IDEATO E DIRETTO
DA ANTONIO CANTARO
E FEDERICO LOSURDO

IDEATO E DIRETTO DA ANTONIO CANTARO E FEDERICO LOSURDO

Pasolini e la questione italiana

Costretto a difendersi dal Processo che la società italiana ha intentato nei suoi confronti, intenta a sua volta un Processo alla storia italiana, ritorcendo verso i suoi persecutori, e con ben altra forza, la qualificazione di “colpevoli”.

Chiede di processare gli uomini del regime democristiano, perché ha ben compreso che il Processo, forse più che la Condanna, è il momento nel quale si sconta la pena più dura. Si esercita, con eguale vigore ed efficacia, nell’arte della denuncia storica e politica delle classi dirigenti italiane. Quell’Io so che non aveva bisogno di prove per far male ai suoi destinatari.

Forse non immaginava che quest’ansia di verità gli sarebbe costata una condanna a morte. Non lo sappiamo. Sappiamo che Pasolini amava troppo la vita per temere la morte e non faceva calcoli di sorta. Sempre impegnato in una lotta che svolge contemporaneamente su due fronti. Un fronte “esterno”, quello del Potere ufficiale, delle sue menzogne, del suo linguaggio, dei suoi codici. Ed un fronte “interno”, quello del marxismo e delle nuove generazioni, che spesso critica e condanna aspramente ma di cui si considera idealmente “parte” anche quando questo “fronte” lo vive come estraneo, ostile, nemico.

La ricerca della verità dopo Pasolini. Questa ricerca è stata a lungo contrastata. Dalle Istituzioni, in mille modi. Ma anche dalle sotterranee ostilità dei tanti che si atteggiavano a critici del Potere. Per capire il perché di tanta ostilità è necessario retrodatare lo sguardo sulla “questione italiana”. Il deficit di verità di cui ancora oggi soffriamo è anche lo specchio dell’enorme castello di pregiudizi e di menzogne di cui Pasolini è stato vittima in vita.

Tanti hanno chiesto un nuovo processo sul suo assassinio. Ma ben prima della sua tragica fine, Pasolini è stato oggetto di una infinità di “processi” – penali, morali, mediatici – aventi sempre la stessa finalità. Screditarlo. Mettere in dubbio la legittimità della sua esistenza nella società e nella cultura italiana.

Pasolini non è mai stato a guardare. Insofferente verso i conformismi, ha sempre difeso la sua indipendenza di vita e di pensiero. Contrattaccando. Ha messo sotto accusa la Storia italiana, le sue classi dirigenti. L’ha giudicata severamente, come a suo tempo avevano fatto Leopardi e Gramsci. Ha emesso i suoi verdetti, sfidando l’impopolarità. “Meglio nemici del popolo che della verità”, dirà in una delle sue più dense e belle Lettere Luterane. Pasolini ha sempre lasciato il segno. Accusato o accusatore che fosse, ha sempre abitato il “luogo” per eccellenza della verità giuridica: il Processo. Per necessità e per scelta. Un destino che neanche la morte ha interrotto.

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Mi rendo conto di aver enfatizzato sin qui la pars destruens del “discorso” di Pasolini. La sua ferma opposizione alle istituzioni. Rappresentate – e ancor prima vissute come “luoghi” per “chi ne è escluso” “pieni di odi e di ingiustizie”. Luoghi “fatalmente di destra”, di “conservazione, burocrazia, potere”.

Pasolini è, indubbiamente, anche questo. Ma se fosse solo questo sarebbe solo il capostipite, il più brillante e corrosivo, di quell’esercito di professionisti del dissenso e di intellettuali opinionisti che, già subito dopo la sua morte e poi nel corso dell’ultimo trentennio della storia italiana, hanno promosso e accompagnato la disgregazione delle istituzioni della Repubblica e del popolo (suo fondamento di legittimazione, recita la nostra Carta fondamentale).

