IDEATO E DIRETTO
DA ANTONIO CANTARO
E FEDERICO LOSURDO

IDEATO E DIRETTO DA ANTONIO CANTARO E FEDERICO LOSURDO

UE ed Africa: dal colonialismo al boomerang della sicurezza

La Comunità europea contiene i semi del neo-colonialismo. L’Ue ha esteso il paradigma neoliberale al continente africano, condizionando i finanziamenti a riforme strutturali e rispetto dei diritti umani: quegli stessi diritti sacrificati sull’altare dell’esternalizzazione delle politiche migratorie.

Le radici coloniali dell’UE

Non è più una prerogativa dei soli studiosi americani quella di rintracciare nel progetto originario dell’integrazione europea i semi dell’imperialismo o, meglio, del neo-colonialismo (Snyder; Hansen e Jonsson; Rehling Larsen; Gozzi). Il Trattato CEE del 1957 non faceva confluire nel mercato unico solo i sei Paesi fondatori, bensì anche le colonie francesi (e belghe), riconoscendone il rapporto di subordinazione coloniale. La Francia aveva, del resto, chiaramente subordinato il proprio consenso al varo della CEE alla condizione che il finanziamento delle sue colonie fosse “socializzato”, ossia posto a carico degli altri Stati membri attraverso quello che poi sarebbe stato il Fondo europeo per lo sviluppo, a fronte di profitti fondamentalmente conservati a sé stessa (le colonie come mercato di sbocco dei propri manufatti esportati a prezzi non competitivi). L’opposizione degli altri Stati fondatori (Italia in primis) fu superata grazie all’accordo tra Francia e Germania circa la possibilità per quest’ultima di continuare ad avere rapporti commerciali privilegiati con l’America Latina (Gozzi, 244).

A quell’inclusione delle colonie francesi nel Trattato CEE faceva seguito, dopo l’ondata di de-colonizzazione del 1960, la prima stagione degli accordi di associazione con la Convenzione di Yaoundé del 1963 tra CEE e Paesi “ACP” (Africa, Caraibi e Pacifico). Lo spirito di questa Convenzione era chiaramente neo-coloniale, con i Paesi ex-colonie artificialmente posti su un piano di reciprocità con gli Stati membri europei, per cui, a fronte della possibilità di accedere al mercato di sbocco europeo per le merci ACP, la CEE godeva del privilegio di accedere ai mercati ACP senza dazi e altri ostacoli alle esportazioni. Il che valeva a cristallizzare uno scambio commerciale asimmetrico, ove le ex colonie, a fronte dell’esportazione di prodotti agricoli e materie prime nella CEE, erano ‘vocate’ a importare i beni lavorati dagli Stati europei, oltre che a impiegare i finanziamenti europei per l’acquisto di beni e servizi offerti esclusivamente dalla CEE. Il Fondo europeo per lo sviluppo, inoltre, non veniva utilizzato per l’industrializzazione dei Paesi ACP, ritenendo ciò spettasse al solo settore privato (Gozzi, 246s.).

La traccia più tangibile di questo assetto asimmetrico neo-coloniale è rappresentata dal c.d. franco CFA, ossia la costruzione di due unioni monetarie con la madrepatria francese (Union Économique et Monetaire Ouest-Africaine-UEMOA; Communauté Économique et Monetaire de l’Afrique Centrale-CEMAC), in cui circolava il franco francese e ora l’euro. Fondate unilateralmente dalla Francia nel 1945, queste unioni monetarie nascono con la fissazione di un cambio sopravvalutato rispetto al franco “metropolitano”, senza che ciò avesse alcun fondamento economico valido, se non quello di permettere alla Francia di conservare il proprio controllo coloniale. Un franco CFA sopravvalutato, infatti, rendeva poco convenienti le esportazioni (svantaggiando le produzioni delle colonie africane francesi rispetto ai concorrenti asiatici o dell’America Latina), salvo quelle verso la madrepatria, con cui esistevano accordi specifici; la Francia, a sua volta, beneficiava di un franco metropolitano svalutato che agevolava l’esportazione nelle colonie dei suoi manufatti non competitivi (Gozzi, 222ss.). Un regime monetario che, nonostante le cattive performance della crescita dei Paesi africani interessati, è stato (inspiegabilmente?) perpetuato anche dopo il passaggio del franco metropolitano all’euro (il cui apprezzamento continua a scoraggiare la produzione locale rispetto alle più economiche merci d’importazione: Gozzi, 228).

