IDEATO E DIRETTO
DA ANTONIO CANTARO
E FEDERICO LOSURDO

IDEATO E DIRETTO DA ANTONIO CANTARO E FEDERICO LOSURDO

Un abisso senza fondo, l’11 settembre ha fatto scuola

Per Netanyahu siamo alla «nostra seconda guerra di indipendenza: vincere o cessare di esistere». Simili le certezze intraviste nel campo opposto: «il jihad come metodo e la morte per la gloria di Dio come il più caro desiderio».

«Muoia Sansone con tutti i filistei»: la mannaia brandita da Hamas il 7 ottobre contro Israele ha reciso la biblica radice del fatale proclama, strappando quegli attori dal Libro dei Giudici per farne le tragiche bandiere di un conflitto intestino.

Usare l’arma finale. Si o forse no, una “opzione” comunque

Mai come oggi il Medioriente e il mondo sono sospesi su un abisso senza fondo. Per Netanyahu siamo alla «nostra seconda guerra di indipendenza: vincere o cessare di esistere». Simili le certezze e gli orizzonti intravisti nel campo opposto: «il jihad come metodo e la morte per la gloria di Dio come il più caro desiderio». Un tempo «mors tua vita mea» esprimeva tragicamente la decisione di passare alle armi come via per la propria sopravvivenza. Oggi a Gaza e nei suoi dintorni l’unica autentica certezza è che si è imboccata una via senza scampo, aperta a orrore e vendetta, sbarrata solo verso la pace.

Moshe Feiglin, membro del partito di destra Zehut, ha provato ad esser chiaro e, sia pure con barbara cautela, ha con decisione indicato un obiettivo: «la distruzione completa di Gaza, prima di entrarci. Quel che è stato fatto a Dresda e Hiroshima, insomma, senza ricorrere all’atomica, però». Più netto il ministro israeliano per gli Affari e il Patrimonio di Gerusalemme,Amichai Eliyahu: il 5 novembre ha indicato come «opzione» sganciare oggi un’atomica sulla Striscia di Gaza. Gli è stata immediatamente comminata la sospensione dalla partecipazione al Consiglio dei ministri. Contrariamente al passato, non v’è stato però alcun tentativo di smentire il possesso dell’arma finale: in realtà, ben salda nelle mani di Israele fin dalla fine degli anni Sessanta ed ora articolata in poco più di 80 ordigni atomici, in parte su aerei in parte come testate del sistema missilistico Jericho. A fare vieppiù scalpore, però, l’ammissione fatale di aver imboccato una via senza uscita: quali le conseguenze di una esplosione atomica al cuore di un territorio sottoposto integralmente al controllo delle proprie forze armate e comunque al cuore stesso di Israele?

L’11 settembre ha fatto scuola

Non poteva esserci conferma più eclatante dell’autentica rivelazione proclamata dalla rasoiata terroristica del 7 ottobre: nel conflitto israelo-palestinese non v’è più alcuna forma di deterrenza. Ogni atto è condotto scientemente per provocare vendetta, finalizzato al martirio, al perseguimento dell’annichilimento altrui, al genocidio finale. Così come non v’è limite all’esplosione della violenza, all’invenzione di armi letali. L’11 settembre ha fatto scuola e trova in quei distretti, nei cunicoli sotterranei che li attraversano e circondano, un terreno fertilissimo: l’humus per tante piccole atomiche, coltivate con l’odio alimentato da quei cancelli, sovraeccitato dalla miriade di parabole satellitari che da finestre e terrazze sbrecciate si affacciano su quei vicoli, percorsi e affollati da cortei funebri punteggiati da kalashnikov e smartphone. La «guerra asimmetrica» vantata dai Grandi del mondo in forza del controllo di economia e scienza si è rivoltata contro l’oppressore come «guerra povera», scatenata con mezzi primordiali – jeep, barchini, deltaplani – guidati da una strategia capace di ottimizzare però, di far deflagrare la mescolanza stessa imposta dai reticoli della colonizzazione forzata.

Il tragico accantonamento della questione israelo-palestinese

Immota e afona la comunità internazionale assiste alla mortale diffusione dell’incendio, perpetuando una tragica, colpevole impotenza. I rifugiati nel mondo hanno raggiunto all’ingresso in questo 2023 la soglia record di 108 milioni. Oltre un quarto dell’umanità – due miliardi e passa di persone – vive sulla propria pelle l’esplosione di quella che Francesco I ha chiamato «la terza guerra mondiale di un mondo globalizzato»: dalla Siria al Caucaso all’Azerbaigian, per l’Africa di Sudan, Niger, Etiopia, Sahel. L’incapacità ad agire efficacemente in punti di crisi quali Libia, Sudan, Myanmar, Yemen ha raggiunto paradossalmente la sua acme in Europa: qui l’incapacità a sanzionare o bloccare l’aggressione all’Ucraina ha rivelato la crisi profonda in cui versano le istituzioni internazionali, in primis le Nazioni Unite. Ora il rincorrersi di vaghe risoluzioni sul Medioriente, sulla parola d’ordine di «Due Stati, Due Popoli», perdute nelle invocazioni di improbabili «tregue» rivelano fin dal loro concepimento – con i loro colpevoli plurali – come e quanto l’illusione alimentata da «accordi di Abramo» ormai a portata di mano si fondasse in realtà sul più o meno tacito, ma tragico, accantonamento della questione palestinese. Il risultato è che adesso non v’è più sicurezza, né per Israele né per coloro condannati – come aveva intravisto tempo fa Edward Said – come «vittime delle vittime della persecuzione anti-semita e dell’Olocausto».

