IDEATO E DIRETTO
DA ANTONIO CANTARO
E FEDERICO LOSURDO

IDEATO E DIRETTO DA ANTONIO CANTARO E FEDERICO LOSURDO

Se ne è andato Mario Tronti

Uno dei padri dell’operaismo italiano. Fuori di noi e dentro di noi. Così lo sentiva emotivamente chiunque abbia militato nella seconda metà del 20° secolo. Un grande pensatore nel senso che lo stesso Tronti dava al termine. Un pensatore non occidentale, ma europeo. Un teorico dell’attesa.

A scrivere questo breve ricordo è un vecchio militante. Un ricordo brevissimo perché gli darò subito la parola. Non solo per comprensibile pudore, ma perché i testi consigliati parlano da soli. Raccontano di una sconfinata passione umana, intellettuale e politica. Sconfinata e sobria, sino alla fine.

Il primo è una sorta di autobiografia, recentissima e toccante, La saggezza della lotta edito nel 2021 da DeriveApprodi. Un breve profilo nel quale Mario Tronti ripercorre le tappe più importanti della sua formazione politica e teorica, traccia la sua personale interpretazione del Novecento, si interroga sulla “saggezza della lotta.” Lo trovate ancora agevolmente in libreria.

Il secondo, un testo praticamente introvabile ed è per questa ragione che abbiamo deciso di pubblicarlo integralmente. Si tratta dell’intervento ad una tavola rotonda tenutasi all’Università di Urbino il 21 ottobre 2010 in occasione del seminario Il nomos della Terra 60 anni dopo. L’Europa di Carl Schmitt nell’ambito dei seminari promossi da “Critica europea” e pubblicato nel numero 1-2 del 2011 nella Rivista “Teoria del diritto e dello Stato”.

Nel corso della tavola rotonda dedicata al tema “Il nomos e il nuovo ordine europeo” Mario Tronti interviene due volte. Interloquisce con i promotori del seminario e gli altri partecipanti alla tavola rotonda (Antonio Baldassarre, Domenico Losurdo, Guido Maggioni, Stelio Mangiameli), cimentandosi con l’interrogativo tipicamente trontiano del perché oggi “non si pensa più l’Europa”. Una denuncia, una profezia, come era nel suo stile abituale.

Il testo contiene, tuttavia, tra le righe anche la legittima confessione di aspirare ad essere un autore nel senso autentico del termine. Dice, infatti, a un certo punto: «Tutti i grandi pensatori hanno, secondo me, sostanzialmente due grandi fasi di pensiero. I piccoli pensatori ce ne hanno tante, che si mettono in fila una dietro l’altra, al punto da non riconoscersi più tra loro. Il grande pensatore pensa fortemente una tesi forte all’inizio, poi è costretto nella seconda fase della sua vita, per spiegarla e svilupparla, a trovare un qualche cosa di complementare, cioè di ripartire da un altro punto per arrivare alle stesse cose che ha sostenuto all’inizio».

Non si tratta di immodestia, ma dell’autentico tormento di chi ambiva ad essere un grande pensatore. Chi ha avuto il privilegio di ascoltarlo personalmente non ha mai nutrito alcun dubbio in proposito. Mario Tronti è stato un grande pensatore nel senso trontiano del termine. Un senso alto, europeo, lontano dal narcisismo compulsivo dei nostri giorni. Un teorico dell’attesa.

Perché oggi non si pensa l’Europa

«Quando si parla dell’Europa di Carl Schmitt, del rapporto tra Schmitt e l’Europa, bisogna partire, secondo me, da una premessa indispensabile: e cioè che Schmitt è un pensatore intrinsecamente europeo. E non si può parlare nemmeno oggi di Europa senza riferirsi a Schmitt, perché in Schmitt c’è un pensiero dell’Europa e il fatto che nel dibattito sull’Europa di oggi questo nome non venga evocato non è un caso: proprio perché attualmente non si pensa l’Europa. Qui noi ci troviamo di fronte, come ha detto subito la relazione di Cantaro stamattina, al fatto che il pensiero del nomos c’è già nel primo Schmitt, come nel secondo Schmitt ritorna e persiste il tema del politico».

