IDEATO E DIRETTO
DA ANTONIO CANTARO
E FEDERICO LOSURDO

IDEATO E DIRETTO DA ANTONIO CANTARO E FEDERICO LOSURDO

Perché disumanizziamo?

Contro l’umano che disumanizza. L’uomo è il prodotto di se stesso, delle condizioni nelle quali è posto e degli strumenti e delle istituzioni sociali che produce e dalle quali è prodotto. E quindi la sua umanità è sempre in crisi, è sempre una ri-conquista.

Dormo poco e male in questo periodo. Così cerco in rete le ultime notizie per far passare il tempo. Ma mi capita spesso di leggere qualcosa che mi fa stare peggio. Come, ad esempio, un commento che giustifica l’assassinio dei medici dell’ospedale Shifa o dei bambini vittime dei bombardamenti a Gaza pressappoco in questo modo: “la disinfestazione va fatta bene quando si hanno i topi in soffitta”. In questi casi, e non sono pochi, non resisto all’impulso di andare a vedere il profilo dell’autore. Che il più delle volte è una persona vera. Istruita. Che magari ha insegnato filosofia nei licei, come me. E che si oppone, ispirandosi alle regole internazionali e ai diritti umani, all’invasione russa dell’Ucraina. Si dirà: è il solito doppio standard. Ma io domando: perché il doppio standard? E perché, soprattutto, da una parte uomini e dall’altra topi? Proverò a capire meglio da cosa tutto questo nasce, senza la pretesa, certo, di dire qualcosa di originale. Ma rifiutando la comoda scorciatoia che consiste nell’attribuire a patologie psichiche o deviazioni morali fenomeni simili a quelli che ho descritto.

Uomini e animali

Topi dunque. O “animali umani”. Comunque animali. Uomini da una parte e animali dall’altra. Perché? Perché senza questa correlazione la nostra civiltà non riesce a definire ciò che intende con umano. Ce lo ricordano Horkheimer e Adorno in Dialettica dell’illuminismo: “L’idea dell’uomo, nella storia europea, trova espressione nella distinzione dall’animale. Con l’irragionevolezza dell’animale si dimostra la dignità dell’uomo. Questa antitesi è stata predicata con tale costanza e unanimità (…) che appartiene, come poche altre idee, al fondo inalienabile dell’antropologia occidentale”. Solo definendo l’altro da sé, l’uomo riesce a darsi un’identità. Con lo stesso gesto istituisce entrambe. E il loro rapporto. Così facendo l’uomo si spiritualizza, attribuendosi la razionalità che gli consente di governarsi, affrancato dall’istintualità e dalla sensibilità. E di governare il mondo. Cioè di dominarlo. In primo luogo la natura, che diventa  soprattutto con la modernità capitalistica, un deposito di materiali da impiegare ad libitum. Ma non solo. La spiritualizzazione e denaturalizzazione dell’umano che si ottiene attraverso la sua separazione dal naturale-prossimo (l’animale), proietta il suo dispositivo di dominio su quella parte di umanità (donne, schiavi, barbari/selvaggi, poveri, folli, vagabondi/migranti) che deve essere assoggetta e sottoposta a controllo, perché priva di quelle risorse spirituali. In altre parole, natura, animalità con sembianze umane. Vagamente umane, come ci ricordano ancora Horkheimer e Adorno citando De Sade: “Non dobbiamo esitare a credere che fra un uomo e una donna c’è una differenza non meno grande e notevole che fra l’uomo e la scimmia delle foreste (…) Si esamini attentamente una donna nuda accanto a un uomo della sua età, nudo come lei, e ci si persuaderà facilmente della notevole differenza che (a prescindere dal sesso) sussiste fra la struttura dei due esseri”. Insomma, le differenze intellettuali si devono rispecchiare nell’inferiorità e nella deformità fisica. Come pretende ogni forma di razzismo, compreso quello antisemita: “La dichiarazione d’odio verso la donna, come creatura spiritualmente e fisicamente più debole, che reca in fronte il marchio del dominio, è la stessa dell’antisemitismo”. Ma  non è ancora tutto. Così definito come “l’alieno che ci è prossimo”, l’altro da noi suscita disprezzo e paura. Disprezzo per la sua inferiorità. Paura perché quella stessa  inferiorità ricorda il pericolo di ricadere nella natura, dalla quale l’uomo si è separato faticosamente. L’animale umano ci minaccia con la sua stessa debolezza che mina, come dice Nietzsche, la nostra fiducia nella vita, negli uomini, in noi stessi.

