalizzazione della società e all’uso dell’IA in tutte le attività umane il prisma di una rivoluzione della quale siamo tutti partecipi e che sta meravigliosamente migliorando la nostra vita ‘relazionale’. In questa narrazione non c’è niente di innocente. Essendo la digitalizzazione rappresentata come il frutto esclusivo di una rivoluzione tecnologica, ne consegue ineluttabilmente che le più autentiche e vitali innovazioni non possono che essere quelle tecnologiche. E che le altre innovazioni – sociali, culturali, artistiche – che per lungo tempo la tradizione occidentale ha considerato altrettanto essenziali per il progresso e la civilizzazione dell’umanità vanno considerate come secondarie, se non irrilevanti. Assumere che l’innovazione per eccellenza sia quella tecnologica presuppone e ingenera la convinzione «che la tecnologia procede nel suo sviluppo in maniera pressoché autonoma», che il potere tecnologico sia, “legittimamente”, a monte, un potere legibus solutus. E che è bene, dunque, a valle, che gli investimenti nella formazione vadano «prevalentemente, se non esclusivamente, a favore di attività creative e produttive direttamente ed esplicitamente connesse con lo sviluppo tecnologico».  Che è bene sacrificare abilità e capacità che provengono da altri saperi. Che è bene tagliare, in materia di istruzione e formazione, «i costi di tutto ciò che non prepara futuri tecnologi e tecnici» (S. Silardi, 2023).

 

Nulla di neutrale e di innocente a valle, perché nulla di neutrale e di innocente v’è a monte. Perché, allora, non ci ribelliamo e, anzi, diamo crescente credito alla razionalità digitale? Innanzitutto, perché il suo dominio totalitario è velato dal “fatto” che le conversioni tecniche delle scoperte scientifiche aprono oggi nuovi scenari di azione, allargano gli orizzonti di scelta. L’avvento di Internet che ha allontanato il problema della distanza fisica. Le tecniche di riproduzione assistita che consentono la riproduzione senza rapporto sessuale. E le promesse di un futuro in cui la quasi totalità delle malattie verranno sconfitte, di una vita attiva molto più lunga, di un migliore controllo dell’ambiente. Una fiera delle meraviglie alla quale è difficile resistere. L’unica libertà visibile è oggi, per tanti, nelle prestazioni delle tecnologie digitali. È a questa altezza che si colloca la sfida politico-antropologica che abbiamo di fronte.

 Che fare?

Per contrastare l’egemonia del tecnocapitalismo non basta fare appello ai buoni sentimenti. Dobbiamo fare profondamente i conti con una fenomenologia che viaggia a velocità supersonica nella direzione di quell’Agere sine Intelligere sul quale si è qui ripetutamente richiamata l’attenzione. La verità digitale ha portato allo scoperto elementi della nostra antropologia a lungo addomesticati anche nel corso della modernità. Lo dico a pelle, senza pretesa di scientificità. Si tratta di una considerazione frutto della mia poco accademica tentazione di guardarmi in giro. E vedo in giro, per tornare ancora una volta al discorso di Maurizio Ferraris, poca gente desiderosa di «stabilire dei fini e deliberare coerentemente» e molta gente desiderosa di “copiare”. Desiderosa di delegare in toto funzioni e attività un tempo tipicamente umane (tecniche, cognitive, emotive, esistenziali) al potere taumaturgico di una macchina che le riduce a sua goffa appendice. E mi torna alla mente la provocatoria domanda che un giovane manager ha posto nel 1981 a Shoshana Zuboff: «Lavoreremo tutti per una macchina intelligente o sarà quella macchina ad essere usata da persone intelligenti?» (S. Zuboff, 2019,).

 

La “profezia” di quel giovane manager è oggi, in larga misura, ciò che accade nell’infosfera.  Mi affido alla penna tutt’altro che apocalittica di Tomas Chamorro-Premuzic. Internet, è la sua realistica constatazione, è un sistema di interruzione. Conquista la nostra attenzione per strapazzarla.  E ricorda, a supporto di questa fulminante immagine, che oggi il 62 percento degli studenti usa i social media durante le ore di lezione. Che gli studenti universitari passano dalle otto alle dieci ore al giorno sui siti di social media. Che il tempo trascorso online è correlato inversamente con le prestazioni accademiche. Che i dati delle ricerche collegano livelli più elevati di uso dei social media con livelli più elevati di distrazione, che a loro volta abbassano i risultati accademici. Notifiche, messaggi, post, like e altri feedback gratificanti sequestrano l’attenzione degli studenti e creano uno stato costante di iper-vigilanza, interruzione e distrazione che producono livelli significativi di ansia, stress e sintomi da astinenza. E questo perché si affidano a processi decisionali intuitivi o euristici, facilmente preda di distorsioni, stereotipi e pregiudizi, tutte cose che rendono i giovani – e, ormai, anche i meno giovani – di mentalità meno inclusiva. Mentre per avere una mente aperta, bisogna essere disposti a cercare attivamente informazioni che contraddicono i nostri stessi atteggiamenti (T. Chamorro-Premuzic, 2023).