Kelsen pensatore occidentale, Schmitt pensatore europeo

«Un pensatore va sempre considerato, pur attraversando le sue diverse fasi, nella sua unitarietà. Schmitt, tra il ’32 e il ’36, civetta con l’esperimento nazista, poi quando le SS lo attaccano passa apparentemente agli studi di diritto internazionale, ma non è che questi studi fossero assenti nella prima parte del suo pensiero. È, anzi, in quel periodo che maturano le due mosse di pensiero successivo: il tema del Großraum e la stessa teoria del nomos. Il Großraum è una dizione che viene in qualche modo catturata dal nazismo, o meglio attribuita al nazismo. Ma bisognerebbe piuttosto precisare che il nazismo era più vicino alla definizione di Lebensraum, spazio vitale, che non è assolutamente presente nell’idea schmittiana del Großraum, che ha un’altra origine, un’altra vocazione. Lì c’è un passaggio schmittiano, decisivo. Per riprendere il tema delle fasi di pensiero, tutti i grandi pensatori, secondo me, hanno sostanzialmente due grandi fasi di pensiero. I piccoli pensatori ce ne hanno tante, che si mettono in fila una dietro l’altra, al punto da non riconoscersi più tra loro. Il grande pensatore pensa fortemente una tesi forte all’inizio, poi è costretto nella seconda fase della sua vita, per spiegarla e svilupparla, a trovare un qualche cosa di complementare, cioè di ripartire da un altro punto per arrivare alle stesse cose che ha sostenuto all’inizio, ed è un po’ quello che fa Schmitt. Lì c’è un passaggio appunto dal vecchio nomos al nuovo nomos, un passaggio che caratterizza Schmitt anche come pensatore tragico, che tragicamente sente le cose della storia vissuta, deluso dalla storia, non direi vinto, perché vinto non si dichiara mai tranne in un brevissimo periodo, quello degli arresti, quando scrive Ex captivitate salus, un momento di interiorizzazione sofferta e malinconica, però sicuramente deluso dalla storia, perché lui capisce che il primo nomos aveva avuto un carattere fortemente eurocentrico, si è detto appunto l’Europa che globalizza il mondo e lì appunto si produceva contrapposizione tra terraferma e mare libero e infatti da lì vengono anche le sue idee su terra e mare.

Mentre dunque vede nel primo nomos, dal Cinquecento al 1918, questa centralità dell’Europa, poi nel nuovo nomos, come lo descrive appunto negli anni ’40-50, non è più l’Europa che globalizza il mondo ma è il mondo che sta globalizzando l’Europa e nella forma specifica della americanizzazione dell’Europa, della occidentalizzazione, che fa l’Atlantico più stretto, per usare una formula a noi familiare. Teniamo presente che il pensiero dell’Europa non si identifica con il pensiero dell’occidente, è qualche cosa di diverso e di più complesso, e questa è poi la differenza profonda tra Kelsen e Schmitt, perché Kelsen è veramente un pensatore occidentale, il pensiero schmittiano ha invece un fondamento europeo».