Guerre senza soluzione.

Un mondo compresso e sconvolto da una globalizzazione che confonde e infrange equilibri economici e frontiere scientifiche stravolgendo le forme stesse della statualità, fino a mutarle in fonti di conflitti e guerre civili, si rivela ingessato nelle posture ereditate dal post-bipolarismo. Sotto la cappa permanente, mai dissolta, della minaccia atomica, la guerra ha smesso da tempo – in qualsiasi sua forma: globale o di teatro – di essere risolutiva. Amplifica e ingigantisce solo dilemmi e problemi. Esecrata o timbrata dalla comunità o dalle istituzioni internazionali, dichiarata assurdamente «contro il terrorismo» o per il ripristino dei diritti fondamentali, benedetta come «umanitaria» o esaltata come «celeste», «intelligente», in grado di discernere tra militi e civili, non ha mai condotto a pacificazioni di alcuna sorta: il Kosovo è tormentato dalle stesse contrapposizioni che allora infiammarono i Balcani, l’Afghanistan è tornato nelle mani dei talebani, mentre l’Iraq continua ad esser faglia fragilissima del più generale conflitto mediorientale. L’aggressione all’Ucraina ha fatto il resto.

La solitudine palestinese

In Medioriente intanto giochi innominabili e strategie di lungo respiro si alternano, mentre precari equilibri sostengono élites e autocrazie sopravvissute al cataclisma delle «primavere arabe». In prima fila, innanzitutto, Iran e Turchia. Provano a capitalizzare lo sconquasso: con Erdogan perduto dietro il sogno ottomano di un ripristino neo-imperiale, teso alla riconquista della terra del Sultano; e gli ayatollah attenti a capitalizzare la briglia, più o meno ferma, sugli Hezbollah libanesi e lo stesso martirio palestinese. L’assordante silenzio strategico che emana dal chiacchiericcio mediatico e diplomatico di emirati e sultanati vari rende ancora più tragica la solitudine palestinese e l’impotenza dell’OLP.

Ai piani più alti, la continua, reciproca scomunica delle superpotenze finisce col nutrire solo la complicità e l’indifferenza sostanziali della comunità internazionale. Desolante l’impotenza assoluta rivelata. Intanto la situazione precipita sotto il peso di memorie ovunque impugnate come clave epocali: Olocausto contro Nakba, Islamofobia contro Anti-Semitismo. Gaza intanto ora è circondata, dopo bombardamenti che hanno colpito civili inermi, soprattutto donne e bambini. La minaccia di raderla al suolo per sterminare Hamas s’affaccia, gonfia già di migliaia di vittime, sull’orlo di un vero e proprio genocidio. Dimentichi della ventennale lezione impartita dalla «guerra al terrorismo» proclamata in risposta all’«11 settembre», ci si appresta a trasformare immensi cumuli di macerie in culle perpetue di nuovo radicalismo ed estremismo. È suicida avventurarsi per la via d’una guerra di sterminio senza chiedersi cosa sarà Gaza domani, quale il futuro di quella striscia, come evitare che i sopravvissuti o i figli e i nipoti di chi lì perirà non saranno condannati a coniugare la propria vita se non come guerra e vendetta. Il raccapricciante attacco di Hamas assieme alla violentissima risposta di Israele hanno rivelato al mondo quale fuoco covasse sotto quei cunicoli, dietro quelle cancellate: come e quanto quella situazione fosse insostenibile. E probabilmente anche quanto fosse ormai logora la soluzione «Due Stati, Due Popoli», ridotta a vuota litania: intanto, sanguinosamente rifiutata tanto da Hamas quanto da quella colonizzazione ebraica reticolare che, secondo lo stesso Biden, getta solo «benzina sul fuoco» del conflitto.

Come dinosauri

Come fermare questa corsa al mutuo sterminio? Al crollo rovinoso di bibliche colonne che minaccia non più solo il Medioriente? Da tempo – con la mutazione climatica imposta al pianeta e con la minaccia continua dell’atomica – ci rivoltiamo come «dinosauri del XXI secolo», per usare l’efficacissima immagine proposta da Tom Engelhardt tempo fa: fabbri indefessi della catastrofe avveniente. L’abisso mediorientale ci impone un cambio di passo e di prospettiva. Sicuramente non v’è alternativa al riconoscimento reciproco delle parti, al rispecchiarsi come facce di un unico, immenso problema. Ma chi oggi è in grado di aprire questa prospettiva? Iniziare magari ad offrire speranza per cominciare a garantire sicurezza? È sicuramente materia per auspici. Come e cosa fare per darle gambe reali, farla avanzare?

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