 

Vale per tutti? Vale allo stesso modo? No. Lo stato costante di iper-vigilanza e interruzione non colpisce tutti nell’identica maniera. Le persone “intelligenti” di cui parla Maurizio Ferraris provengono da famiglie con un denso back ground culturale e frequentano “scuole di eccellenza” che non sono quelle dalla maggioranza dei loro coetanei. Per i quali è sempre più improbabile diventare persone “intelligenti” nel senso in cui ne parla il manager del libro di Shoshana Zuboff: non entreranno a fare parte della casta dei funzionari dell’intelligenza artificiale. E non v’entreranno perché ad esse è stato “insegnato” a non essere curiose. Eppure, osserva Tomas Chamorro-Premuzic, più la curiosità è rara più è ricercata, esaltata come una competenza cruciale per l’ambiente di lavoro moderno, come un predittore significativo della possibilità di ottenere e conservare un posto di lavoro attraente. I posti di lavoro futuri diventano meno prevedibili, e un maggior numero di organizzazioni assumerà le persone sulla base di quello che potrebbero apprendere, non di quello che già sanno. Chi è più disposto a sviluppare nuove competenze è meno probabile che verrà sostituito dall’automazione. Viceversa, se ci concentriamo – come fanno oggi la maggior parte delle scuole – sull’ottimizzazione delle cosiddette performance, il nostro lavoro finirà per consistere di azioni ripetitive e standardizzate dettate da una macchina che già le esegue meglio. E questo sta già determinando, aggiunge Yuval Noah Harari, l’apparizione di una «classe globale inutile».

 

La combinazione di biotech e tecnologie digitali potrebbe giungere a un punto in cui sistemi e algoritmi ci capiscono meglio di quanto comprendiamo noi stessi. E «nel momento che hai un qualcuno di esterno che ti capisce meglio di quanto tu ti capisca, la democrazia liberale è condannata» a diventare simile a uno spettacolo di marionette.  Nei prossimi decenni – osserva Harari – dovremo affrontare la discriminazione individuale e potrebbe essere basata su una buona valutazione su chi sei. Se gli algoritmi impiegati da un’azienda cercano il tuo profilo Facebook o il tuo DNA, potrebbero capire con precisione chi sei. «Non sarai in grado di fare nulla per questa discriminazione, prima di tutto perché sei soltanto tu. Non discriminano il tuo essere perché sei ebreo o gay, ma perché sei te stesso» (Yuval Noah Harari, 2024). A fronte di questi scenari Harari auspica una rinnovata moralità che “regolamenti” il lato pericoloso delle nuove tecnologie. E chiama in causa storici, filosofi, sociologi, diffidando di corporazioni, ingegneri, persone che lavorano nei laboratori che si concentrano esclusivamente sui benefici della ragione digitale. Temo si tratti di una impresa che va attualmente al di là delle possibilità delle scienze umane. Trovo più convincente l’orizzonte indicato da Èric Sadin: «(…) presto ci renderemo conto che abbiamo bisogno molto più di mobilitazione che di regolamentazione. È stato il caso degli sceneggiatori di Hollywood che si sono resi conto che il loro lavoro era in pericolo e così nel maggio 2023 si sono opposti in gran numero, con coraggio e determinazione, per vincere la loro causa. Non si sono semplicemente affidati alla regolamentazione, che per salvare capre e cavoli li avrebbe mandati al patibolo. Sarebbe bene che tutte le professioni messe a rischio dall’IA generativa (giornalisti, grafici, traduttori, avvocati, mesici, professori, ecc.) si mobilitassero a livello nazionale, ma anche internazionale, per gruppi e dicessero in nome delle loro rivendicazioni cosa sono pronti ad accettare e cosa rifiutano categoricamente. Sarebbe bene che lo facessero senza attendersi qualcosa, anticipando il legislatore, che spesso è cieco di fronte a tante realtà della nostra vita quotidiana» (È. Sadin, 2024). Fare diventare le mobilitazioni collettive il motore di una consapevolezza più vasta è la strada giusta. Non esistono scorciatoie. Primo, ricostruire la genealogia del dominio della tecnoscienza. Secondo, mobilitarsi contro di esso. Infine, “lavorare” contestualmente a mettere in forma un’altra antropologia, riabilitare l’essere relazionale dell’uomo contro il suo essere permanentemente connesso e calcolante. Perché se è vero che il pensiero, senza il controllo del calcolo, è delirio, il calcolo, sottratto al governo della vita pensante, è insensatezza (A. Masullo, 2011).