Terra e Mare, il criterio del politico

«Nella dialettica di Terra e Mare, in cui io ritrovo invece il criterio del politico, cioè la conflittualità tra queste due dimensioni, per Schmitt l’Europa continente è terra, mentre il mondo anglosassone è mare. Nel 1948 Schmitt scopre il paragrafo 247 dei Lineamenti di filosofia del diritto di Hegel, dove Hegel fa quella straordinaria previsione, come sapeva fare solo lui, dicendo: guardate che la rivoluzione industriale non a caso è arrivata per primo in Inghilterra, un’isola, perché la rivoluzione industriale ha una dimensione marittima inevitabile, tutto quello che c’era prima aveva una dimensione terranea, perché era abitata dal mondo contadino, e poi avvertiva che il mare vuol dire anche la fluidità, l’incertezza, dove c’è da mettere in conto anche il naufragio. Quando Schmitt dice spazio, Raum, ritorna un po’ a questa dimensione primigenia della terra, se è vero che a lui interessavano questi ordinamenti legati a un’antropologia, diciamo così, storica. Tutta l’idea di spazio è una idea che lui coltiva in modo anche inquieto perché la sente come un problema di pensiero che in qualche modo gli faceva vedere addirittura la fine di un mondo, uno spazio che andava oltre la terra, che assumeva il mare, il cielo e si proiettava quindi in dimensioni, che sentiva non più controllabili e per lui controllabili vuol dire politicamente controllabili, perché è un giurista, dice di essere un giurista, ma la sua grande forza è che è un giurista politico, ma fortemente politico, che vede dentro il diritto il grande tema della politica moderna».

Un giurista politico, contro la deriva della deterritorializzazione

«Basta immergersi in quella marea di osservazioni geniali, anche personali, anche a volte psicologicamente interiorizzate, contenute nel Glossarium, un libro che a tutti i detrattori di Schmitt consiglio sempre di leggere perché lì si vede la grande personalità, la ricchezza spirituale di un giurista filosofo, un giurista politico. Lì, in una di queste osservazioni, scriveva: “Mi affatico, con fanciullesca serietà, in quanto uomo “antico”, intorno alla magia dello spazio. Non la voglio comprendere, tanto meno produrre, ma voglio sapere

di essa e con ciò custodirla per altri”. Questo appunto nel 1947 e nello stesso periodo scriveva: “L’ordinamento eurocentrico finora vigente del diritto internazionale sta oggi tramontando. Con esso affonda il vecchio nomos della terra”. Sentiva dunque proprio questa fine. Schmitt è realista, dice le cose come stanno e dice le cose come sono state, è un grande pensatore conservatore, che mi dà quello che non mi dà il pensiero democratico progressista, che invece è portato a mascherare la realtà sovrapponendovi una serie di apparati ideologici, universalistici, umanitari e che di conseguenza ti fa sparire dalle mani e quindi dall’agire politico concreto il vero efficace “che fare”, perché non trovi più le realtà effettuali, trovi solo false apparenze. Allora è chiaro che l’idea schmittiana d’Europa è un pensiero conservatore, si tratta però almeno di una idea d’Europa. Cantaro ad un certo punto della sua relazione diceva che trovava sgradevoli alcune affermazioni di Schmitt, quando impianta una critica europea del mondo anglosassone. Credo invece che sia, questa, una cifra oggi fondamentale per ricostruire una idea politica dell’Europa, perché se il nuovo nomos, diciamo così post novecentesco, si è presentato come un nomos economico ed è stato poi appunto il nomos che ha vinto, quello del mare, della nave inglese che approda negli Stati Uniti e poi dagli Stati Uniti torna verso di noi, quello dell’Europa deve essere un nomos politico. O è questo o l’idea d’Europa – la Kultur Europa -storicamente non rinasce, non ritorna. Per usare le parole che sono state qui oggi presenti, contro questa deriva di deterritorializzazione, di delocalizzazione del politico, di questo politico portato in un’altra dimensione, in funzione subalterna, nel rivendicare la ricostituzione del primato della politica, a partire dall’Europa, sta esattamente l’uso che possiamo fare oggi del pensiero di Schmitt».

Un pensiero inattuale, cioè autenticamente trasgressivo

«Dunque, intanto io non mi avventuro nel giudizio su Schmitt attuale o inattuale, perché messa così, dopo Nietzsche, io non so mai quale dei due giudizi sia da preferire. Propendo per il secondo, cioè per l’inattualità di un pensatore, che con questa modalità incide di più in senso trasgressivo.