L’evoluzione delle Convenzioni di associazione tra Europa e i Paesi ACP

Il 1974 non è solo l’anno del Nobel per l’economia a Von Hayek, ma anche quello del coraggioso, quanto vano, lancio del “New International Economic Order” (NIEO) da parte dei Paesi in via di sviluppo e dell’Assemblea generale delle N.U. da questi maggioritariamente controllata. Il manifesto (sostenuto anche dall’economista svedese Gunnar Myrdal, anch’egli Nobel per l’economia nel 1974) puntava all’azzeramento del debito dei Paesi in via di sviluppo e all’instaurazione di nuove relazioni economiche globali, sul presupposto che le masse dei poveri del mondo non avessero bisogno della carità dei Paesi ricchi, bensì di una revisione strutturale degli assetti del sistema economico internazionale (Eich, 188s.).

È proprio lo spirito della NIEO che la Convenzione di Lomé del 1975 tra CEE e Paesi ACP vorrebbe incarnare (Mackie): essa punta a superare le logiche neo-coloniali (d’ispirazione francese) della Convenzione di Yaoundé del 1963, abrogando il principio della ‘reciprocità’ in favore di una asimmetria nei rapporti tra CEE e Paesi ACP teoricamente favorevole a questi ultimi (Gozzi, 235). Il mutamento di spirito è dovuto anche all’entrata del Regno Unito (1973) nella CEE e di alcune sue ex-colonie (Paesi del Commonwealth) nel gruppo ACP. La fine della reciprocità implicava che ai Paesi ACP doveva essere concesso di esportare merci e prodotti nella CEE senza che agli Stati europei fosse dovuto alcun reciproco diritto di accesso nei mercati ACP, ossia, lasciando ai Paesi ACP il potere di gravare le proprie importazioni dalla CEE con dazi, tariffe e altre limitazioni a tutela delle proprie economie, in prospettiva di una progressiva industrializzazione.

A questa apparente riscossa dei Paesi in via di sviluppo, nel contesto globale e in quello europeo, fa da contraltare il dato della progressiva ‘privatizzazione’ del debito contratto dal Sud del Mondo verso i Paesi (occidentali) del Nord del Mondo in quel torno di tempo. Gli anni Settanta segnano, infatti, l’arretramento (specie negli USA) del finanziamento statale allo sviluppo, sostituito da politiche di incentivo (pubblico) alle banche private occidentali (e statunitensi in primis) per la concessione di ‘prestiti facili’ ai Paesi in via di sviluppo (Orange-Leroy). La fragilizzazione di questi ultimi si rese evidente quando scattò la nota operazione della Fed di Paul Volker nel 1979 del brusco aumento dei tassi d’interesse, con l’innesco della pesante crisi debitoria dei Paesi in via di sviluppo a partire dal 1980 (tra il 1980 e il 2006, pare che 675,3 miliardi di dollari americani siano stati drenati per finanziare il servizio del debito che scorre dal continente africano: Nakatani, Herrera).

Nonostante le ambizioni programmatiche della Convenzione di Lomé, nei suoi 25 anni di vigenza (in cui essa fu revisionata quattro volte) la Convenzione produsse esiti socio-economici deludenti, con crescita stagnante e sviluppo inadeguato nei Paesi ACP. Né vi furono prove tangibili di una crescita nella cooperazione paritaria tra Europa e ACP (Gozzi, 248). Il 1995 segna il passaggio dal GATT al WTO e al suo sistema giurisdizionale di enforcement dei principi di libero scambio, cosa che metteva in crisi il modello asimmetrico delle preferenze commerciali di Lomé. Ne è testimonianza la lunga saga giurisprudenziale tra Germania e UE sull’importazione delle banane da mercati alternativi a quelli ACP, sfociata in una nota sentenza della Corte di giustizia del 2000 (Itzcovich).

L’avvento del neoliberismo internazionale: la Convenzione di Cotonou (2000) e Post-Cotonou (2020)

L’approccio neoliberale della liberalizzazione dei mercati segnato dal WTO e patrocinato anche dalla Banca mondiale segnò il passaggio dalle Convenzioni di Lomé a quella di Cotonou nel 2000: in quest’ultima, le relazioni commerciali UE-Paesi ACP furono affidate a separati accordi regionali, gli European Partner Agreements -EPAs, su liberalizzazione commerciale e integrazione regionale. Col mutamento di filosofia (dal sostegno tramite finanziamenti allo sviluppo e al sistema di preferenze commerciali, all’inserimento dei Paesi ACP in un sistema commerciale internazionale liberalizzato) ha coinciso una “distrazione” dell’UE rispetto all’Africa, posto che in quegli anni l’allargamento a Est assorbiva ingenti risorse del pur risicato bilancio europeo (Gozzi, 249). Gli anni del passaggio da Lomé a Cotonou è segnato da due elementi, forse mutualmente rafforzantisi: il progressivo frammentarsi della compagine dei Paesi ACP e la graduale cessione della politica dell’UE a istituzioni multilaterali, quali G8 e poi G20 (Gozzi, 256s.). Oltre a ciò, Cotonou ha segnato l’evaporare dello spirito di Lomé sulla piena e paritaria co-gestione della cooperazione allo sviluppo, con un intensificarsi dell’asimmetria in favore dell’UE (Mackie).

