IDEATO E DIRETTO
DA ANTONIO CANTARO
E FEDERICO LOSURDO

IDEATO E DIRETTO DA ANTONIO CANTARO E FEDERICO LOSURDO

Sionismo e colonialismo. Una riflessione non polemica

Tutto ciò che è accaduto e accadrà tra Israele, palestinesi, arabi e musulmani è colpa nostra. Anche gli israeliani hanno colpe e anche gli arabi, i musulmani e gli Usa. Ma a cominciare siamo stati noi europei. Se non lo riconosciamo, ogni cosa che diciamo è menzogna.

Nel 1894 in Francia esplode l’affaire Dreyfus. Il capitano Dreyfus, ufficiale di Stato Maggiore, è accusato di spionaggio a favore della Germania. Le prove sono fragili, ma Dreyfus è ebreo. In quanto ebreo, è il colpevole ideale. Molti in Francia, nell’esercito e non solo, sono convinti che un ebreo non possa essere un buon patriota, che sia costitutivamente un traditore. Siccome non ci sono prove sufficienti, invece di cercare altrove si fabbricano prove false. Ne nascerà una controversia durissima, che avrà il carattere di una vera guerra civile ideologica, non senza atti di violenza e un tentato omicidio. Per gli antidreyfusardi, il punto essenziale non è se Dreyfus sia colpevole o innocente, ma che bisogna combattere la nefasta influenza ebraica sulla società francese. In Occidente non accadeva da decenni una simile esplosione d’odio antisemita. Il tardivo e compromissorio riconoscimento dell’innocenza di Dreyfus, chiaramente, non risolve il problema, perché il vero problema non era quello.

 L’affare Dreyfus e la fondazione del sionismo

Il giornalista austriaco Theodor Herzl, ebreo anche lui, viene inviato in Francia a seguire il caso. Si convince che l’emancipazione e assimilazione degli ebrei è un fenomeno superficiale: mai in Europa gli ebrei potranno essere sicuri, mai saranno considerati cittadini come gli altri. Saranno degli eterni stranieri, vittime designate di esplosioni di odio fanatico che sempre ci sono state e sempre ci saranno. Gli ebrei sono un popolo senza patria e nessuna nazione europea li riconoscerà mai davvero come propri cittadini a pieno titolo. L’unica soluzione è che trovino una patria.

Herzl non è l’unico fondatore del sionismo, e in qualche modo il sionismo esisteva già. Esisteva, però, come ideologia modernista ed emancipatrice, fondata sulla versione ebraica dell’Illuminismo, la Haskalah, di cui furono protagonisti, tra Settecento e Ottocento, diversi intellettuali ebrei tedeschi, il cui più illustre esponente fu Moses Mendelssohn. Si trattava però di un orientamento assimilazionista, mirante al pieno riconoscimento dei diritti degli ebrei nell’ambito delle nazioni di cui erano cittadini, ma mirante nello stesso tempo a un mutamento dei costumi e della mentalità ebraica in vista di una completa europeizzazione. È soprattutto con Herzl che si passa dall’assimilazionismo al nazionalismo ebraico: gli ebrei non devono essere cittadini di pieno diritto negli Stati europei, ma cittadini di un proprio Stato, che sia per tutti gli ebrei un rifugio sicuro da discriminazioni e persecuzioni.

Il movimento sionista e lo Stato ebraico

Il movimento sionista non è unitario: ci sono diverse tendenze anche in conflitto tra loro. Non tutti i sionisti vogliono uno Stato ebraico. Nell’Europa orientale il movimento socialista del Bund si propone piuttosto una trasformazione sociale che superi i conflitti tra etnie, religioni e classi. Non tutti i sionisti inoltre concordano sull’ubicazione del futuro Stato ebraico. Trattandosi di un movimento laico, non per tutti è indispensabile che sia collocato nell’antica terra d’Israele, ormai arabizzata e soggetta all’impero ottomano. Molti pensano agli ampi territori dell’Europa orientale in cui la presenza degli ebrei è rilevante e talvolta persino maggioritaria. Non si trascurano neppure ipotesi africane o sudamericane. Di fatto però l’unico progetto che inizi quasi da subito ad avere attuazione è quello di Herzl: l’emigrazione degli ebrei, soprattutto dall’Europa orientale e dalla Russia, verso la Palestina. Lo Stato ebraico non nascerà che nel 1948, ma per decenni una graduale e talvolta semiclandestina emigrazione modificherà profondamente la demografia palestinese, moltiplicando rapidamente il numero degli ebrei e portando alla fondazione di kibbutz, villaggi e città.

