IDEATO E DIRETTO
DA ANTONIO CANTARO
E FEDERICO LOSURDO

IDEATO E DIRETTO DA ANTONIO CANTARO E FEDERICO LOSURDO

Oltre il MES e le sue condizionalità, il debito comune

La dotazione di un debito comune europeo è la chiave per superare l'atteggiamento di persistente subalternità ai mercati e far valere compiutamente l'interesse strategico europeo. Altro che MES

La controversa riforma del MES, che l’Italia è chiamata a ratificare, acquista una prospettiva del tutto diversa dai consueti dibattiti giornalistici per chi abbia letto il recente libro “In defense of public debt” (B. Eichengreen e a., In defense of public debt, Oxford University Press, 2021), in cui un gruppo di autorevoli economisti statunitensi ha proposto una lettura originale del rapporto tra debito pubblico e mercati finanziari.

Debito pubblico e mercati finanziari

Il libro, anche con il supporto di una convincente ricostruzione storica, mostra che non sono stati i mercati finanziari a generare il problema del debito pubblico, ma all’inverso sono stati i debiti pubblici a generare le condizioni per la messa in opera dei mercati finanziari privati. Allo scopo di provvedere alle loro funzioni essenziali (campagne militari, costruzione di grandi reti infrastrutturali, industrializzazione e, dalla fine dell’Ottocento, lo sviluppo dei primi sistemi di Welfare state), funzioni che eccedevano le risorse ricavabili dalla tassazione interna, gli Stati moderni hanno iniziato ad indebitarsi, emettendo strumenti variegati di debito pubblico. Un ruolo fondamentale in tale ottica è stato svolto dalle “Banche centrali”, a cominciare dalla prima fondata nel 1694, la Bank of England. Essa – ci ricordano gli autori – agiva come un’impresa privata a responsabilità limitata che prestava liquidità al Re, ottenendo in garanzia una licenza ad emettere banconote aventi valore legale.

La trasformazione di questi titoli di debito in beni mobiliari liberamente trasferibili e garantiti dalla loro facile convertibilità in denaro, grazie all’intermediazione delle banche, ha dato il primo impulso allo sviluppo dei mercati finanziari “secondari” inizialmente di estensione locale, progressivamente sempre più internazionalizzati nella forma in cui li conosciamo oggi. I mercati finanziari, alimentati dal ricorso all’indebitamento pubblico in forme sempre più estese e “spericolate” da parte degli Stati nazionali, hanno assoggettato quest’ultimi a un potere di crescente condizionamento.

Si tratta di un condizionamento sempre più pervasivo, in forza di due concomitanti processi: la globalizzazione e la “democratizzazione” di questi mercati. Da un lato, gli Stati sovrani, specie quelli che si indebitano in una valuta straniera, hanno dovuto fronteggiare una controparte che si è organizzata su scala globale, creando comitati di obbligazionisti capaci di influenzare le politiche nazionali in vista dell’obiettivo prioritario di ottenere alla scadenza la restituzione dei bond in loro possesso. In caso contrario, lo Stato, oggi come allora, poteva incorrere in uno stop improvviso dei flussi di capitali con una destabilizzazione drammatica dell’economia interna.

Dall’altro lato, il collocamento dei titoli di debito pubblico presso una vasta platea di risparmiatori da parte delle banche e degli investitori istituzionali ha generato una dialettica interna al “popolo”. Mentre i cittadini-lavoratori garantiscono la lealtà ai propri rappresentati istituzionali in cambio del mantenimento dei livelli acquisiti di protezione sociale, i cittadini-risparmiatori hanno un interesse, sia pure mediato dalle grandi centrali finanziarie internazionali, alla prioritaria solvibilità del debito dello Stato.

Ne discende che lo Stato debitore finisce per essere condizionato nell’esercizio della sua sovranità economica, finanziaria e, in taluni casi anche di quella strettamente politica, come mostrano esempi più o meno recenti. In un passato non troppo lontano, questo condizionamento poteva esercitarsi persino con l’impiego della forza militare, come nel caso delle potenze europee “creditrici” che implementarono un blocco navale nei confronti del Venezuela dopo la rivoluzione del 1898, a garanzia dell’esazione del proprio credito (B. Eichengreen e a. cit., p. 77)

A partire dal collasso del sistema di Bretton Woods (1971), che nei trent’anni successivi alla Seconda guerra mondiale aveva garantito che il controllo della produzione del denaro fosse assunta da organizzazioni governative e sottratta ai “poteri selvaggi dei mercati, gli Stati creditori hanno adottato metodi più soft, preferendo delegare il compito di “esattore” ad organizzazioni sovranazionali, ammantate del velo tecnocratico dell’imparzialità. Il riferimento è sia alle pratiche di aiuti finanziari condizionati nel quadro dei programmi di salvataggio del FMI all’insegna del Washington consensus, sia alle più recenti pratiche sperimentate nell’Eurozona con il MES e la supervisione della Troika nei confronti della Grecia.