Con l’accordo di Cotonou del 2000 – negoziato dall’UE in posizione di forza rispetto ai frammentati Paesi ACP – non si realizzava solo la nuova filosofia neoliberale ispirata dal WTO, in particolare con l’abbandono della clausola di non-reciprocità favorevole ai Paesi ACP, ma anche un approfondimento della c.d. condizionalità democratica (good governance e tutela dei diritti umani), già patrocinata dalla Banca mondiale dall’inizio degli anni Novanta, assieme con il condizionare gli aiuti non solo ai bisogni ma anche alle performance e alla gestione delle migrazioni e della sicurezza (Carbone). Una condizionalità che ha oscillato, nei giudizi dei critici, tra l’essere vista come strumento di coercizione al posto della cooperazione (Hurt; Carbone), all’essere degradata nei fatti a specchio di una concezione minimalista della democrazia elettorale. In effetti, la sospensione della cooperazione è avvenuta da parte dell’UE solo in presenza di violazioni macroscopiche, come i colpi di Stato: la prassi, del resto, si è incaricata di dimostrare come i requisiti della democrazia e del rispetto dei diritti umani possono, se applicati rigorosamente, pregiudicare le finalità dello sviluppo e della lotta alla povertà; alla rigidità delle sanzioni, l’UE sembra aver fin qui preferito il supporto alle mediazioni locali per superare lo stallo dei colpi di Stato (Del Biondo).

La Convenzione di Cotonou è stata sostituita dall’accordo ‘Post-Cotonou’ (siglato nel dicembre 2020 e ancora in attesa di definitiva ratifica tra l’UE e l’Organizzazione degli Stati dell’Africa, dei Caraibi e del Pacifico – OACPS), il quale si ispira a un mix di continuità e discontinuità (Carbone). La continuità è rintracciabile nel capitolo della crescita economica e lo sviluppo, ove continua a campeggiare l’agenda neoliberale (incentivi pubblici agli investimenti privati e liberalizzazione di strumenti finanziari innovativi, rinforzo della protezione della proprietà intellettuale e della concorrenza, liberalizzazione dei servizi di trasporto marittimo), timidamente mitigata da riferimenti alla sostenibilità, diritti dei lavoratori, controllo sulle proprie risorse naturali (Carbone).

Al fondo, il mutamento maggiore è di natura geopolitica, con una frammentazione dei Paesi ACP, cui corrispondono oggi tre distinti pilastri regionali dell’accordo globale con l’UE. Quest’accordo ambisce allo status di “partnership politica” e al superamento della relazione “donatore-beneficiato”, mentre la cooperazione vera e propria è disciplinata dai singoli pilastri regionali (uno ciascuno per Africa, Caraibi e Pacifico). Le negoziazioni hanno visto esplodere e poi rientrare divisioni in entrambi i blocchi, con il fallito tentativo dell’Unione Africana di negoziare separatamente con l’UE e con la divisione, poi rientrata, tra Stati membri dell’UE favorevoli (gli Stati mediterranei) e contrari (Germania in testa) al nuovo accordo-quadro con l’insieme dei Paesi OACP (Carbone). Ma il peso della frammentazione è stato maggiore tra i Pesi OACP, indebolendone la posizione negoziale, in particolare nell’ambito finanziario: il Fondo europeo per lo sviluppo (EDF), allo spirare di Cotonou (2020) è stato integrato (assieme ad altri fondi simili) nel bilancio dell’UE, con ciò segnalando un atteggiamento assai più assertivo dell’UE, desiderosa di assumere il pieno controllo della cooperazione allo sviluppo, quale strumento per condurre alle proprie condizioni le partnership internazionali (Mackie). L’innovazione istituzionale ha, da un lato, esteso il controllo del Parlamento europeo anche a tali forme di finanziamento, da un altro lato, indebolito la posizione dei Paesi OACPS, a fronte di una maggior libertà di manovra della Commissione nello spostare le poste di bilancio che rende il principio di co-gestione delle politiche di sviluppo ancora più aleatorio (Mackie). La cooperazione in aree cruciali, come migrazione e mobilità, inoltre, è stata portata fuori dall’accordo e affidata ai singoli Economic Partnership Agreements-EPA (Carbone); oltre a ciò, la spinta dell’UE verso una negoziazione privilegiata con L’Unione Africana per il protocollo sull’Africa è stata contrastata dagli stessi Stati africani, timorosi di cedere troppo potere ai vertici dell’Unione Africana (Carbone). Una frammentazione, questa, che sembra in contraddizione con l’attuale tendenza a raffigurare omogeneamente il blocco dei Paesi estranei all’asse occidentale del Primo Mondo (sotto la guida dei “nuovi BRICS”). L’alleanza tra Paesi OACP e il Parlamento europeo, tuttavia, ha consentito la sopravvivenza dell’Assemblea parlamentare paritetica ACP-UE (con funzioni consultive). Oltre a ciò, e non senza contraddizioni con la frammentazione già accennata, il nuovo accordo prevede l’impegno a coordinare le posizioni di UE e OACP da adottarsi nei fora internazionali, in primis, alle Nazioni Unite (Carbone).

