Quello che definisco qui il “paradigma moderno” si basa su una visione profonda dell’uomo, un’antropologia fondamentale, da cui siamo ancora molto condizionati e che continua a sembrarci evidente, un dato indiscutibile di realtà. Invece, come ogni antropologia, è una costruzione culturale, legata a un’epoca che si avvia alla fine, anzi nella sostanza è già finita.
Uccidibilità, desiderio, produttività
Questo paradigma può essere riassunto in tre concetti, ciascuno dei quali esprime quello che si ritiene essere un tratto sostanziale dell’uomo: ‘uccidibilità’, ‘desiderio’, ‘produttività’. L’uomo è per essenza uccidibile, desiderante e produttivo. Tutti questi concetti sono ravvisabili già nel primo grande filosofo della modernità, Hobbes, ma appaiono, con infinite varianti, quasi in ogni sforzo di pensiero, comprese forme ‘sovversive’come il marxismo o la psicoanalisi. Fino a tutto il Novecento e ancora adesso, in un nuovo secolo che non è ancora riuscito a rendersi davvero nuovo. Se Hobsbawm sostiene che il Novecento comincia nel 1914 e finisce nel 1991[1], bisogna probabilmente obiettargli che nasce sì nel 1914 con l’industrializzazione della guerra (su basi comunque assai più antiche),ma si avvia alla fine solo in questi anni Venti del XXI secolo con la catastrofe climatica (e forse con la guerra nucleare). Mi sembra davvero difficile negare che sia il secolo peggiore della storia umana, e questo costringe a interrogarsi sull’intera epoca che in questo secolo culmina, su quella appunto che chiamiamo ‘modernità’. Torniamo dunque ai tre concetti costitutivi della modernità. Come si rappresenta a se stesso l’uomo moderno?
Si rappresenta come soggetto isolato, senza relazioni, che compare misteriosamente sulla scena pressocché dal nulla. Ha smisurata, infinita capacità di desiderio. Il mondo intero non basta a lui da solo. In assenza di regole che lo limitino, non trova limiti interiori, né riconosce limiti nella natura. Può affermare che tutto il mondo gli appartiene e che può farne quello che vuole, a suo arbitrio. Ma il desiderio non è limitato neppure dal suo stesso oggetto. Passa da un oggetto a un altro, travalica ogni possibile oggetto, è desiderio non oggettuale. Anche i corpi degli altri ne sono illimitatamente investiti. Lo dice chiaramente Hobbes, con assoluta onestà, senza nasconderci nulla e spiegando benissimo come questo desiderio senza fine sia autodistruttivo:
E poiché la condizione dell’uomo […] è una condizione di guerra di ciascuno contro ogni altro, e in questo caso ciascuno è governato dalla propria ragione e non esiste niente di cui egli sia in grado di servirsi, che non possa essergli di aiuto nel preservare la propria vita contro i nemici, ne segue che in una condizione di questo genere ciascuno ha diritto a tutto, anche al corpo di un altro. Perciò, finché dura questo diritto naturale di ciascuno a tutto, nessuno può avere la sicurezza, per quanto forte o saggio sia, di vivere per tutto il tempo che la natura permette solitamente di vivere agli uomini[2].
Appunto perché infinitamente desiderante, l’uomo è infinitamente conflittuale. Ognuno, desiderando ogni cosa e oltre ogni cosa, si scontra col desiderio altrui. L’unica possibilità di affermare il proprio desiderio consiste nell’annientare il desiderio altrui. La modalità naturale di relazione, che è poi una relazione in negativo, una non-relazione, è la guerra di tutti contro tutti. Ne deriva l’uguaglianza di tutti gli uomini in quanto ugualmente confliggenti e ugualmente esposti gli uni alla violenza degli altri. Tutti gli uomini sono parimenti uccidibili, per questo sono uguali:
Se […] guardiamo degli uomini adulti, e consideriamo quanto sia fragile la compagine del corpo umano (la cui rovina trascina con sé ogni sua forza, vigore, sapienza) e con quanta facilità un uomo debolissimo possa ucciderne uno più forte, non c’è motivo per cui qualcuno, fidando nelle sue forze, si creda superiore agli altri per natura. Sono uguali coloro che possono fare cose uguali l’uno contro l’altro. Ma coloro che possono fare la cosa suprema, cioè uccidere, possono fare cose uguali. Dunque tutti gli uomini sono per natura uguali fra di loro[3].
