IDEATO E DIRETTO
DA ANTONIO CANTARO
E FEDERICO LOSURDO

IDEATO E DIRETTO DA ANTONIO CANTARO E FEDERICO LOSURDO

L’Africa, lontana e vicina

Carestia, grano come “arma di guerra”, concorrenza al ribasso tra indigeni e stranieri. L’esodo verso l’Europa è destinato a crescere, quale che sia l’esito del conflitto in corso

Viviamo tempi davvero scuri in cui la propaganda non risparmia niente e nessuno, fino a trasformare persino il grano in un “arma di guerra”. Vale la pena, allora, fare un salto indietro nella storia, per provare a comprendere le ragioni strutturali (non solo quelle contingenti legate al conflitto russo-ucraino) della crisi alimentare globale. Una crisi che rischia di provocare un esodo “biblico” dall’Africa verso l’Europa.
Dobbiamo risalire alla dichiarazione Schumann del 9 maggio 1951, il documento fondativo del processo d’integrazione sovranazionale, in cui si indicava come obiettivo essenziale delle future istituzioni comuni “lo sviluppo del continente africano”. I padri fondatori dell’Europa erano ben consapevoli che la prosperità economica, che si voleva perseguire mediante l’edificazione del mercato comune, andava in parte re-distribuita nei paesi africani che in quel momento uscivano faticosamente dal loro passato coloniale. Passato del quale i paesi europei serbavano grande responsabilità morale.

Ballare al proprio ritmo
Il processo di decolonizzazione non sarebbe stato pensabile senza la presenza dell’Unione sovietica, così come la costruzione in Europa dello Stato sociale ‘massimo’ non sarebbe stato possibile al di fuori della dialettica tra i due blocchi politico-istituzionali, economico-sociali e culturali che si sono fronteggiati nel corso della Guerra Fredda.
Il modello di capitalismo democratico post-seconda guerra mondiale, che rifletteva tale dialettica, si incentrava sul pilastro monetario di Bretton Woods e su quello commerciale del GATT. All’interno di quest’ordine economico, il principio della progressiva apertura al commercio internazionale era bilanciato dal principio dell’intervento pubblico in economia e dal controllo del movimento dei capitali. Gli Stati nazionali mantenevano, infatti, il controllo sulla circolazione dei fattori produttivi all’interno del proprio territorio. In tale maniera, potevano proteggere dalla concorrenza internazionale le industrie e produzioni strategiche, al fine di preservare il proprio autonomo modello di sviluppo. Ciascuno Stato nazionale, insomma, poteva “ballare al proprio ritmo” nel quadro della globalizzazione economica.
Ciò ha avuto un impatto significativo sulla possibilità dei paesi africani di perseguire l’obiettivo della sovranità alimentare. Secondo una definizione corrente, essa concerne: “il diritto ad un prodotto alimentare sano e culturalmente appropriato attraverso metodi ecologicamente sostenibili, insieme al diritto di decidere il proprio cibo e i propri sistemi agricoli”.
La sovranità alimentare dà priorità alle economie e ai mercati locali e nazionali e permette agli agricoltori, ai pescatori e ai pastori, una produzione, una distribuzione e un consumo alimentare basati sulla sostenibilità ambientale, sociale ed economica. Essa garantisce che i diritti per utilizzare e gestire terre, territori, acque, semi, bestiame e biodiversità siano nelle mani di coloro che producono alimenti.

La mono-economia
Con il crollo del Muro di Berlino è venuto meno ogni freno alla pretesa egemonica neoliberale di elevare la razionalità del homo oeconomicus a razionalità esclusiva del mondo. Ad un pluralismo di modelli economici che aveva contraddistinto i Trenta gloriosi subentra un modello “mono-economico” incentrato sugli imperativi categorici della stabilità finanziaria e della concorrenza competitiva. È questa la ricetta unilaterale che gli organismi del Washington Consensus, FMI e Banca mondiale, da decenni prescrivono agli Stati in via di sviluppo, quale pre-condizione per accedere agli aiuti finanziari.
Il “dogma” dei sacerdoti della globalizzazione a trazione neoliberale è che la concorrenza tra individui, imprese ma anche tra gli Stati garantisca naturalmente l’allocazione più razionale ed efficiente del benessere collettivo e che gli Stati nazionali debbano solo provvedere a garantire il buon funzionamento dell’intelaiatura entro la quale si svolgono gli scambi commerciali.
Quest’ideologia ha inciso profondamente sulla sovranità alimentare dei paesi in via di sviluppo e, segnatamente, di quelli africani. Ad un modello tarato su piccoli agricoltori che operano su base locale, ecologico e attento alla sostenibilità si sostituisce un modello industrializzato basato su importazioni intensive di prodotti chimici ed esportazioni di prodotti agricoli che coinvolgono grandi latifondi ed è dominato da grandi aziende multinazionali.
Per effetto di questa trasformazione, la soddisfazione del primo e basilare diritto di ogni essere umano, il diritto al cibo, ha finito per dipendere, innanzitutto, dal buon funzionamento delle catene globali di approvvigionamento e distribuzione. Senza contare che la tendenziale omogeneizzazione dei consumi ha sacrificato irreparabilmente le tradizioni alimentari locali cui si lega una forte dimensione simbolica e socio-culturale.