Che cos’è il MES?

Sarebbe sufficiente questo sintetico inquadramento storico-giuridico per comprendere la reale natura giuridica e politica del MES: altro che “momento hamiltoniano”, declinazione sovranazionale forte di un principio di solidarietà inter-statale, in grado di prefigurare l’approdo federale dell’Unione europea!

In primo luogo, il MES è stato istituito nel corso della crisi dei debiti sovrani in forme emergenziali (l’iniziale base normativa era, infatti, l’art. 122 TFUE) come un escamotage per cercare di colmare un buco di progettazione originario del Trattato di Maastricht del 1992 (Alessandro Mangia, 2023): l’aver accantonato, nel clima politico-culturale dominato dall’idea della “fine della storia”, la questione dirimente dell’autonomia fiscale dell’Unione europea e, specialmente, dell’UEM nei confronti dei mercati finanziari di cui anzi si postulava l’intrinseca razionalità.

In secondo luogo, il MES, istituito con un trattato internazionale tra i soli Stati dell’Eurozona in forza di una revisione in forma semplificata dell’art. 136 TFUE, rappresenta un inedito soggetto ibrido pubblico-privato (registrato con atto notarile in Lussemburgo) che opera attraverso le regole del diritto bancario e fallimentare e i cui funzionari sono coperti da immunità diplomatica pressoché assoluta (art. 32 Trattato MES). Si tratta di un organismo, collocato al di fuori delle istituzioni comunitarie, che per statuto è tenuto a perseguire il solo interesse dei creditori e dunque a non prendere in considerazione – o comunque a mantenere in subordine – gli interessi politici generali. La deroga necessitata al divieto di salvataggio posta dall’art. 125 TFUE ha avuto, infatti, come “corrispettivo” la “stretta condizionalità” degli aiuti finanziari all’implementazione di un programma di austerità e aggiustamento strutturale da parte dello Stato membro aiutato (art. 3 Trattato MES).

In terzo luogo, la politica della condizionalità ha consentito alle istituzioni di Bruxelles di “orchestrare” mutamenti profondi dei modelli economico–sociali dei paesi periferici, aggirando il principio di attribuzione e gli strumenti di controllo democratico e giurisdizionale previsti dagli ordinamenti nazionali. L’idealtipo dello “stato condizionato” è la Grecia. Dopo il diktat dell’Euro-summit del luglio 2015 (Conclusioni Euro summit, 12 luglio 2015), l’esercizio delle sue funzioni essenziali era subordinato al rimborso integrale dei crediti concessi dal MES e dal FMI. La Grecia è stata così forzosamente ricondotta su una traiettoria di “normalità”: riacquisizione dell’accesso al credito dei mercati finanziari, bilanci pubblici “sani” e rilancio della competitività esterna. Sia pure al prezzo di drammatici effetti collaterali quali impoverimento e disoccupazione di massa, azzeramento delle prestazioni del Welfare State e svendita del patrimonio pubblico.

Le “ragioni” della riforma

Da quel momento il MES entra in un “sarcofago”. La gestione tecnico-manageriale della crisi greca ha attribuito al MES una connotazione profondamente negativa, tanto che persino i prestiti offerti durante la pandemia (il c.d. “MES sanitario”) non sono stati richiesti da alcun paese, nonostante la dichiarazione – non assistita, però, da atti formali – che la sola condizionalità sarebbe stata l’utilizzo di quei fondi a scopi sanitari (Micromega, 2022)

Per quali ragioni, dunque, le istituzioni di Bruxelles e alcuni Stati membri dell’Unione (segnatamente i paesi creditori) hanno avvertito l’esigenza impellente di riformare il MES? E perché continuano a pretendere che l’Italia ratifichi il trattato di riforma, anche a fronte ad un quadro internazionale sconvolto prima dalla crisi pandemica e oggi dalla terribile guerra ai confini orientali dell’Europa?

Prima ragione. È necessario completare l’Unione bancaria, perché tra i nuovi compiti del MES c’è quello di intervenire, qualora il “meccanismo di risoluzione unico” (Single Resolution Mechanism), che serve a facilitare le ristrutturazioni delle banche in crisi ed è alimentato dai versamenti delle banche aderenti, non fosse sufficiente a coprire i costi di un’eventuale emergenza. Peccato che l’Unione bancaria non è mai stata completata, non perché manchi un organismo tecnico, ma perché un gruppo di paesi ritiene che prima si debba provvedere a una riduzione del rischio, intendendo in particolare che le banche che detengono in quantità rilevante titoli sovrani dei paesi ad alto debito debbano ridurre in modo sostanziale quella parte del portafoglio titoli (che venga nominata esplicitamente o meno, è l’Italia con le sue banche il principale obiettivo di questa richiesta).