Siccome nella vita degli uomini non vi sarebbe che desiderio frustrato, violenza e paura, la ragione impone la costruzione di un sistema di limiti artificiali, cioè dello Stato.Non senza forti basi teologiche all’inizio di questo percorso, in Hobbes e non soltanto in lui: nulla vi è di più sbagliato che far iniziare da qui la secolarizzazione, confondendola con una deconfessionalizzazione del cristianesimo[4]. Ne nasce il paradigma securitario che attraversa tutta la modernità: le istituzioni controllano, proteggono, tengono nell’ordine, sorvegliano, puniscono[5]. Senza un quadro istituzionale coercitivo non potrebbe esistere la società. Solo all’interno del quadro istituzionale si afferma la libertà come diritto di ogni individuo alla solitudine sotto la protezione dello Stato, all’interno di uno spazio privato (la coscienza e la proprietà, essenzialmente) da cui escludere ogni ingerenza degli altri.
In un simile contesto, l’unica modalità di relazione ammessa è la mediazione degli interessi attraverso lo scambio e la moneta. La socialità non si distingue dal processo economico e ha nel mercato il suo luogo proprio, con cui sostanzialmente si identifica. L’esistenza sociale dell’individuo consiste nel suo stare sul mercato come compratore e venditore (anche di se stesso). In proposito non si rifletterà mai abbastanza sull’ammonizione di Polanyi, la cui attualità è sempre più scottante:
La presunta merce «forza-lavoro» non può […] essere fatta circolare, usata indiscriminatamente e neanche lasciata priva di impiego, senza influire anche sull’individuo umano cherisulta essere il portatore di questa merce particolare. Nel disporre della forza-lavoro di un uomo, il sistema disporrebbe tra l’altro dell’entità fisica, psicologica e morale ‘uomo’ che si collega a questa etichetta. Privati della copertura protettiva delle istituzioni culturali, gli esseri umani perirebbero per gli effetti stessi della società, morirebbero come vittime di una grave disorganizzazione sociale, per vizi, perversioni, crimini e denutrizione[6].
Stando alla fittizia autorappresentazione del sistema, il perseguimento dell’utile individuale si trasfonde in utile collettivo, secondo un andamento sempre crescente. Il desiderio, trasposto sul piano economico, diventa forza produttiva e cessa di portare al conflitto. Il sistema degli interessi mediato dal mercato consente la massimizzazione del desiderio e perciò della produzione, in una spirale ascendente cui non si attribuisce un limite. Tanto meno ne costituisce un limite la natura, serbatoio di materie prime da sfruttare a piacimento. Anche su questo vale la pena di ricordare cosa ne pensava Polanyi, già nel 1944: La natura verrebbe ridotta ai suoi elementi, l’ambiente ed il paesaggio deturpati, i fiumi inquinati, […] la capacità di produrre cibo e materie prime, distrutta[7].
Marxismo e psicanalisi: due alternative insufficienti
Molti non sarebbero d’accordo, ma a me sembra che anche le forme di pensiero più radicalmente antagonistiche rispetto al paradigma moderno ne restino all’interno, senza superarlo.
Così il marxismo, che tenta di liberare il lavoro organizzato dal dominio del capitale, ma non mette in discussione che la socialità umana si identifichi col sistema economico e che l’uomo sia essenzialmente produttore. Due soli brevi testi, tra gli innumerevoli brani di Marx che si potrebbero citare a questo proposito:
[…] primieramente il lavoro, l’‘attività vitale’, la ‘vita produttiva’, appare all’uomo solo come un ‘mezzo’per la soddisfazione di un bisogno, del bisogno di conservazione dell’esistenza fisica. Ma la vita produttiva è la vita generica. È la vita generante la vita. Nel modo dell’attività vitale si trova l’intero carattere di una specie, il suo carattere specifico. E la libera attività consapevole è il carattere specifico dell’uomo[8].