In un tempo come l’attuale, essere inattuale è piuttosto un valore. Invece la cosa che vorrei sottolineare è che bisogna stare attenti a che il discorso sul nomos. anche quello che è stato fatto qui, non sia quello della riscoperta di uno Schmitt, non dico buono, ma apprezzabile rispetto all’altro Schmitt, che invece va tenuto a debita distanza, lo Schmitt dello stato d’eccezione, del criterio dell’amico/nemico, della decisione. Il passaggio alla seconda fase, capita a Schmitt, è capitato ad Heidegger, è un modo per riprendere lo stesso discorso, magari adattato alla situazione nuova, alla nuova contingenza. Io sono infatti convinto che Schmitt è, machiavellianamente, un grande pensatore della contingenza. Poi l’occasionalismo gli è stato attribuito, da Löwith e altri, ma per il fatto che è un pensatore che pensa il tempo anche breve entro cui sta, non solo il tempo lungo della storia. E qui riesce molto bene a fare questa cosa, perché il discorso sul nomos, quello esplicito, quello che stiamo discutendo oggi, pur sapendo che viene da lontano, matura poi negli anni ’45-’50, dopo la fine non solo delle due guerre mondiali, ma dopo la fine dell’età delle guerre civili europee e mondiali, l’età che Schmitt ha vissuto e che ha interpretato con le sue famose categorie, quelle, diciamo, cattive, quelle che nei nostri tempi buonisti si è portati sempre ad allontanare da sé. Però erano delle categorie che stavano dentro quell’epoca, non si possono estrapolare, poi c’è da capire se possono sopravvivere a quell’epoca, oppure no. Possono, a mio parere, sopravvivere nel modo in cui Schmitt le ha fatte sopravvivere, prendendo il tema dell’era globale e interpretandola a modo suo, senza abbandonare quelle prime categorie».

L’equilibrio dei grandi spazi

«Tanto è vero che negli anni ’50, lui arriva a disegnare tre scenari. Era in atto la guerra fredda, quel tipo specialissimo di guerra che, secondo me, non è stato ancora pensato fino in fondo, quel tipo di guerra non guerreggiata e che pure era guerra vera, era veramente la terza guerra mondiale, che però teneva presente l’esperienza delle prime due guerre e tentava di non ripetere, ed è riuscita a non ripetere, l’inutile massacro. Primo scenario: uno dei due grandi poli inevitabilmente vincerà e infatti uno dei due ha vinto e l’altro ha perso. Secondo scenario: la dimensione del mare, che poi è anche dimensione della tecnica, della nave rispetto alla casa, passa dall’Inghilterra agli Stati Uniti, un passaggio già preparato e realizzato attraverso la seconda guerra. Terzo scenario: quello degli equilibri tra grandi spazi, uno scenario più interessante, perché più attuale, perché è quello che veramente evoca quanto è poi avvenuto nel nuovo nomos, nella seconda, nella terza globalizzazione, e cioè i grandi spazi indipendenti l’uno dall’altro. La cosa interessante, e attuale, in questo scenario dei grandi spazi indipendenti – ed ecco il primo Schmitt che ritorna – è il fatto che riemerge, in altre forme, il criterio del politico. Questo scenario dei grandi spazi indipendenti lo vedo molto legato al concetto schmittiano del politico come pluralità di soggetti politici sovrani. Questa è la sua idea del politico e proprio questa pluralità dei soggetti politici sovrani è quella che decide l’inestinguibilità del politico, proprio perché lì si ripropongono tutte le tensioni addirittura primordiali, addirittura esistenziali dell’amico/ nemico. Schmitt, pur parlando di neutralizzazione e di politicizzazione, è convinto che la politica riemerge proprio ad opera delle grandi forze che guidano il mondo, l’economia, la finanza, la tecnica. È vero infatti che nel mercato mondiale c’è la politica, nell’impresa multinazionale c’è la politica, che nel dominio della tecnica c’è la politica. Ho trovato molto acute le pagine centrali della relazione di Cantaro questa mattina, quelle sul ciberspazio, non erano affatto estranee al nostro discorso, le aveva ben incardinate tra la prima e la seconda parte. Ad un certo punto ho temuto che finisse lì e invece ha fatto bene a riprendere di lì il discorso teorico-politico».