Seconda ragione. La riforma del MES inserisce un cambiamento delle regole che occorre seguire in caso di concessione di assistenza finanziaria ad uno Stato membro. Le nuove regole contemplano, infatti, “sia pure in casi eccezionali”, la possibilità di una preliminare ristrutturazione del debito del paese interessato, anche con il coinvolgimento “adeguato” del settore privato.

L’idea retrostante è che l’imposizione di regole fiscali rigide non abbia funzionato adeguatamente per garantire il percorso di consolidamento dei conti pubblici. Occorre, allora, rafforzare ulteriormente il potere di disciplinamento dei mercati sugli Stati, sottraendo la sorveglianza su tali regole alla Commissione europea, organo ritenuto troppo politicizzato, affidandola agli organi direttivi del MES, istituzione tecnocratica, da taluno, ritenuto più affidabile.

Terza ragione. Si intende consolidare, per quanto concerne le linee di credito precauzionali, il meccanismo della “condizionalità a più velocità”. Una condizionalità di natura soft, nella forma di lettere d’intenti unilaterali, per gli Stati membri “virtuosi”, quelli cioè che rispettano le prescrizioni del Patto di stabilità e crescita, non presentano squilibri macroeconomici eccessivi e che non hanno problemi di stabilità finanziaria. E una condizionalità di natura “hard” per i paesi non virtuosi (i paesi debitori tra cui, ovviamente, l’Italia) assoggettati al consolidato armamentario dei Memorandum of Understanding e della supervisione della Troika.

 L’alternativa: il debito comune europeo

Le riflessioni precedenti offrono argomenti forti a chi ha espresso serie perplessità in ordine alla ratifica della riforma del MES o chiede almeno di sottoporre la riforma ad un referendum popolare, prendendo spunto da quanto fatto in passato da altri Stati membri (l’Irlanda nel 2008, in occasione della rarifica del Trattato di Lisbona; la Grecia nel 2015, rispetto alla ratifica dell’ultimo Memorandum “negoziato con la Troika).

Le obiezioni alla ratifica intendono, certo, far valere la difesa dell’interesse nazionale, il vincolo interno, ma valgono anche in una logica da “obiettori di coscienza”: chi ha una visione autenticamente europeista, rifiuta il pannicello caldo del MES e perora, invece, la causa della dotazione di un debito comune europeo (si veda al riguardo il contributo di  Massimo Amato). I dubbi sulla ratifica del MES non possono, peraltro, che essere accresciuti, alla luce del complessivo disegno di riforma della governance economica e monetaria che comprende, tra l’altro, la revisione del Patto di stabilità e crescita (sulla quale si vedano i contributi di Fiammetta Salmoni e Massimo D’Antoni).

Non bisogna, tuttavia, dimenticare il persistente potere tirannico di condizionamento della finanza internazionale: il vero “convitato di pietra”. Alla luce dell’esposizione elevata del debito sovrano italiano sui mercati internazionali e del freno tirato dalla BCE rispetto alle operazioni di quantitative easing, è facile immaginare quali effetti potrebbe determinare la decisione di bocciare il MES (poiché questo sarebbe il messaggio distorto che sarebbe veicolato dai mezzi di informazione).

Totalmente diverso dovrebbe essere, invece, l’orizzonte ideale di classi dirigenti che fossero degne di tale nome. Le immense sfide sottese all’“economia di guerra” (destinate ad intensificarsi nei mesi a seguire) richiedono una capacità fiscale che trascende le possibilità offerte dalle fonti ordinarie dei bilanci nazionali. L’eliminazione dei limiti agli aiuti di Stato finirà unicamente per cristallizzare le asimmetrie economico-sociali tra gli Stati membri. Se l’Unione europea vuole dare corpo, oltre le mere declamazioni retoriche, alla sua autonomia strategica nel campo della difesa, dell’energia, della tecnologia, della sicurezza alimentare, deve sciogliere il nodo gordiano del debito comune, magari incorporando nei trattati la strumentazione innovativa del Next Generation (Federico Losurdo, 2023),

In definitiva, la dotazione di un debito comune europeo, anche nella forma del c.d. European Sovereignty Fund (per ora un progetto solo abbozzato dalla Commissione) allo scopo di finanziare in uno spirito di autentica solidarietà grandi investimenti infrastrutturali nei beni pubblici europei, è la chiave per superare l’atteggiamento di persistente subalternità ai mercati finanziari; oltreché in prospettiva per far valere compiutamente l’interesse strategico europeo e rispondere alla “feroce” competizione sleale intrapresa dagli Stati Uniti con l’approvazione dell’ Inflation Reduction Act.

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