De-globalizzazione?
Il tema della sovranità alimentare, colpevolmente rimosso dalle classi dirigenti europee, è ritornato prepotentemente alla ribalta nell’ultimo decennio caratterizzato da una crisi di legittimità del modello di globalizzazione neoliberale. Si profila all’orizzonte, se non proprio un processo di de-globalizzazione, una riconfigurazione della globalizzazione sulla base di grandi blocchi regionali.
Un primo segnale in questa direzione provenne dalla crisi economico-finanziaria, generata dal fallimento repentino della più grande banca d’affari statunitense nel 2007. Anche allora ci fu un aumento esponenziale dei prezzi del pane, anche come conseguenza di una finanza spregiudicata disposta a speculare persino sul grano. Ne seguì la “primavera araba”: l’ondata di rivolte popolari contro le autocrazie arabe “laiche”, sostenute dall’Occidente. Primavera che, iniziata sotto la stella ben augurante della rivoluzione dei Gelsomini in Tunisia nel 2011, sprofondò nel buco nero della guerra islamista in Siria, l’inizio della “guerra mondiale a pezzettini”.
A sua volta, l’emergenza pandemica ha accelerato la crisi della globalizzazione neoliberale. Un patogeno infinitesimale ha ostruito le catene transnazionali di estrazione, produzione e distribuzione del valore. A ciò si aggiunge una distribuzione diseguale dei frutti della terra, la mancanza di adeguati investimenti nel settore agricolo, i dazi occidentali, le conseguenze del cambiamento climatico e l’aumento dei conflitti in diverse zone del pianeta.
A pochi giorni dall’inizio delle ostilità in Ucraina, si svolse un vertice tra i paesi dell’Unione europea e dell’Unione africana. Nel documento conclusivo non vi è traccia della questione alimentare e del diritto al cibo, mentre viene sottolineato l’impegno a favorire la transizione ecologica e digitale anche del continente africano. Come se la ricetta europea adottata con il Next Generation potesse applicarsi automaticamente anche all’Africa. Senza prima risolvere il problema preliminare della sussistenza alimentare dei popoli. Una clamorosa illusione, come si incaricherà di mostrare la guerra scatenata pochi giorni dopo dalla Russia in Ucraina.
Il blocco del grano (e di altri cerali) nei porti sul Mar nero, insieme al blocco delle esportazioni russe di fertilizzanti, essenziali per il buon esito dei raccolti, rischiano di creare un “effetto domino”: carestie, aumento del prezzo del pane, destabilizzazione di governi già assai fragili, migrazioni di massa, concorrenza al ribasso tra lavoratori indigeni e stranieri e così via. Effetti che dovrebbero indurre l’Unione europea a difendere un autonomo interesse strategico e a non seguire l’amico statunitense nella sua avventura contro la Russia, sullo sfondo del vero conflitto futuro con la Cina.

Solidarietà e ipocrisia europea
Ma l’Unione europea ha gli strumenti politici e normativi adeguati ad affrontare un simile esodo?
L’obiettivo prioritario del diritto europeo in materia di immigrazione e asilo è di realizzare una solidarietà tra gli Stati membri e una ripartizione degli oneri e responsabilità legate dall’accoglimento. Almeno così “recitano” le disposizioni dei Trattati (art. 78 Trattato sul funzionamento dell’Unione europea) e i principali documenti dell’Unione europea. Ma è lecito chiedersi se questa solidarietà tra gli Stati membri si traduca anche in una effettiva solidarietà dell’Unione europea nei confronti del migrante.
La risposta non è univoca. Si potrebbe dire che non tutti i migranti e richiedenti asilo sono eguali di fronte alla legge (europea). E la tragica guerra in corso ce ne ha fornito un’altra amara testimonianza.
L’Unione europea e gli Stati membri hanno portato avanti un notevole sforzo di accoglienza nei confronti degli sfollati provenienti dalle zone di guerra. Per la prima volta, è stata attivata la direttiva sulla protezione temporanea (2001/55/CE) con un’apposita decisione del Consiglio europeo. La decisione attribuisce un permesso di soggiorno di un anno (a prescindere dall’accertamento della domanda di asilo) con la possibilità di accedere ad un lavoro e alle forme basilari di protezione e assistenza sociale. Tale status non viene, tuttavia, riconosciuto a “tutti” i profughi di guerra, ma solo a specifiche “categorie” di persone: ai profughi bianchi indoeuropei.
Lo status di protezione temporanea, infatti, non si applica “alle persone apolidi e ai cittadini dei paesi terzi diversi dall’Ucraina che non possono dimostrare che soggiornavano legalmente sulla base di un permesso di soggiorno permanente” (in questi termini la richiamata decisione UE). Per coloro che sono esclusi dalla protezione temporanea, esclusione rimessa, in ultima istanza, alle valutazioni discrezionali delle autorità degli Stati membri, si aprono le porte della detenzione amministrativa prodromiche all’espulsione.
Come non vedere, allora, la contraddizione di uno Stato membro, come la Polonia che ha accolto circa 3 milioni di profughi ucraini, mentre, allo stesso tempo, ha chiuso arcignamente le porte d’ingresso ai profughi di altre guerre occidentali, lasciandoli, letteralmente, morire di fame e freddo ai confini con la Bielorussia?
In definitiva, l’esempio dato sulla selettività delle procedure di accoglienza dei profughi dall’Ucraina non è un buon viatico rispetto all’esodo epocale dall’Africa che attende l’Europa, la quale non sembra culturalmente attrezzata per comportarsi da attore globale, esercitando l’onere dell’egemonia (regionale), ossia di farsi carico delle conseguenze delle proprie scelte. Non basterà giustificarsi dicendo “ce lo ha chiesto l’America”: andava piuttosto indagato cosa ci chiedeva e ci chiede l’Africa.

Stampa o salva l’articolo in Pdf

Newsletter

Privacy *

Ultimi articoli pubblicati