Le tracce di questo meccanismo nella storia della cultura occidentale sono numerose ed evidenti. Si può partire, ad esempio, da Aristotele e dalla sua distinzione tra l’uomo dotato di logos e l’animale, al quale pure riconosce un’anima sensitiva e una vegetativa. Questa distinzione porta però con sé l’altra, che separa l’umano nella sua forma eccellente (spoudaios aner) non solo dalle forme inferiori (le donne, i barbari), ma anche da tutti gli altri che non possiedono o non possiedono in misura sufficiente, la virtù.  Ciò giustifica la naturale subordinazione  degli inferiori, in particolare di coloro che non sono propriamente umani.

Oppure si può ricordare la dottrina dell’umanista spagnolo, allievo di Pietro Pomponazzi, Juan de Sepulveda, che sostenne come conforme al diritto umano e divino la legittimità della guerra di conquista e la riduzione in schiavitù dei nativi americani, essendo essi di natura inferiore in quanto animali privi di ragione.

Domenico Losurdo (Controstoria del liberalismo, 2005) cita l’affermazione di Edmund Burke, secondo la quale lo spirito di libertà e la visione liberale vivono nei proprietari di schiavi delle colonie meridionali, nelle cui vene circola il sangue della libertà. La razza eletta dei figli d’Inghilterra, la cui genealogia è al riparo da ogni artificio umano. Ciò rende improponibile la presenza della razza inferiore dei neri nella terra della libertà. Da qui l’esigenza di separare i due gruppi, spingendo, come proponeva O’Sullivan, in America Latina, i neri  fuori dall’area della civiltà e della libertà.

La de-umanizzazione colpisce peraltro anche la classe pericolosa dei lavoratori manuali. Sieyès li definisce “folla immensa di strumenti bipedi, senza libertà, senza moralità, senza facoltà intellettuali”. È la logica che istituisce la democrazia del popolo dei signori, fondata sulle clausole di esclusione sia delle popolazioni di origine coloniale sia dei semischiavi e i servi della metropoli. La stessa logica che in definitiva è alla base della distinzione tra lo spazio dello jus publicum europaeum, con la sua giuridicizzazione e delimitazione della guerra, e  il resto del mondo, dove si trovano i selvaggi. E dove è lecito ogni mezzo per la conquista; e la guerra diventa caccia grossa”. Insomma, è come se la costruzione della nozione di ciò che è umano si generasse ogni volta da una scissione, che produce un’identità solo a patto di contrapporsi a un’altra, opposta e complementare.

Homo sum?

Come possiamo comprendere fino in fondo questo fenomeno? E come possiamo, soprattutto, giustificarlo alla luce dell’orgogliosa rivendicazione dell’universalismo umanista che pure appartiene alla nostra tradizione? Le parole di Seneca contenute nella lettera a Lucilio ne sono una delle più alte espressioni: “La natura ci ha generati parenti, poiché siamo formati dagli stessi elementi e tendiamo allo stesso fine. Essa ha instillato dentro di noi un amore reciproco e ci ha fatti socievoli. (…) Sono uomo, niente di umano ritengo mi sia estraneo”. E perché, allora, la famosa espressione di Terenzio, che qui viene richiamata da Seneca, si rovescia purtroppo così spesso nel suo opposto: homo sum, quidquid mihi alienum  videtur inhumanum puto, sono uomo, chiunque mi appare estraneo lo giudico inumano”?