Un teorico dell’attesa, che in questo sento congeniale

«Qual è la differenza che questa dimensione introduce rispetto al passato della forma politica dello Stato e della forma politica del partito? È che queste forme assumevano la politica in quanto tale, quelle altre la subordinano, la sussumono. È chiaro che dentro l’economia globale c’è una politica-mondo, però la politica nel mondo non emerge, non emerge più, emerge soltanto la competizione a livello economico. E allora tu devi fare una traduzione politica e questo è il compito del pensiero politico, quello di tradurre politicamente la politicità dell’economia, la politicità della finanza, la politicità della tecnica. Devi tradurre quello che un tempo non c’era bisogno di tradurre, perché era la lingua della politica moderna, che poi era la grande politica europea.

Allora quando vediamo emergere uno schema di soggetti politici a grandi spazi, dobbiamo capire che lì si riproporrà in termini macroscopici, anche rispetto al passato, una competizione politica mondiale. Schmitt non voleva prefigurare mai niente, non era un pensatore progettuale, era un teorico dell’attesa, io questo lo sento molto congeniale, anche io sento che oggi non c’è niente da progettare, si tratta di attendere quello che sta per avvenire, di poterlo in qualche misura prevedere per prepararsi anche politicamente. E che cosa si può prevedere? Quello che è accaduto nella lotta tra Stati-nazione si ripresenterà in grande nel conflitto amico-nemico tra Stati-continente».

L’assenza della sinistra europea e noi…grilli parlanti.

«L’idea che la globalizzazione stia preparando un’epoca di pace universale è veramente utopia, il pensiero realistico ci dice, Schmitt ci dice, che la pace è sempre a termine, che la pace ad un certo punto va conclusa come si conclude la guerra. In questo, l’Europa che cosa può fare? L’Europa ha un grande compito, perché è vero che c’è questo spostamento, adesso, dalla terra e dal mare, attraverso la sovradimensione della tecnica, all’etere. Però, è questo l’elemento fondamentale, è questo che determinerà il futuro del mondo? Non è piuttosto qualcosa di appunto nuovamente primordiale e cioè il fatto che ci sarà uno squilibrio a livello mondo. Allora, una Europa che riassume in sé una vocazione politica, in che modo deve schierarsi? In che modo deve tornare a sentire quella che è la sua vocazione storica? Per me è intanto importante che si liberi dalla subalternità attuale, subalternità al postmoderno da parte un’idea – Europa – che può solo e sempre essere moderna, in senso classico. Se è vero che l’Europa è terra, forse la vocazione sua è da una altra parte, forse il grande tema del momento è questo spostamento strategico e geopolitico tra i due oceani, dall’Atlantico al Pacifico. Ma allora è lì che bisogna lavorare per una idea d’Europa, con una organizzazione politica dell’Europa, ma anche con un nuovo pensiero dell’Europa, per funzionare da ponte di transito di questo spostamento, da ovest a est, da nord a sud. Da Schmitt, ma ben oltre Schmitt, il problema è di elaborare e presentare al dibattito pubblico nuove e diverse idee di mondo e farle magari confliggere, badando a che il conflitto non diventi guerra. Una vocazione dell’Europa sarebbe proprio questa, che questi soggetti politici sovrani dei grandi spazi possano confrontarsi non attraverso la guerra, ma nemmeno solo attraverso il mercato. Ecco questa forse è la missione europea che bisognerebbe far emergere. Se ci fosse una sinistra europea, questo compito dovrebbe assumere. Chiedere quello che nessuno al momento può dare è invece piuttosto il compito di noi … grilli parlanti»

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