L’alienazione del lavoro trasforma in un mezzo per il profitto quello che sarebbe il fine dell’uomo: la produzione della propria vita. Il carattere specifico dell’uomo, ciò che lo distingue dagli altri esseri viventi, è il lavoro come libera attività consapevole. Ma perché la libera attività ‘produttiva’ esprimerebbe l’uomo più e meglio di qualsiasi altra libera attività? Non è una petizione di principio, che Marx assume senza accorgersene dal suo orizzonte storico, scambiando un’epoca della storia umana per la natura dell’uomo? Nel secondo brano questo risulta ancora più chiaro:
Si possono distinguere gli uomini dagli animali per la coscienza, per la religione, per tutto ciò che si vuole; ma essi cominciarono a distinguersi dagli animali allorché cominciarono a ‘produrre’i loro mezzi di sussistenza […]. Producendo i loro mezzi di sussistenza, gli uomini producono indirettamente la loro stessa vita materiale.
Il modo in cui gli uomini producono i loro mezzi di sussistenza dipende prima di tutto dalla natura dei mezzi di sussistenza che essi trovano e che debbono riprodurre. Questo modo di produzione non si deve giudicare solo in quanto è la riproduzione dell’esistenza fisica degli individui; anzi, esso è già un modo determinato dall’attività di questi individui, un modo determinato di estrinsecare la loro vita, un ‘modo di vita’determinato. Come gli individui esternano la loro vita, così essi sono. Ciò che essi sono coincide dunque immediatamente con la loro produzione, tanto con ciò che producono quanto col modo ‘come’producono. Ciò che gli individui sono dipende dalle condizioni materiali della loro produzione[9].
Che l’uomo sia un essere ‘autopoietico’, che cioè riproduca la propria esistenza producendone le condizioni materiali, non è dubitabile. Ma non c’è qui una sorta di corto circuito logico? La natura dell’uomo è produrre il proprio produrre allo scopo di produrre? Lo sforzo di valorizzare l’uomo nella sua materialità contro le astrazioni idealistiche non si traduce nella nuova astrazione di una produzione che dissolve in sé il produttore? Manca il meccanismo alienante del mercato, ma il lavoro in quanto riproduzione della capacità di produrre per perpetuare la produzione appare già sufficientemente alienante. Si ha la sensazione che anziché costruire un nuovo edificio concettuale Marx sottragga un elemento, appunto il mercato, all’edificio concettuale proprio della “modernità”. Che così però crolla su se stesso senza che nulla di nuovo venga edificato.
Come il marxismo, anche la psicoanalisi, mi sembra, giunge ai limiti del sistema, ne mostra i limiti, ma non li supera, resta all’interno del paradigma. Svela il carattere selvaggio e indomabile del desiderio al di sotto della sottile e fragile superficie della civiltà, riproponendo in definitiva la posizione hobbesiana: solo la costrizione ferma la violenza, al prezzo della continua frustrazione del desiderio, e perciò dell’impossibilità di essere felici. Freud, anzi, ripete Hobbes quasi alla lettera:
La vita umana associata è resa possibile a un solo patto: che più individui si riuniscano e che questa maggioranza sia più forte di ogni singolo e tale da restare unita contro ogni singolo. Il potere di questa comunità si oppone allora come ‘diritto’ al potere del singolo, che viene condannato come ‘forza bruta’. Questa sostituzione del potere della comunità a quello del singolo è il passo decisivo verso la civiltà. La sua essenza consiste nel fatto che i membri della comunità si limitano nelle loro possibilità di soddisfacimento, mentre il singolo non conosceva restrizioni del genere[10].
Il singolo, illimitatamente e irresponsabilmente desiderante, è esterno alla società, pre-sociale. La società è un meccanismo artificiale che sopravviene dall’esterno per contenere il singolo e costringerlo alla massimizzazione dell’utile collettivo attraverso la mediazione, coattiva, dei desideri individuali. Non si direbbe che siano passati quasi tre secoli da Hobbes a Freud. Sembra di essere ancora dentro lo stesso secolo, evidentemente non breve, anzi lungo, lunghissimo. Decisamente troppo lungo.
Bisogna cercare altrove, se vogliamo uscire da un paradigma la cui insostenibilità è oggi sotto gli occhi di tutti, mettendo in questione come mai prima nella storia era accaduto la sopravvivenza stessa del genere umano.
