L’ora di Maastricht
Qui le varie fasi e stagioni vengono accuratamente dissezionate nei loro principali caposaldi e assunti ideologici, grazie soprattutto ad un vastissimo apparato bibliografico. E così vengono richiamate le varie teorizzazioni della Trilateral o di Mont Pelerin. Scorrono figure limpide, quali quelle di Guido Carli e dell’apparato di Bankitalia, oppure decisamente più oscure e inquietanti: è il caso di Gelli e della complessa macchina della P2. Più lontani, quasi da sfondo sfocato, rimangono grandi rivolgimenti. La svolta dell’89 con la caduta dell’URSS, la fine della cosiddetta Prima Repubblica fanno da fondali di una scena su cui cala una lente forse troppo concentrata a illimpidire la vicenda nazionale italiana. E così buona parte dell’attenzione è per le ricadute di scelte maturate tutte quasi come rivolgimenti culturali e ideologici di élites dimentiche o vogliose di liberarsi delle vesti o armature tradizionali. È l’ora di Maastricht e della scelta costituzionale lì adottata per la nuova Unione Europea, foriera dei rivolgimenti epocali lì adottati rispetto al nuovo ruolo assegnato alla moneta in rapporto alla politica e alle istituzioni comuni.
Uno sguardo più largo, alle vicende complessive che segnavano quel trapasso di secolo – prima tra tutte il ritorno della guerra, con il ridisegno ad esempio di ambiti e compiti della Nato – avrebbe forse aiutato nell’inquadrare meglio quell’atto di nascita e le sue debolezze intrinseche, quelle falle che oggi – all’indomani di crisi devastanti quali quella del Covid e dell’aggressione all’Ucraina – ci costringono seriamente ad interrogarci sul futuro dell’Unione europea.