Intanto dobbiamo riconoscere che questa impostazione non è affatto, ovviamente, priva di opposizioni, già nella tradizione classica. In una sintesi magistrale (Homo sum. Essere umani nel mondo antico, 2019) Maurizio Bettini ha  ricostruito, nei diversi contesti storici e culturali dell’antichità, i differenti profili che ivi ha assunto la nozione di uomo e di umanità. E ha esaminato le specifiche forme culturali con le quali i Greci e i Romani affrontavano problemi equivalenti a ciò che oggi definiamo diritti umani. Per la nostra riflessione riveste un particolare interesse il confronto che Bettini istituisce tra ciò che sostiene Cicerone a proposito dei communia, le prestazioni che è necessario fornire a chiunque ne faccia richiesta, e la posizione di Seneca a proposito dell’humanum officium, il dovere degli uomini verso gli altri uomini. Scrive infatti Cicerone nel De Officiis: “Sebbene Cremete, il famoso personaggio di Terenzio, affermi che niente di umano gli è estraneo, tuttavia, dal momento che percepiamo e sentiamo con maggiore intensità le fortune o le avversità che toccano a noi rispetto a quelle che toccano agli altri, quasi ne fossimo separati da un lungo intervallo, su di loro esprimiamo giudizi diversi da quelli che riguardano noi”. Questa distanza, che non è ancora una forma di disumanizzazione dell’altro, conduce Cicerone a concepire i doveri di umanità in una prospettiva che potremmo definire “economica” o “selettiva”. Infatti, il soccorso che si deve agli altri non può essere incondizionato, perché si rischia di non avere abbastanza per coloro che ci sono vicini (i nostri).

Lo stesso problema, significativamente, si trova anche all’interno della tradizione cristiana. Con un’importante oscillazione tra il Vangelo di Marco e quello, successivo, di Luca. I passi di entrambi gli evangelisti a cui ci si riferisce sono quelli in cui Gesù risponde alla domanda su quale sia il comandamento più importante. Nel vangelo di Marco, dopo aver parlato del primo comandamento sull’amore per il Signore, Gesù aggiunge: “amerai chi ti sta vicino come te stesso”  Infatti, osserva Bettini, l’espressione greca ho plesìon andrebbe correttamente tradotta con “colui che ti sta più vicino”, perdendo in questo modo il senso universalizzante che ha assunto invece “il prossimo”, inteso come l’umanità, gli altri in genere. Al contrario nel testo di Luca, il colloquio prosegue con la parabola del Samaritano, che diventa grazie al suo atto di misericordia, “il più vicino, il prossimo”. Mutamento tanto più significativo perché in questo caso non è l’appartenenza a un genos (infatti è un estraneo al popolo di Israele, un Samaritano, a presentarsi come “prossimo”) o a un gruppo di sodali, ma un comportamento verso chi soffre che qualifica la comune umanità. Ciò che ci propongono questi passi sono, credo, degli indizi dell’ambiguità che anche la tradizione antica racchiude. E dei rischi di potenziale disumanizzazione che derivano da un’impostazione sostanzialistica dell’umano. Di contro, ad esempio nel Vangelo di Luca, emerge come una visione dinamica e relazionale di ciò che intendiamo con “uomo”  contenga una diversa apertura sull’altro.

Per intendere fino in fondo questo problema dobbiamo porci una serie di domande. Chi è il soggetto che parla e si attribuisce la qualifica di uomo? In quali coordinate storiche e culturali è posto? Quali sono le caratteristiche fisiche e spirituali, che si attribuisce? E quali quelle di  genere? Visto che, come dice Vera Gheno, uomo è un maschile sovraesteso e in quanto tale sussume in sé anche il femminile. E soprattutto, non è forse vero che quel sum rimanda inevitabilmente a una sostanzialità naturalizzata e naturalizzante dei suoi attribuiti, a qualunque contingenza storica appartengano? Mentre uomini non si è, ma si diventa. Per mezzo di pratiche che sono sempre in corso. Essendo l’uomo il prodotto di se stesso e delle condizioni nelle quali è posto. E degli strumenti e delle istituzioni sociali che produce e dalle quali è prodotto. E quindi la sua umanità è sempre in crisi. Sempre una ri-conquista. Questo è ciò che ci dice la nostra storia. Che ha visto, e vede ancora oggi, umanità diverse avvicendarsi e incontrarsi. Alcune di esse sono scomparse (ma non del tutto) dopo essere esistite per centinaia di migliaia di anni. Il che dovrebbe renderci più umili. Anche rispetto alle umanità future.