La Shoah prima di Hitler    

Inutile continuare la trattazione di una vicenda storica che, almeno nelle linee generali, è tragicamente nota a tutti. Mi sembra più utile soffermarsi su un punto: Herzl aveva ragione. Non è un’opinione, è un dato di fatto storico. La sua non era una gratuita e magari fanatica utopia: era l’unica prospettiva realistica. Se le posizioni sioniste alternative e la stessa posizione assimilazionista spariscono prestissimo dall’orizzonte, è perché le persecuzioni antisemite scoppiano su vastissima scala già a fine Ottocento. L’affaire Dreyfus è nulla in confronto al succedersi di pogrom in Russia, Lituania, Polonia e, soprattutto durante la guerra civile russa, in Ucraina. È già un vero genocidio: i morti, mai contati, sono comunque decine di migliaia. Gli ebrei orientali che emigrano in Palestina si salvano la vita. Se fossero stati di più, molte più vite si sarebbero salvate, e se anche gli ebrei tedeschi, all’epoca i più assimilati e i più sicuri dei loro diritti in Europa, li avessero seguiti, forse la Shoah non ci sarebbe stata o avrebbe avuto proporzioni diverse. Rendiamocene conto: la Shoah è iniziata prima di Hitler, che non ha fatto altro che organizzarla dandole una struttura tecnico-burocratica efficientissima. Hitler non sarebbe stato possibile, probabilmente, se l’idea che gli ebrei, in un modo o nell’altro, debbono sparire non fosse stata radicatissima in Europa, sostenuta da un vasto ed entusiastico consenso. Non abbiamo il diritto di dimenticare che alla Shoah hanno contribuito poco o tanto, a volte tantissimo, molti popoli europei, non soltanto i tedeschi. Polacchi, rumeni, ungheresi, francesi, ucraini hanno fatto la loro parte. E, in maniera assai vigliacca, anche noi italiani, che non riusciamo ancora a vergognarci abbastanza del fascismo. Non c’è ebreo italiano vittima della Shoah alla cui morte non abbiano contribuito i fascisti.

Perché la Palestina?

Cos’altro si sarebbe potuto fare? Che alternativa c’era allo Stato d’Israele se non Auschwitz? Coloro che avversano il sionismo lo dovrebbero sapere, che stanno di fatto affermando che meglio dell’emigrazione degli ebrei sarebbe stata la morte degli ebrei.

Si sarebbe potuto fondare altrove, lo Stato d’Israele? In teoria sì, ci si era pensato. Ma il luogo di maggior concentrazione demografica degli ebrei, l’Europa orientale, era anche quello in cui più precocemente era esplosa la violenza: era proprio da lì che gli ebrei fuggivano. Altrove, nelle colonie europee? Nessuna potenza coloniale manifestò il minimo interesse per la cosa, a parte ogni considerazione su quello che ne avrebbero pensato le popolazioni native. In Sudamerica? Tutti gli stati sudamericani posero ostacoli all’emigrazione ebraica, persino durante il nazismo, col quale non poche dittature sudamericane simpatizzavano. La sola reale alternativa era l’emigrazione negli Stati Uniti, che in effetti fu massiccia, anzi ben più massiccia dell’emigrazione in Palestina. Bisognerà pur che lo riconosciamo, nonostante lo strisciante odio antiamericano da cui non riusciamo a liberarci e che magari crediamo sia “di sinistra” mentre è un rigurgito fascista bello e buono, che gli Usa sono l’unico luogo in cui l’antisemitismo, pur esistendo eccome, non ha mai avuto un consenso tale da essere una reale minaccia. Ma abbiamo il diritto di dire che, siccome noi europei non volevamo gli ebrei, tutti quanti sarebbero dovuti andare negli Usa, e gli Usa avrebbero dovuto prenderseli tutti?

