4. Del resto, bisognerà una volta buona pur intendersi su cosa sia una «tirannide». In uno scritto giustamente celebre, Alexandre Kojève irrise quanti supponevano trattarsi di un potere personale basato sul terrore: il terrore puro presuppone in ultima analisi la sola forza fisica, e con la sola forza fisica «un uomo può dominare dei fanciulli, dei vecchi e qualche donna, ma non può imporsi a lungo su un gruppo, sia pure poco numeroso, di uomini robusti». Proprio per ciò, l’autorità di un capo di stato doveva a suo avviso poggiare su qualcos’altro che sulla sola forza: doveva pur esserci di mezzo un «riconoscimento» di quell’autorità che proveniva da una parte significativa della popolazione.
Kojève coerentemente suggeriva di riservare il termine «tirannide» a quei casi in cui il pubblico potere è utilizzato da una parte della popolazione (non importa se maggioritaria o minoritaria) per imporre alla restante parte le proprie idee e la propria forma di vita: «è chiaro che possono farlo solo con la “forza” o il “terrore”, giocando in ultima analisi sulla paura della morte violenta che possono infliggere agli altri». In questo senso non può essere dubbio che il sistema di potere usualmente denominato «stalinismo» sia stato una forma di tirannide; bisognerebbe però aggiungere che ogni rivoluzione dà luogo ad una «tirannide», come in genere ogni forma di potere che si proponga di conseguire i suoi obiettivi senza concedere alcuna forma di compromesso ai suoi oppositori. Tutto sommato, Stalin non avrebbe avuto bisogno di scatenare la «lotta di classe contro i kulak» se i contadini, invece di ribellarsi, avessero «spontaneamente» acconsentito a cedere il sovrappiù agricolo con cui finanziare le importazioni di tecnologia necessarie all’industrializzazione di base e al mantenimento della forza-lavoro industriale.
Certo, c’è modo e modo di fare uso della forza, ed è questa la lezione più drammatica di quel periodo storico:senza forzare i termini di un discorso storiograficamente assai complesso, pochi dubbi possono sussistere circa il fatto che il principio di legalità dell’azione pubblica e la nozione di «costituzione rigida»si devono anche e soprattutto all’elaborazione dei lutti e delle tragedie di quegli anni. Ma solo un «umanesimo» insipiente, che – giusta l’ironia di Althusser – si contenti di invocare «l’Uomo e i suoi diritti, opponendo l’Uomo alla violazione dei suoi Diritti (o semplicemente i “consigli operai” alla “burocrazia”)» può negare che negli anni ’30 in Urss c’era una guerra civile o dimenticare che, quando negli anni ’70 istanze di collettivizzazione altrettanto marcate (ancorché pienamente legalitarie) avrebbero permeato l’Occidente,sarebbero esplose le bombe.
Che poi, dopo il ’68, codesto «umanesimo» abbia finito col trionfare, col suo inevitabile corredo di difesa dei «diritti dell’Uomo», della «libertà» e della «giustizia», è un fatto sul quale qui non possiamo soffermarci, se non per constatare come alle spalle dell’«Uomo» e dei suoi pretesi diritti abbia ancora una volta trionfato il laissez-faire di Adam Smith e Jeremy Bentham. Ci preme invece aggiungere che Stalin fu tra i pochi a comprendere che l’«accerchiamento capitalista» non era tanto l’effetto di vicini ingombranti, ma piuttosto un problema che quei nuovi rapporti di produzione avrebbero incontrato ovunque gli fosse accaduto di far presa sulla realtà data in modo altrettanto durevole. Lo mise nero su bianco nel suo ultimo scritto, Problemi economici del socialismo nell’Urss (1952): una volta che il potere politico si fosse impadronito non di tutti i mezzi di produzione, ma solo di una parte di essi, non si sarebbe potuto semplicemente distruggere la residua produzione capitalistica: essa sarebbe rimasta necessariamente ad operare accanto a quella socialista. E anche se ciò avrebbe implicato una qualche sopravvivenza della «legge del valore», si sarebbe potuto e dovuto circoscriverne il funzionamento in modo da scansare il rischio che essa tornasse a regolare l’allocazione del lavoro sociale tra le varie branche della produzione e scatenasse le inevitabili e rovinose crisi da sovrapproduzione. In una parola, i rapporti di produzione capitalistici dovevano retrocedere al rango di «elementi» del più vasto sistema economico socialista: al rango di mera «produzione mercantile» subordinata. La famosa «alleanza tra operai e contadini» e l’altrettanto famoso ruolo «dirigente» del proletariato di fabbrica ne sarebbero stati la figurazione ideologica.