Possiamo quindi dire che ciò che intendiamo per uomo è una convenzione sociale in divenire. Prodotta però, come dice Victor Turner, sia dalle pratiche spontanee che dalla struttura di potere che incanala quelle pratiche, ma che ne è anche modificata. E che questo prodotto artificiale della nostra artificialità non può pretendere di valere come paradigma. E quindi di disumanizzare ciò che non gli è omogeneo.

Sapere tutto questo non significa però essere vaccinati nei confronti delle pratiche disumanizzanti. E, soprattutto, non spiega ancora la capacità di queste pratiche di diffondersi capillarmente, di diventare senso comune. Ce ne rendiamo conto quando ad esempio osserviamo le reazioni intorno a noi per la comparsa di una Rom con la sua bambina in braccio. Oppure quando noi stessi proviamo un senso di disagio che ci spinge ad allontanarci dai fagotti informi a cui sono ridotti i barboni che trovano riparo dal freddo per le strade delle nostre città. O quando qualcuno parla di topi da sterminare a proposito di esseri umani.

Dimenticare Husserl?

È evidente che non stiamo parlando di un fenomeno esclusivamente europeo-occidentale. Molte altre umanità si identificano per differenza e costruiscono su questa base la propria superiorità. Alcuni si definiscono  addirittura “gli uomini”. Ma la civiltà alla quale apparteniamo ha una responsabilità speciale. Per due ragioni. La prima è legata alla sua universalizzazione di fatto. L’altra alla sua convinzione, o pretesa, di rappresentare una sorta di avanguardia dell’umanità. La quale dovrebbe quindi adeguarsi, perché universale, al modello rappresentato da noi occidentali. Un modello di civiltà e di umanità al tempo stesso particolare e universale, insomma.

Questo modo di rappresentare se stessi e la propria missione può certo affascinare e perfino entusiasmare. Contiene però molte contraddizioni. E molti pericoli. Il primo dei quali è ovviamente quello di costituire un supporto ideologico a un progetto di dominio. Soprattutto se i principi  ai quali dichiara di ispirarsi, come abbiamo visto, non sono affatto universali come si pretende. E se i mezzi con i quali si persegue la loro diffusione non sono affatto rispettosi della umanità altrui. Inoltre, quale comune umanità si può riconoscere se essa è quella di una parte che si reputa superiore. E che tratta nel migliore dei casi in modo paternalistico le altre civiltà? Soprattutto ora che sta venendo a concludersi un ciclo storico e stanno emergendo nuovi soggetti sulla scena mondiale. Di cui andrebbero ascoltate le domande.  Con i quali, nell’interesse di tutta l’umanità, si dovrebbero intavolare relazioni su basi nuove, anziché riproporre schemi superati.

Quasi novant’anni fa, alla vigilia di una catastrofe senza precedenti, Edmund Husserl si domandò se “lo spettacolo dell’europeizzazione di tutte le umanità straniere annunci la manifestazione di un senso assoluto rientrante nel senso del mondo o se non rappresenti invece un nonsenso storico”. Egli pensava che la risposta a questa domanda dipendesse dalla capacità dell’umanità europea di risollevarsi dalla propria crisi spirituale e di recuperare alla filosofia la coscienza dei propri fini ultimi. Altrimenti l’umanità europea e la sua stessa universalizzazione sarebbe stata “una mera follia storico-fattuale, un conseguimento casuale di un’umanità casuale” e non l’inveramento di un telos universale.

Queste domande sono oggi rimosse. E molti, si veda l’esaltazione che del processo di occidentalizzazione del mondo propone ad esempio Schiavone sulla base del successo de facto del tecnocapitalismo globalizzato, non vedono forse neppure dove sia il problema posto, e nel frattempo tutt’altro che risolto, da Husserl. E ciò nonostante che l’assolutizzazione dell’approccio tecnico scientifico e efficientistico sia ormai inestricabilmente intrecciato alla diffusione di un nichilismo (“scetticismo sui fini ultimi”) autodistruttivo. Che minaccia la sopravvivenza stessa dell’umanità.

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