Il “Piano Mattei” , tra ambiguità e istanze securitarie (non solo italiane)

Gli ultimi venti e passa anni di relazioni euro-africane sono stati caratterizzati dalla centralità assunta dall’intensificarsi di migrazioni e terrorismo jihadista, ponendo la sicurezza al centro dell’intero rapporto migrazione-sviluppo e rendendo quest’ultimo uno strumento delle politiche migratorie piuttosto che un risultato legato anche all’apporto socio-economico dei migranti stessi (Gozzi, 262). «La centralità dell’istanza della sicurezza dei paesi occidentali ha progressivamente imposto una relazione asimmetrica, in cui le urgenze dei paesi del Sud sono diventate del tutto secondarie» (ibidem). Il fondo UE sull’emergenza per l’Africa (EUTF) istituito nel 2015 è una conferma di tale spostamento del focus: dagli obiettivi di lungo termine dell’Africa (sviluppo, diritti umani o dialogo politico) a quelli di breve termine degli europei (sicurezza e contrasto alla migrazione) [Gozzi, 263]. Emblematica, a tal proposito, la politica europea in Sahel, ispirata dall’intento di «esternalizzare i propri confini meridionali e [di] assicurare il controllo dei flussi migratori, subordinando a queste finalità ogni aiuto allo sviluppo» (ibidem, 264).

La condizionalità democratica e dei diritti umani nelle politiche per lo sviluppo dell’UE ha convissuto, nell’epoca della lotta al terrorismo, con il rafforzamento estrinseco di élite politiche disposte a implementare le politiche securitarie europee (in primis, francesi) e, perciò solo, ritenute affidabili e legittime da Bruxelles (e, soprattutto, da Parigi), ignorando i brogli elettorali e lo scontento popolare verso tali élite nei rispettivi contesti nazionali africani. Di qui la serie impressionante di colpi di stato militari avvenuti negli ultimi anni, di cui quello in Niger non rappresenta che la punta dell’iceberg. Ma il Niger è rappresentativo del cortocircuito della politica securitaria europea (ispirata da Parigi), che ha segnato l’intensificarsi della cooperazione militare (addestramento degli eserciti locali attraverso i vari “EUCAP” – EU Capacity building) in funzione di lotta al terrorismo islamico e ai trafficanti di migranti irregolari, con l’esito di potenziare quegli stessi eserciti regolari che periodicamente si mettono a capo dei golpe contro capi di stato o di governo corrotti e percepiti dalla popolazione come uomini di Parigi (Maronta; Varenne).

In questo quadro si inserisce ambiguamente il c.d. “Piano Mattei” per l’Africa a più riprese proposto dal Governo Meloni sulla scia del Governo Draghi, in cui emergenza energetica ed emergenza migratoria si coniugano e assieme congiurano verso uno slancio di apparente responsabilità italiana ed europea per le sorti dello sviluppo dell’Africa. Un piano dai contenuti rimasti sempre fumosi, ma la cui filosofia di fondo può essere tratta dal recente accordo con la Tunisia, in cui si finanzia assai debolmente il regime di Saïed, affinché questo stringa il controllo repressivo sull’immigrazione clandestina, parallelamente al rispolveramento del progetto energetico del cavo sottomarino Elmed tra Tunisia e Sicilia, per consentire alla Tunisia di esportare il surplus elettrico in Italia (Maronta). Diversificare l’approvvigionamento energetico, dopo la crisi ucraina, aumentando l’estrazione di risorse energetiche dall’Africa, in primis gas e poi, domani, chissà, anche potenziando lo sfruttamento del solare: difficile vedere in questo un autentico mutamento di paradigma che segni da parte dell’Europa e dell’Occidente, più in generale, l’archiviazione del neo-colonialismo. Ma nell’intervento del luglio scorso al Vertice delle N.U. sui sistemi alimentari, la premier Meloni ha offerto al mondo l’Italian touch, arricchendo la prospettiva del Piano Mattei con la risorsa della dieta mediterranea: «I principi della dieta mediterranea possono offrire una soluzione in quanto non è costosa, si basa su materie prime locali stagionali, nel rispetto del territorio e della biodiversità. I principi della dieta mediterranea non appartengono solo al bacino del Mediterraneo, ma al mondo intero».