Proprio nell’annuncio di questa coesistenza di rapporti di produzione differenti entro una medesima formazione sociale (e, ben s’intende, delle contraddizioni che un fatto del genere avrebbe inevitabilmente generato) si colloca, a nostro avviso, il «testamento di Stalin», che poi è ciò che – dato il «residuo» di potere statale tuttora incorporato nelle strutture pubbliche sopravvissute alla stagione privatizzatrice dell’ultimo trentennio – potrebbe fare dello «stalinismo» una questione attuale e non puramente storica o teorica. Non si potrebbe dirlo meglio che con le sue stesse parole: «Il fatto è che lo sviluppo economico non si attua mediante rivoluzioni, ma attraverso modificazioni graduali; il vecchio non viene semplicemente liquidato, ma modifica la sua natura in relazione al nuovo, conservando soltanto la sua forma, mentre il nuovo non distrugge semplicemente il vecchio ma penetra in esso, modifica la sua natura, le sue funzioni, senza distruggerne la forma, ma impiegandola per lo sviluppo del nuovo». Come dire: denaro, banche, debito pubblico, e poi naturalmente apparati pubblici, partiti, sindacati, imprese e lavoratori salariati erano istituzioni che, sebbene nate all’ombra del modo di produzione capitalistico, erano suscettibili di mutare la loro natura ovunque avesse fatto presa un «incontro» analogo a quello che stava all’origine dell’esperimento dell’Ottobre.
Sfortunatamente, a capirlo – specie in Occidente – sono state soprattutto le classi borghesi, che si sono avvalse dell’insorgenza anarchica sessantottesca per far sì che i medesimi tentativi di pianificazione e programmazione condotti nel Secondo dopoguerra sotto il nome ben più rispettabile di Lord Keynes naufragassero prima che le spinte sovvertitrici che essi alimentavano potessero rimettere in questione i rapporti di proprietà. Si spiega così che, da trent’anni in qua, Stalin e Keynes siano finiti accomunati dalla medesima damnatio memoriae e sempre così si spiega che il tentativo degli eredi del movimento operaio di costruire una teoria politica basata sulla rimozione del socialismo realizzato da Stalin abbia finito per condurre, come comprese tempestivamente Rita di Leo, «a una serie lunga e inaspettata di rifiuti, che vanno da Lenin a Engels, a Marx e arrivano a Hegel e Rousseau»: fintanto che non ci si disporrà a studiare lo stalinismo come un sistema di potere e non come la degenerazione del socialismo di Marx e Lenin, mettendo al centro dell’analisi il partito bolscevico e lo Stato sovietico e non le purghe e i campi di concentramento, non si potrà mai produrre una conoscenza che, oltre a «spiegare il mondo», sia capace anche di cambiarlo.
Bisognerebbe raccogliere la sfida, tanto più che – come ci ha spiegato Freud – la rimozione e il ritorno del rimosso fanno sempre tutt’uno. Se ne dovette accorgere anche Sciascia, che sul finire degli anni ’70 infilò nel suo Candido un dialogo che sembrava riprendere quello di vent’anni prima tra l’arciprete e Calogero Schirò: «“Torniamo allo stalinismo: è un argomento che mi interessa” disse Candido. “Torniamoci” disse don Antonio. E ambiguamente aggiunse: “Ci torneremo sempre”»