Un nuovo trinomio; cura, rispetto del limite, condivisione
Credo che una strada perseguibile sia riscoprire il “non detto” che sta alla base del paradigma moderno e ha un’evidenza esistenziale di cui risulta difficile comprendere la rimozione. L’uomo non nasce come adulto desiderante, confliggente, uccidibile e produttivo. Nasce come bambino. Solo la psicoanalisi in tutto il paradigma della modernità riconosce la sostanzialità dell’infanzia, facendone però la dimensione del desiderio assoluto, perverso e potenzialmente violento, che bisogna superare sostituendo al piccolo selvaggio incestuoso e parricida l’adulto frustrato e nevrotico, ma appunto perciò tenuto nell’ordine e capace di civiltà. L’infanzia è di per sé una forma di vita primitiva, pre-civile, selvaggia, e nello stesso tempo una strutturale condizione psicopatologica. I popoli “selvaggi” e i nevrotici rappresentano in due diverse maniere l’incapacità di superare l’infanzia, di “guarirne”, per così dire:
[…] l’orrore dell’incesto nei selvaggi […] è un tratto squisitamente infantile, e dà luogo a una vistosa concordanza con la vita psichica del nevrotico. La psicoanalisi ci ha insegnato che la prima scelta dell’oggetto sessuale da parte del bambino è incestuosa, s’indirizza su oggetti proibiti, la madre e la sorella; la stessa psicoanalisi ci ha consentito di individuare altresì per quali strade il ragazzo che si fa adulto si libera dall’attrazione dell’incesto. Il nevrotico invece rivela invariabilmente un tratto d’infantilismo psichico: o non è stato in grado di liberarsi dalle situazioni psicosessuali infantili, oppure è ritornato ad esse[…][11].
Eppure la dimensione essenziale dell’infanzia sarebbe un’altra, e tutti lo sappiamo perché tutti veniamo da lì. L’infanzia, con tutta la sua problematicità, è la dimensione dell’incontro del bisogno inerme con il dono gratuito. Il bambino è in condizione di dipendenza assoluta: riceve costantemente la propria stessa vita dalla cura incessante degli altri[12]. Non solo i genitori e i familiari, ma un intero complesso sistema di attenzione e protezione sociale che comprende numerose istituzioni, dagli asili nido agli ospedali pediatrici agli orfanotrofi alla scuola. Applicare paradigmi economicistici e aziendalistici a questo sistema, propriamente etico (nel senso hegeliano tanto frequentemente e gravemente frainteso[13]) significa negare quello che ogni madre, padre, medico e insegnante sa benissimo e vive in ogni istante: che il “luogo” della cura non è il mercato e che l’essere umano nella sua essenzialità è oggetto d’amore e non merce.
Il nuovo paradigma della post-modernità (o della nuova modernità, come io preferirei dire) dev’essere dunque basato su un diverso trinomio: cura, rispetto del limite, condivisione. Non è strano né tanto meno utopistico: tutti nasciamo in questo quadro e se così non fosse non saremmo qui a parlarne. Il punto è che poi accettiamo come naturale, moderno, progressivo che a un certo punto l’individuo debba abbandonare il riconoscimento etico della cura per offrirsi all’«assolutamente aspro» del ‘sistema dei bisogni’ e della «complicazione universale della dipendenza di tutti»[14], in cui sarà desiderante, confliggente e produttivo, oppure non sarà.
Esistono, più o meno da sempre, istituzioni sociali specifiche che proseguono oltre l’infanzia e all’interno dell’età adulta l’atteggiamento di cura, riconoscimento, attenzione all’alterità che costituiscono il modo normale di rapportarsi al bambino. Le istituzioni educative, culturali, assistenziali, sanitarie. Dovremmo chiederci come mai fabbriche, carceri e caserme ci sembrino più rappresentative della dimensione sociale rispetto alle pur antichissime istituzioni della cura (nel senso più ampio del termine). Non mi sembra ovvio che la società debba essere considerata come una sorta di sintesi tra mercato e polizia. E del tutto assurdo, perché profondamente illogico e in contrasto stridente con l’evidenza dell’esperienza e dei sentimenti umani, mi sembra espungere l’intera dimensione della cura dagli sforzi di delineare i concetti di “uomo” e di “società”.