Se assai incerta rimane la prospettiva di quali nuove politiche per lo sviluppo si proporranno credibilmente all’Africa da parte italiana ed europea, più chiaramente delineabile è quella securitaria per il controllo delle migrazioni. L’accordo con la Tunisia riprodurrà, assai verosimilmente, le caratteristiche degli accordi simili che lo hanno preceduto (Turchia 2016; Libia 2015; ecc.). Se un tempo l’UE si limitava a fiancheggiare i propri Stati membri negli accordi di rimpatrio, ormai da anni questi ultimi sono stati sostituiti o affiancati da partenariati finalizzati a limitare il movimento dei migranti, con tanto di finanziamento europeo dei centri di detenzione negli Stati terzi, cogestione di blocchi navali nelle acque dello Stato terzo, fino all’impegno a trattenere e rimpatriare anche i rifugiati e non solo i migranti irregolari. Quel che più è grave, però, è il degrado giuridico delle forme di tali partenariati: ai trattati internazionali originari, debitamente siglati previo controllo parlamentare, si sono sostituite forme atipiche (dichiarazioni congiunte, memorandum di intesa, ecc.), giuridicamente non vincolanti (ma di fatto osservati, dietro la leva dei finanziamenti), privi di adeguata pubblicità e, dunque, sottratti al controllo democratico parlamentare e dell’opinione pubblica (De Vittor).

Un epilogo (inaugurato dal famigerato accordo con la Turchia del 2016) non proprio dignitoso per un’Europa che si vanta di condizionare le proprie politiche di sviluppo alla legalità e al rispetto dei diritti umani.

Testi citati

Carbone, The Rationales Behind the EU-OACPS. Agreement: Process, Outcome, Contestations, in European Foreign Affairs Review, n. 2/2021, 243ss.

Del Biondo, EU Aid Conditionality in ACP Countries: Explaining Inconsistency in EU Sanctions Practice, in Journal of Contemporary European Research, n. 3/2011, 380ss.

De Vittor, Responsabilità degli Stati e dell’Unione europea nella conclusione e nell’esecuzione di ’accordi’ per il controllo extraterritoriale della migrazione, in Diritti umani e diritto internazionale, n. 1/2018, 5ss.

Eich, The Currency of Politics. The Political Theory of Money from Aristotle to Keynes, Princeton 2022.

Gozzi, Eredità coloniale e costruzione dell’Europa. Una questione irrisolta: il “rimosso” della coscienza europea, Bologna 2021.

Hurt, Co-operation and coercion? The Cotonou Agreement between the European Union and ACP states and the end of the Lomé Convention, in Third World Quarterly, n. 1/2003, 161ss.

Itzcovich, L’integrazione europea tra principi e interessi. Il dialogo tra giudici tedeschi e Corte di giustizia nella “guerra delle banane”, in Materiali per una storia della cultura giuridica, n. 2/2004, 385ss.

Mackie, Lomé to Cotonou and Beyond: What Happened to the ‘Spirit of Lomé’ in EU Development Cooperation?, in EU Diplomacy Paper 7/2021.

Maronta, Smettiamo di giocare ai piccoli francesi, in Limes, n. 8, 2023, 167ss.

Nakatami, R. Herrera, Il Sud ha già ripagato il proprio debito estero al Nord; ma il Nord rifiuta di riconoscere il proprio debito al Sud, in Proteo 2008/2.

Orange-Leroy, The Crisis of Development Aid and the Origins of the Debt Crisis, in Rivista italiana di storia internazionale, n. 2, 2020, 223ss.

Rehling Larsen, European public law after empires, in European Law Open 1, pp. 6-25, in Doi.org.

Snyder, La paura e la ragione. Il collasso della democrazia in Russia, Europa e America, Milano 2018.

 Varenne, La Françafrique è morta a Niamey, in Limes, n. 8, 2023, 57ss.

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