IDEATO E DIRETTO
DA ANTONIO CANTARO
E FEDERICO LOSURDO

IDEATO E DIRETTO DA ANTONIO CANTARO E FEDERICO LOSURDO

Umanesimo o stalinismo?

Pubblichiamo un contributo di Luigi Cavallaro apparso nel 2016 in "Sconfinamenti. Scritti su marxismo economia ed epistemologia". L'autore sostiene che il culto della personalità è pseudoconcetto che sposta nel campo delle sovrastrutture gli abusi, gli errori e i crimini, senza indagare le loro condizioni.

3. Non possiamo dirne compiutamente qui, ma siamo convinti che solo a partire da questa «forma pura» dello stalinismo si può riprendere il filo di un racconto capace di ridare ai comunisti il senso del loro passato, senza il quale – come s’è ampiamente visto in questi anni – non c’è nemmeno futuro. Ostinarsi ad obiettare che nei paesi sedicenti socialisti non era stato costruito nulla di realmente «socialista» e che si sarebbe trattato semplicemente di una variante specifica del funzionamento del modo di produzione capitalistico equivale a dimenticare le dure repliche della storia dell’ultimo trentennio, in cui siamo tornati drammaticamente a sperimentare cosa comporti – in termini di violenza delle fluttuazioni economiche, peggioramento della distribuzione del reddito a danno dei salari e aumento della disoccupazione di massa – l’assenza di un’autorità centrale (non onnipotente, men che meno onnisciente) che semplicemente cerchi di organizzare la produzione, la distribuzione, lo scambio e il consumo senza vincolarli all’obiettivo della valorizzazione del capitale.
Ma soprattutto è nell’ambito dei conflitti generatisi per l’apparire e il successivo consolidarsi di questa «forma pura» che si deve collocare la figura stessa di Stalin. Il quale è stato in ultima analisi un prodotto, non certo l’«autore», dei processi storici del tempo in cui ha vissuto. Certo, con un ruolo decisionale considerevole, ma che esercitò rimanendo nell’ambito di opinioni assai diffuse tra gli stati dirigenti del partito nonché in buona parte della popolazione sovietica. Opinioni che, a loro volta, trovavano alimento nello stato dei «rapporti di forza» esistenti sia all’interno della formazione sociale sovietica che in quelle che rimasero più o meno direttamente coinvolte dalla sua evoluzione: perfino quando si trattava di processi sommari, deportazioni ed esecuzioni di massa, cioè degli aspetti più truci della guerra civile innescata da quella che, con una lungimirante quanto terribile espressione, il trockista Evgenij A. Preobraženskijaveva prefigurato come «l’accumulazione originaria socialista».
Prendendo a prestito la terminologia psicoanalitica, si potrebbe dire che in Stalin si personificò – e per motivi che sono ancora tutti da scrivere – il meccanismo dell’ordine simbolico del «grande Altro» in quel tempo in cui la costituzione materiale della società sovietica virava in direzione della pianificazione. E in effetti, ricordando il giudizio iniziale di quanti fra i suoi compagni non riuscirono a trovare in Stalin alcun tratto distintivo degno di nota, Edward H. Carr notò che si trattava di un fatto assolutamente comprensibile: «pochi grandi uomini sono stati così visibilmente come Stalin il prodotto del tempo e del luogo in cui vissero», un tempo in cui – come avrebbe poi ricordato lo scrittore (e stalinista) Konstantin Simonov – «obbedienza e coscienziosità, disponibilità a superare qualsiasi difficoltà, l’obbligo a dire sì o no, ad amare in modo intenso e a odiare nello stesso modo» erano i valori all’insegna dei quali si formavano le nuove generazioni.
Si capisce allora come Charles Bettelheim, in quell’incompiuto monumento alle contraddizioni dell’Ottobre che furono e tuttora sono Le lotte di classe in Urss (1974-1977) abbia potuto scrivere che Stalin si limitò ad esprimere in modo sistematico i punti di vista di tutto il gruppo dirigente del partito bolscevico, inclusi i suoi oppositori, e perfino quando gli occorse (letteralmente) di passar sopra le loro teste non fece altro che trarre le conseguenze ultime di quei punti di vista: caso mai, è proprio questa «volontà di andare fino in fondo» che apparentemente pose Stalin «al di sopra» del partito e fece apparire come «sue» concezioni che (salvo rare eccezioni) non erano affatto sue personali.