Pasolini, invece, era un autentico dissenziente. E nello stesso istante in cui denunciava il carattere repressivo, ideologico, disciplinare di tutte le istituzioni (dalla Chiesa al Partito comunista) “confessava” di amarle disperatamente in quanto luogo di quella fraternità – cristologica e illuminista allo stesso tempo -senza la quale il popolo non esiste ed esistono solo individui singoli.

Scrive, nel 1971, per interposta persona (L’enigma di Pio XII in Trasumanar e organizzar):” Ma chi ha riportato lo spirito della Legge tra gli uomini? Eh? La Chiesa vi contribuì (sempre farisea o sadducea). Tuttavia, sia pure a parole, non si è mai dimenticata, essa Chiesa, della carità. Anzi, ci son esempi (tra i piccoli: no, no, non certo qui in Vaticano) di pura carità. La Chiesa vi contribuì dunque perché? Perché essa è, diletti figli, istituzione! Benché la carità sia il contrario di ogni istituzione! Però la carità sa che le istituzioni sono anch’esse commoventi, cari laici – laici intelligenti, stupendi, che strillate per rivendicare all’uomo il diritto alla completa, assoluta, irriducibile, libertà (responsabilità). Voi volete essere orfani, senza più Padri e Madri? Orfani dolenti e spaventati, ma eroici? Eh! Eh! E invece le istituzioni sono commoventi e commoventi perché ci sono: perché l’umanità – essa, la povera umanità – non può farne a meno. Essa li desidera, i Padri e le Madri: è perciò che commuove. Vi dirò: anche il Partito Comunista, in quanto Chiesa, è commovente.”

E ancor più crudamente: “Anime belle del cazzo, per cos’altro moriranno i due fratelli Kennedy, se non per un’istituzione. E per cos’altro se non per un’istituzione moriranno tanti piccoli, sublimi Vietcong? Poiché le istituzioni sono commoventi e gli uomini in altro che in esse non sanno riconoscersi. Sono esse che li rendono umilmente fratelli. C’è qualcosa di così misterioso nelle istituzioni – unica forma di vita e semplice modello per l’umanità – che il mistero di un singolo, in confronto, è nulla.”

Un espresso invito ai suoi “diletti figli” – i giovani degli anni ’60 e ’70 – ad abbandonare la contestazione impotente, anti-istituzionale, anarchica, “puritana”, per ritornare al PCI, per sollecitarli a riprendersi con vigore le istituzioni. Il Pasolini eternamente vittima dell’umiliazione cui è destinato dai fratelli che non lo vogliono “dei loro” (umiliazione subita anche subito dopo la sua uccisione, vilmente rubricata come “storia di froci”, storia di un “poeta tragico e sciagurato” che ha incontrato la sua inevitabile e giusta fine) non esita un attimo a sostenere – vedo bene, “non sono così cieco” – che “la fraternità senza istituzioni non potrebbe sussistere”. “Andate, piuttosto, figli, ad assalire Federazioni! Andate a invadere Cellule! Andate ad occupare gli uffici del Comitato Centrale! Andate, andate ad accamparvi in Via delle Botteghe oscure!”. Fate attenzione a salvaguardare, a difendere l’amore per le istituzioni! perché solo se si ha cura delle istituzioni si può davvero provare a cambiare il mondo. Mettete, da parte il vostro abito da “anime belle” e affrontate con coraggio, senza indietreggiare, la prova politica delle istituzioni.

Lungi dal cedere ad una visione nostalgico-reazionaria o a una critica puritana del potere, Pasolini è fautore – lo ha giustamente sottolineato Massimo Recalcati – della necessità politica di avere il potere per cambiare le istituzioni del potere. Se il Nome del padre – dice il Poeta – non è più incarnato nei padri “rimasti ancora figli”, esso dimora ancora nella vita “commovente” e “misteriosa” delle istituzioni.