Per quali ragioni, dunque, la Palestina? Certamente agiva fortemente sul movimento sionista il mito identitario del ritorno alle origini, alla Terra Promessa. Ma la ragione di maggior importanza pratica era tutt’altra: era che gli arabi e i musulmani in genere non avevano mai avuto particolari problemi (con rarissime anche se cruente eccezioni) a convivere con gli ebrei, e che il governo ottomano, debole e corrotto, non aveva né la forza né la volontà di opporsi seriamente. In Palestina gettare le fondamenta di uno Stato ebraico era molto più facile che in qualsiasi altra parte del mondo.

A cominciare tutto siamo stati noi europei

Possiamo riassumere quanto detto in alcuni punti fondamentali.

  1. Il sionismo nasce da una pervicace discriminazione e persecuzione di cui gli ebrei sono stati vittima, a intervalli, dovunque in Europa in ogni epoca;
  2. Le origini del sionismo coincidono con una recrudescenza dell’antisemitismo e anticipano di pochi decenni la sua più terribile esplosione;
  3. Chi subisce una persecuzione non ha alcun obbligo di sottostarvi e ha pieno diritto di cercare di sottrarvisi in ogni possibile modo;
  4. La colpa delle persecuzioni è dei persecutori e non delle vittime (dovrebbe essere ovvio, ma il cuore del problema è precisamente che non lo è);
  5. Il sionismo è in sostanza l’espulsione degli ebrei dall’Europa, soprattutto orientale, da parte degli europei; il fatto che sia stata un’espulsione per così dire autogestita non cambia la natura della cosa;
  6. Il sionismo è dunque di per sé un fenomeno persecutorio la cui responsabilità è di noi europei e non dei sionisti, che non hanno fatto altro che cercare di salvarsi da noi;
  7. A fare le spese della gigantesca espulsione degli ebrei dall’Europa ad opera più o meno di tutti i popoli europei (non solo gli Stati, che non sempre agivano direttamente: proprio i popoli) sono stati gli arabi, che non c’entravano niente ed erano sostanzialmente privi di colpe storiche significative riguardo all’antisemitismo;
  8. Tutto quello che è accaduto e tutto quello che accadrà tra Israele, i palestinesi e gli altri arabi e musulmani in genere è originariamente colpa nostra. Anche gli israeliani ovviamente hanno colpe, e anche gli arabi e musulmani in genere ovviamente hanno colpe, e anche gli Usa ovviamente hanno colpe, ma a cominciare tutto quanto siamo stati noi europei. Se non riconosciamo questa colpa storica, ogni cosa che diciamo è menzogna.

 Il sionismo è una forma di colonialismo

Ciò detto: il sionismo è una forma di colonialismo, e quindi Israele è uno Stato coloniale? Sì. Anche questo è un dato storico e non un’opinione, una constatazione di fatto e non una contestazione polemica. Lo Stato d’Israele nasce dal trapianto di popolazioni europee (gli ebrei d’Europa sono europei) in un altro continente e presso altre popolazioni di altra lingua, altra religione, altri costumi, altra storia, altra civiltà. È un evidente fenomeno di colonizzazione, che come ogni fenomeno di colonizzazione ha comportato espropri di terre e risorse, riduzione o negazione di diritti, l’interruzione repentina della storia di altri popoli e il loro inserimento forzato e subordinato nella storia dei colonizzatori, atti di violenza fisica e morale, espulsioni di massa, guerre. Sarebbe successo in qualsiasi modo, anche se lo Stato d’Israele fosse stato fondato in Africa o in Sudamerica. Non sarebbe stato meglio, né più giusto. Sarebbe stato più giusto non fondarlo proprio? Sì, se non ci fosse stata Auschwitz e tutto ciò che l’ha preceduta e l’ha seguita. Siccome c’è stata Auschwitz, l’ingiustizia era inevitabile e la colpa di fondo non è di chi l’ha esercitata, ma di chi l’ha costretto ad esercitarla. Se ne può uscire tornando indietro e cancellando il già fatto? Ovviamente no, la storia non è una pellicola che si possa riavvolgere.