Si deve piuttosto rimarcare che il limite degli oppositori di Stalin consistette proprio nel rifiuto delle necessarie implicazioni di un discorso che pure, nelle sue premesse, condividevano. La supremazia della pianificazione sulle varie forme di autorganizzazione economica, la necessità di sciogliere l’ambiguità nascosta dal consenso contadino alla rivoluzione socialista e la disponibilità a farlo anche con l’uso della forza erano, alla morte di Lenin, convincimenti comuni a tutto il gruppo dirigente bolscevico, benché se ne traessero conseguenze divergenti quanto al «che fare». E se nel corso della famosa discussione sulla «rivoluzione permanente» e il «socialismo in un solo paese» (1924-1926) Stalin riuscì a sbaragliare tanto la «destra» di Bucharin quanto la «sinistra» di Trockij fu proprio e solo per aver risolto l’equazione lasciata in eredità da Lenin nell’unico modo possibile. Era questa, in effetti, la peculiarità della logica staliniana, come osservò Franz Marek: «semplice, cogente e convincente, una volta che si fosse accettata la premessa».
Tanto drammaticamente semplice e cogente era la conclusione che i suoi oppositori non riuscirono mai a concepire una credibile alternativa e si ridussero semplicemente a odiarlo, accusandolo di «degenerazione» e «tradimento» e finendo così per subire passivamente quella stessa «autorità eccezionale» (giusta ancora l’espressione di Bettelheim) che egli era in grado di conferire alle decisioni cui dava il suo appoggio. La vicenda del «testamento di Lenin», sotto questo profilo, è esemplare: per ben due volte, tra il 1924 e il 1925, Stalin rimise il mandato di segretario generale del partito nelle mani del Comitato centrale, dopo che era stata letta la famosa lettera in cui Lenin, ormai alla fine, lo definiva «rozzo» e manifestava perplessità sulla sua capacità di gestire in modo non burocratico il considerevole potere conferitogli da quella carica, ed entrambe le volte il Comitato centrale – inclusi Zinov′ev, Kamenev e, in un caso, Trockij – respinse le sue dimissioni.
«Queste azioni coatte in due tempi, in cui il primo tempo è annullato dal secondo, si verificano tipicamente nella nevrosi ossessiva», aveva spiegato alcuni anni prima Freud nell’Uomo dei topi (1909): e in effetti il comportamento degli oppositori di Stalin sembra riprodurre quello stesso conflitto fra opposti sentimenti che produce la paralisi della volontà dei nevrotici, presi in trappola da un «odio» che non è riuscito a spegnere l’«amore» ma l’ha solo respinto nell’inconscio, dove pure, al riparo dall’azione demolitrice della coscienza, esso può vivere e perfino accrescersi. Del resto, se appena si ricorda quanto la strategia della collettivizzazione forzata e della «dekulakizzazione» dovesse alle teoria dell’«accumulazione originaria socialista» di Preobraženskij e quanto il convincimento circa la possibilità di costruire «il socialismo in un solo paese» fosse debitore delle critiche buchariniane alla versione trockista della «rivoluzione permanente», si può facilmente comprendere come il dubbio fosse la cifra prevalente del loro atteggiamento: dal conflitto tra due sentimenti così radicalmente antitetici non poteva che venire un freno a qualsiasi prospettiva d’azione.
In questo senso Stalin diventò, letteralmente, la loro ossessione. Il «pensiero» di organizzare un’opposizione capace di scalzarlo dal potere finì per tener luogo di un’azione politicamente idonea allo scopo, e ciò – si badi bene – ben prima che si esaurissero i suoi margini di possibilità: per quanto la storiografia sia ancora divisa sul momento in cui il potere del gruppo dirigente staliniano pervenne ad una relativa stabilizzazione, sembra davvero arduo retrodatarlo (come taluni hanno proposto) addirittura al 1925, quando i giochi erano ancora lungi dall’essersi conclusi. Basterà solo ricordare che, recatosi in Unione Sovietica giusto in quell’anno, Keynes nemmeno menzionò Stalin nel resoconto del viaggio che pubblicò per i tipi della Hogarth Press, la casa editrice dei suoi grandi amici Leonard e Virginia Woolf.

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