Identificare una via plausibile per una ricostituzione dell’esistenza sociale a partire dalla cura è evidentemente un compito non proponibile qui. Decisamente più facile è però identificare nella cura una linea di resistenza da cui non deflettere di fronte ai tentativi di assolutizzazione del mercato. Di fronte, in particolare, a chiunquevenga a proporre, per la scuola, l’università, la formazione in ogni suo stadio e livello, modelli competitivi, “meritocratici” e perciò gerarchizzanti, efficientistici e produttivistici, in nome della necessità di essere moderni. Bisogna comprendere con chiarezza che in tal modo sista proponendo qualcosa di disperatamente antico, invecchiato fino alla decomposizione, radicalmente smentito dalla quotidiana evidenza di un mondo in rovina.
Una democrazia gerarchizzante?
Una società selettiva, che impone ai suoi membri una sorta di gara in cui solo i migliori raggiungono le posizioni di vertice, si fonda in ogni caso su un equivoco. Non sono i più meritevoli a vincere la gara, ma è la gara stessa, in base alle sue regole implicite, ad attribuire il merito. L’effetto non è selettivo, ma normalizzante: vince chi si conforma a un modello, quindi non vince l’eccellenza (che per definizione esorbita dalle regole del sistema), ma vince la mediocrità. Vince, per di più, secondo un canone fintamente aristocratico. Un modello “meritocratico” è un modello gerarchico che esclude già in linea di principio il valore dell’uguaglianza. Se il meccanismo selettivo è rappresentato dal mercato, l’eccellenza verrà identificata con la miglior vendibilità, perciò con la mediocrità agevolmente fungibile, che verrà però selezionata come superiorità. L’autentica eccellenza non è misurabile da un sistema così organizzato e verrà dunque confusa col demerito e respinta in un limbo sociale indistinto in cui le teoriche attribuzioni di dirittiderivanti dal sistema giuridico di riferimento saranno completamente vanificate. Non si rifletterà mai abbastanza sull’ammonizione di Bobbio riguardo al contrasto profondo tra mercato e democrazia:
Sinora la democrazia politica è convissuta, o è stata costretta a convivere, con il sistema economico capitalistico. Un sistema che non conosce altra legge che quella del mercato, che è di per sé stesso completamente amorale, fondato com’è sulla legge della domanda e dell’offerta, e sulla conseguente riduzione di ogni cosa a merce, purché questa cosa, sia pure la dignità, la coscienza, il proprio corpo, un organo del proprio corpo, e perché no? […] il voto medesimo, si trovi chi è disposto a venderla e chi è disposto a comprarla. […] Bisogna pur lealmente riconoscere che sinora non si è vista sulla scena della storia altra democrazia che non sia quella coniugata con la società di mercato. Ma cominciamo a renderci conto che l’abbraccio del sistema politico democratico col sistema economico capitalistico è insieme vitale e mortale, o meglio è anche mortale, oltre che vitale[15].
Non si può che concordare, a maggior ragione oggi. Considerare la democrazia soltanto come il sistema che garantisce la presenza di ogni individuo sul libero mercato significa considerarla soltanto come il teorico punto di partenza di un meccanismo selettivo per opera del quale una comunità di uguali viene trasformata in un sistema gerarchico in cui l’utilità economica vale come merito e la pari dignità sociale, per quanto retoricamente affermata, è di fatto espunta.
L’utopia “necessaria”
Si potrà dire, con apparente realismo e buon senso, che ogni ipotesi di fuoriuscita da tale sistema è un’utopia smentita dalla storia. Ma l’obiezione avrebbe senso se il sistema fosse sostenibile e se ne potesse immaginare il protrarsi indefinito. Non essendo fin troppo evidentemente così, l’obiezione è appunto una negazione dell’evidenza ed è invece il protrarsi dell’attuale sistema a configurarsi come utopia, anzi utopia in negativo, distopia.
Delineare in astratto un percorso di cambiamento sarebbe un esercizio sterile. Stabilire quali tempi, quali forze sociali, quali trasformazioni politiche sono richieste da un simile cambiamento eccede i compiti del pensiero.Non è così difficile però immaginare, per contrasto, quale nuovo paradigma antropologico potrebbe consentire il superamento di una “modernità” ormai decrepita. Non si tratta di ipotizzare improbabili trasformazioni della natura umana, ma di riconoscere e valorizzare un aspetto eterno e immancabile dell’umanità, quello a cui ogni essere umano deve la propria vita e la propria crescita e maturazione. Ricominciamo dalla cura, non come dovere e sacrificio, ma come riconoscimento di valore e come scambio di gioia. Tutto il resto ne conseguirà.