Non è l’unico caso, anzi. Tutto il colonialismo in sostanza è così. È la parte più rimossa della nostra storia, non ne vogliamo sapere niente, ci sembra sufficiente pensare che è roba passata da dimenticare, non senza qualche retropensiero che non osiamo manifestare, per esempio che non era poi tanto male, perché costruivamo strade e ferrovie e portavamo la civiltà a popoli selvaggi…

Il colonialismo è anche un gigantesco fenomeno di persecuzione interna

Cominciamo col dire che era male, proprio tanto. Non c’è stato nulla di più selvaggio, nella storia dell’umanità, della “civilizzazione dei selvaggi”. Nulla ha devastato più vite, nulla ha causato più morti. Abbiamo le nostre buone, anzi cattive, ragioni se tutto ciò preferiamo rimuoverlo. Ma lo rimuoviamo non soltanto se ce ne dimentichiamo o lo edulcoriamo. Lo rimuoviamo anche se lo interpretiamo superficialmente, vedendolo come un fenomeno di prevaricazione violenta dei popoli europei sui popoli extraeuropei. Sì, certo, questo è vero ed è probabilmente la cosa più importante. Ma questa consapevolezza resta monca se non comprendiamo come la cosa funzionava. Il colonialismo è la proiezione esterna di un gigantesco fenomeno di persecuzione interna. Il colonialismo è l’espulsione in territori alieni di grandi masse di indesiderati di qualsiasi natura: dissidenti religiosi, criminali e devianti, minoranze etniche, poveri. A volte l’espulsione è organizzata e coercitiva: l’Australia viene popolata così, spedendovi galeotti e prostitute. Avviene qualche volta anche in America: i francesi in Louisiana facevano lo stesso. Altre volte, proprio come la colonizzazione israeliana, è un fenomeno autogestito, “volontario”. Chi non ce la fa a vivere in Europa va a vivere altrove, nelle colonie. Cioè: coloro a cui vengono negati diritti, dignità e speranze, coloro che in Europa non possono lavorare, non possono pensare liberamente, non possono vivere secondo la loro religione, a volte semplicemente non possono mangiare, vanno, non possono fare altro che andare, a vivere nelle colonie, dove a volte trovano davvero spazio, libertà e speranza, a danno di qualcun altro che non aveva nessuna colpa. L’alternativa è morire di fame, finire in galera, dover rinunciare a sé stessi, vivere in ginocchio. La colpa non è di chi va, è di chi, in un modo o nell’altro, lo costringe ad andare.

Poi, certo, ci sono anche i governatori, le guarnigioni, gli apparati burocratici, i commercianti, gli speculatori, i mercanti di schiavi, i piantatori, gli sfruttatori, quelli che si arricchiscono. Di solito, le rare volte che pensiamo al colonialismo vediamo soltanto questo: conquista e sfruttamento. Ma questa è solo una faccia della medaglia, non vediamo l’altra, cioè l’espulsione persecutoria, senza cui non ci sarebbero né conquista né sfruttamento. Conquista e sfruttamento possono aver fine, e così davvero è successo. Magari ritornano in altra forma, ma la dimensione propriamente coloniale finisce. L’espulsione persecutoria però non finisce, non ha ritorno. A questo non c’è rimedio.

Quando l’aspetto espulsivo del colonialismo è limitato, dove l’aspetto della conquista militare e dello sfruttamento economico è stato preponderante, un qualche parziale rimedio c’è. Gli inglesi se ne sono andati dall’India; non erano tanti, avevano mantenuto un ruolo riconosciuto nella loro società di partenza, avevano patria altrove, avevano prospettive di vita al ritorno, non erano dei veri trapiantati, non erano, se non marginalmente, degli espulsi. Ovviamente la storia dell’India è irreversibilmente cambiata comunque: non sapremo mai se in meglio o in peggio. Però l’India ha comunque ripreso un cammino proprio. Così in molti altri luoghi, ma non dappertutto.

La soluzione non è la vendetta, ma la convivenza su basi eque.

Sarebbe giusto restituire terre, praterie, magari bisonti ai nativi americani? Visto che gli sono stati sottratti violentemente e contro ogni diritto sì, sarebbe giusto. Sarebbe giusto ridare l’Australia agli aborigeni? Sono stati oggetto di un genocidio strisciante e seminascosto fino a tempi recentissimi: sì, sarebbe giusto. Sarebbe giusto espellere i bianchi dal Sudafrica, dopo tutto quello che hanno fatto ai neri? Sì, sarebbe giusto. Sarebbe giusto ridare la terra d’Israele agli arabi? Data la loro sostanziale mancanza di colpe (intendo riguardo alla situazione originaria, come sopra descritta, sia chiaro; riguardo a quel che è accaduto dopo nessuno è innocente), sì, sarebbe giusto.