Questo amore per le istituzioni, per il popolo e per il suo “corpo” (“non capisco che male ci sia ad amare il popolo”) gli costò l’accusa di populismo, già da allora brandita da “sinistra” come il più infamante dei marchi di infamia. Esemplare, e a suo modo memorabile, l’irrisione di Alberto Asor Rosa in Scrittori e popolo del Gramsci pasoliniano delle Ceneri: “una Silvia marxistizzata”. Come un qualsivoglia reazionario nostalgico del mondo contadino. Una incomprensione che pesa come una macchia indelebile nella gloriosa funzione svolta nella storia nazionale dal partito comunista italiano, funzione che Pasolini era lungi dal disconoscere. Pasolini non è stato, infatti, solo il più noto e autorevole intellettuale italiano del novecento che ha amato il popolo sempre viaggiando con sofisticata eleganza e partecipazione nella grande cultura borghese. Pasolini è stato l’ultimo intellettuale della “scuola italiana” che si è misurato con il tema del rapporto organico tra intellettuali e popolo nel tempo dell’”universo orrendo” della modernità neo-capitalistica, dell’avanzare del potere consumistico e dei processi di “colonizzazione” della vita.

Alla ricerca indomita di una ragione pubblica in cui credere, da trasmettere pedagogicamente, sempre in forma dialettica e mai antinomicamente. Gli eredi “ufficiali” di Gramsci, rimuovendo il loro Dna, risposero alla tormentata ricerca pasoliniana rifugiandosi in un preconcetto dottrinarismo e nelle galere dell’ortodossia. La storia ha emesso da tempo la sua sentenza. Il grande e modernissimo tema dell’emancipazione delle classi subalterne è scomparso dall’orizzonte di qualsivoglia discorso politico e sociale “progressista”, l’egemonia culturale è passata stabilmente nelle mani del neoliberalismo, gli “intellettuali” si sono acconciati nella “comoda” posizione di funzionari del presente.

Pier Paolo Pasolini è stato un autentico intellettuale civile e un appassionato osservatore delle ragioni di questo passaggio epocale, dell’ascesa del feticismo del denaro e dell’omologazione consumistica delle masse. Genuino interprete artistico e politico dell’eredità dell’intellettuale organico, pur non essendo tale, ha appassionatamente e disperatamente provato ad attualizzarne la funzione emancipatrice. Pasolini ha perso la sua solitaria battaglia. I suoi numerosi e banali critici di destra e di sinistra hanno, tuttavia, perso la guerra. Ingombrante da vivo, intollerabilmente presente da morto, indigeribile per i militanti dell’anticonformismo per partito preso – gli “alternativi” qualunquisti e conformisti cantati da Giorgio Gaber – che calcano le strade del nostro Paese nelle sabbie di una anonima presenza.

Fosse sopravvissuto ancora per due decenni, Pasolini avrebbe lucidamente raccontato genealogia e morfologia della Seconda Repubblica e impietosamente fustigato i suoi cantori, così come i suoi ingenui e complici contestatori. Assolvendo al compito richiesto dalle istituzioni e dal popolo all’intellettuale civile. Dire la verità anche quando non si sa, non si hanno “le prove” e “nemmeno indizi”, ma seguendo “tutto ciò che succede” e conoscendo “tutto ciò che se ne scrive”, immaginare “tutto ciò che non si sa o che si tace”.

“La libertà si manifesta nell’azione del capire”. Prevedere per prevenire, prevenire per riformare. Il lascito dell’ultimo intellettuale della scuola italiana non è stato colto. I sedicenti intellettuali del nostro tempo non amano il popolo e le istituzioni, non vi dedicano nemmeno un attimo del loro tempo.

L’amore per il popolo, qualunque cosa oggi esso sia, è un sentimento necessario per la vitalità di qualsivoglia comunità e senza il quale ogni discorso sulla democrazia suona ai governati falso e irricevibile. Come accade alla postulante dell’Imperatore Adriano (di Marguerite Yourcenar) che un giorno a fronte del rifiuto di questi di ascoltarla fino alla fine aveva esclamato che se gli mancava il tempo per darle retta, gli mancava anche il tempo per regnare.

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