[1] Cfr. ERIC J. HOBSBAWM, Il secolo breve, 1914-1991: l’era dei grandi cataclismi, traduzione di B. Lotti, Milano, Rizzoli 1995, pp. 710. Da notare che il titolo italiano sottolinea un aspetto diverso da quello evidenziato nel titolo originale: The Age of Extremes: The Short Twentieth Century, 1914–1991, London-New York 1994.
[2] THOMAS HOBBES, Leviatano, o la materia, la forma e il potere di uno Stato ecclesiastico e civile, a cura di A. Pacchi con la collaborazione di A. Lupoli, trad. di A. Lupoli, M. V. Predaval, R. Rebecchi, Laterza, Roma-Bari 20006, parte I, cap. XIV, p. 106.
[3] THOMAS HOBBES,De Cive.Elementi filosofici sul cittadino, a cura di T. Magri, Editori Riuniti, Roma 1979 (rist. 2005), lib. I, cap. I, § 3, p. 23.
[4] Rinvio in proposito al mio L’ombra della sovranità. Da Hobbes a Canetti e ritorno, Treccani, Roma 2021, pp. 19-42.
[5] Ovvio il riferimento a MICHEL FOUCAULT, Sorvegliare e punire.Nascita della prigione, traduzione di A. Tarchetti, Einaudi, Torino 1976, pp. 340.
[6] KARL POLANYI, La grande trasformazione. Le origini economiche e politiche della nostra epoca, Introduzione di A. Salsano, traduzione di R. Vigevani, Einaudi, Torino 2016 (rist.), p. 94.
[7] Ivi, pp. 94-95.
[8] KARL MARX, Manoscritti economico-filosofici del 1844, § [XXIV], in KARL MARX – FRIEDRICH ENGELS, Opere scelte, a cura di L. Gruppi, Editori Riuniti, Roma 19793 (rist.), p. 120.
[9] KARL MARX – FRIEDRICH ENGELS, L’ideologia tedesca, cap. [A] L’ideologia in generale e in particolare l’ideologia tedesca, in KARL MARX – FRIEDRICH ENGELS, Opere scelte, cit., pp. 233-234. Non entro nel merito delle complesse questioni filologiche riguardanti il lascito manoscritto marx-engelsiano, e la cosiddetta Ideologia tedesca in particolare.
[10] SIGMUND FREUD, il disagio della civiltà, traduzione di E. Sagittario, in SIGMUND FREUD, Opere, edizione diretta da C. L. Musatti, vol. 10, Boringhieri, Torino 1978, p. 585.
[11] SIGMUND FREUD, Totem e tabù. Alcune concordanze nella vita psichica dei selvaggi e dei nevrotici, traduzione di S. Daniele (riveduta da C. L. Musatti), in Opere, cit. vol. 7, Boringhieri, Torino 1975, pp. 25-26. Ma i possibili riferimenti testuali sul tema sarebbero innumerevoli.
[12] Per alcune mie altre considerazioni sul tema, rinvio a LUIGI ALFIERI, I barbari alla frontiera e il vuoto del Noi. Variazioni sul tema della paura, in ROBERTO CAMMARATA (a cura di), Dalla paura alla simpatia. Alla ricerca dei fondamenti della politica. Saggi in onore di Roberto Escobar, Giappichelli, Torino 2021, pp. 70-74.
[13] Non posso, naturalmente, sviluppare qui questo punto. Per l’interpretazione che propongo dell’eticità hegeliana sono costretto a rinviare al mio vecchissimo libro Il pensiero dello Stato. Saggio su Hegel, ETS, Pisa 1985, pp. 155-177.
[14] GEORG W. F. HEGEL, Lineamenti di filosofia del diritto, traduzione di F. Messineo, Laterza, Roma-Bari 1978, § 195, p. 198 e § 199, p. 200.
[15] NORBERTO BOBBIO, La democrazia realistica di Giovanni Sartori, in «Teoria politica», IV, n. 1, 1988, pp. 157-158. L’insegnamento di Bobbio è attualizzato con lucidità e limpidezza in MICHELANGELO BOVERO, Salus mundi, Castelvecchi, Roma 2022, sp. pp. 77-106.