Ma è possibile, e a che prezzo lo sarebbe? No, non è possibile. Il prezzo sarebbe catastrofico, ma comunque non è proprio possibile. Non si riesce a immaginare quale forza politico-militare potrebbe cacciare i “bianchi” dagli Usa o dall’Australia, e se poi volessimo abbandonarci a un futile esercizio di fantapolitica, la catastrofe economica e umanitaria sarebbe del tutto ingestibile. Né si può rendere giustizia mediante un’ingiustizia uguale e contraria. Non è molto diverso quando i colonizzatori sono minoranza e non maggioranza come nei casi indicati. L’aveva capito benissimo Mandela: gli afrikaner non sono degli anglo-olandesi che potrebbero ritornare nelle loro terre d’origine, sono la “tribù bianca” dell’Africa, ormai africani esattamente quanto i neri. La soluzione non è la vendetta, l’espulsione, la persecuzione al contrario, ma la convivenza su basi eque.

Purtroppo non si vede un Mandela palestinese. Se c’è probabilmente marcisce in una prigione israeliana. Ma la soluzione non può essere diversa, se mai una soluzione ci sarà. Chi vuole la distruzione dello Stato d’Israele vuole il genocidio degli ebrei. Dovrebbe essere evidente anche ai più idioti. D’altronde gli estremisti più fanatici lo dicono chiaro che vogliono esattamente questo. E non manca tra di noi chi, magari sentendosi chissà perché “di sinistra”, gli dà ragione. Naturalmente, chiunque dica questo ottiene esattamente il contrario: sta chiaramente dimostrando che lo Stato di Israele ci deve essere, e perché ci deve essere. E tutti al mondo sanno che Israele, sebbene non ufficialmente, è una potenza nucleare e che in caso di minaccia estrema le armi atomiche sarebbero usate.

Israele deve esserci, i palestinesi devono esserci

Per gestire il fenomeno storico Israele bisogna partire dalla sua irreversibilità. Che non è solo un dato di fatto geopolitico, è un’esigenza etica. Israele è un prodotto delle persecuzioni antisemite in Europa, non c’è modo di metterne in discussione la legittimità senza affermare, magari solo indirettamente ma comunque con lampante chiarezza, che le persecuzioni antisemite erano giuste e avrebbero dovuto portare alla totale distruzione degli ebrei. O Hitler aveva ragione, o Israele deve esserci: non ci sono vie di mezzo. Naturalmente anche gli arabi, e in particolare i palestinesi, devono esserci. Perché non è pensabile che possano non esserci, e perché nella loro situazione li hanno messi le nostre colpe storiche, non le loro. Sono loro che pagano per noi, e hanno pagato già più che abbastanza. Occorrono riconoscimenti, risarcimenti, tutele, garanzie, libertà, diritti. La sola alternativa alla convivenza è, si potrebbe dire, la con-morienza; la distruzione reciproca. Non c’è altra via se non il compromesso. In quale forma? Una certamente difficile, precaria, contrastata, fragile, oggettivamente conflittuale, coesistenza di due popoli in due Stati. Forse, in prospettiva di lunghissimo periodo, certamente utopica ma non del tutto impossibile, la coesistenza di due popoli in un solo Stato. In astratto sarebbe la cosa più giusta, ma al momento è, appunto, un’astrazione vertiginosa. Per renderla possibile dovrebbe finire per sempre quella che finora è stata una costante storica: l’odio per gli ebrei. Che è un’invenzione nostra: uno dei più antichi e consolidati “valori europei”. Forse quello che abbiamo esportato con più successo.

Per quello che ci riguarda come europei, non dobbiamo, non abbiamo il diritto di, risparmiarci questa consapevolezza: della tragedia storica che è in atto da decenni e che in queste settimane sta avendo una terribile recrudescenza non siamo meri spettatori, più o meno distratti o più o meno indignati. La distrazione è una vergogna e l’indignazione è un’ipocrisia. Di quella tragedia siamo gli autori. Lo “spettacolo” a cui assistiamo è il nostro specchio, ci dice cosa veramente siamo.

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