 Conclusivamente

La guerra all’umano è la madre di tutte le guerre. Le tecnologie digitali agite dal tecnocapitalismo irrompono in un “mondo” che ha già ampiamente interiorizzato la convinzione che “stabilire dei fini e deliberare coerentemente” è una qualità superflua. Le tecnologie digitali lasciate libere di dispiegarsi incentivano all’ennesima potenza questa convinzione. L’esposizione ripetuta e intensiva alle tecnologie on line sta già cambiando il nostro cervello, spostando l’attività neurale dall’ippocampo (l’area del cervello coinvolta nel pensiero profondo) verso la corteccia prefrontale (la parte del cervello coinvolta nelle transazioni rapide, subconsce). Non esistono risposte individuali per combattere la guerra all’umano, per contrastare l’etica dell’essere permanentemente connessi. La tecnofobia è astrattamente un’opzione allettante, ma ha un terribile costo sociale poiché ci trasforma in cittadini inutili e improduttivi. Essere offline equivale ad avere un’esistenza totalmente ignorata, come l’albero secolare che crolla nella foresta quando non c’è nessuno a sentire il rumore dello schianto. Bloccare le app o limitare l’accesso a Internet è un compromesso intermedio, dato che ci consente di evitare almeno alcune “distrazioni digitali”. Tuttavia, è difficile rinunciarvi (T. Chamorro-Premuzic, 2023. L’intelligenza artificiale rende in molti casi la nostra vita molto comoda. Controlliamo l’app delle previsioni del tempo prima di scegliere che cosa indossare; usiamo Vivino per vedere la valutazione data a un vino dagli utenti, senza dover pensare troppo e al contempo cercando di aumentare la soddisfazione per le nostre scelte. In questo modo, l’AI ci esime dalla sofferenza mentale causata dall’eccesso di scelte. Non è affatto peregrina l’idea di un mondo futuro – anzi è già una realtà – in cui chiederemo a Google cosa studiare, dove lavorare, chi sposare. Così, riduciamo la nostra vita all’ovvio, al monotono e al ripetitivo, e il modello che abbiamo di noi crescerà rapidamente in potenza predittiva. Se il nostro modello è quello di un essere umano che passerà le giornate a guardare vari schermi e a fare clic, tap e scorrere pagine diverse in modo sempre più ripetitivo, il computer è oggi in grado di capire, meglio di noi, chi siamo, chi siamo diventati. D’altra parte, sostituire una versione spiacevole della realtà con una che invece è rassicurante come quella che ci propongono le tecnologie digitali, flirta con il modo indulgente e tollerante in cui oggi vediamo noi stessi. Per combattere le nostre stesse autoillusioni, dovremmo avere meno fiducia nelle nostre idee, opinioni e conoscenze. Credere che fare domande – essere disposti ad accettare feedback dagli altri che colmano la lacuna fra come noi ci vediamo e come ci vedono gli altri – sia più importante che ottenere risposte. Ma è un compito impegnativo e l’era dell’AI ha annacquato i feedback facendoli diventare un rituale senza senso, ripetitivo e semiautomatico che produce solo circuiti di retroazione positiva. Quando pubblichiamo qualcosa su Facebook, Snapchat, TikTok, Twitter o Instagram, non è difficile ottenere qualche “mi piace”, perché mettere un like richiede relativamente poca energia e ha un costo molto basso. La maggior parte di noi metterà il “mi piace”. Anche se il feedback è fasullo, ciascuno di noi sa che è probabile che venga ricambiato in futuro. Questo rende il feedback di gran lunga meno utile di quello che dovrebbe essere, in quanto siamo incentivati a ignorare i pochi feedback critici che riceviamo. Essere curiosi o di mente aperta è più facile a dirsi che a farsi. ‘Distrarci’ dai social media tende a indurre stress, come tenere lontani i fumatori o i bevitori dalle sostanze da cui sono dipendenti (T. Chamorro-Premuzic, 2023). D’altra parte, essere permanentemente connessi ci rende complici della guerra all’umano. Nessun Dio ci salverà. Solo una mobilitazione collettiva può farlo.

Riferimenti bibliografici

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