Sono andata un po’ indietro nel tempo per ricercare le radici del comportamento umano dinanzi al conflitto. Mi è stato necessario (mi è sempre più necessario) in un tempo in cui l’essenza dell’umano tende a tramutarsi per la sua relazione con trasformazioni tanto radicali quanto inedite.
Non vi è progresso senza conflitto
Dunque, la prima verifica è stata etimologica, laddove, oggi, le parole guerra e conflitto vengono usate come sinonimi.
A me pare che l’equivalenza dei due lemmi possa ritenersi residualmente ammissibile solo nel caso in cui ci si arrenda al conflitto irriducibile, che nasce motivato da una esclusiva volontà di sopraffazione. Non così per il conflitto senza quella aggettivazione, che è, potremmo convenirne, situazione che occorre naturalmente ogniqualvolta ci si trovi a entrare in relazione con il pensiero, il bisogno, il desiderio, l’agire di un altro da sé, in un contesto che entrambi li contenga. Situazione dunque naturale per l’uomo, essere sociale. Conflitto è etimo che logicamente descrive la posizione, e dunque l’urto, la collisione tra due individui, due entità e il cum-fligo è esso stesso un venire in contatto, un incontro dunque, seppure violento, seppure tra diversi, se non ostili. Una radice rintracciabile in moltissime lingue (francese, tedesco, portoghese, lingue slave e, con diversa formulazione, in greco, hindi, cinese, giapponese). Nell’origine della nostra cultura, in Lucrezio nel De rerum natura, e in Cicerone nel De officiis, la parola rimanda alla possibilità di una relazione
tra le due entità, al confronto, al contatto. Solo più tardi essa acquisisce il significato del solo combattere.
L’etimologia ci dice, perciò, che in origine per conflitto si intende un incontro generativo tra realtà differenti. È Karl Marx: “Non vi è progresso senza conflitto”.
Vittorie cattive, vittorie buone
È accaduto similmente ad altre parole, come sappiamo. Per esempio alla parola “crisi”, che ha perso, nell’uso, la sua accezione di scelta razionale compiuta per superare uno stallo, una difficoltà. In questo ultimo senso, peraltro, era stata assunta in filosofia, da Parmenide a Kant, in storia da Tucidite, da Platone nel lessico giuridico e con riferimento al processo. Ma ciò che forse è più interessante per il nostro conversare sul conflitto nel cuore dell’umano è quello che i Greci antichi definivano come stasis, riferendolo al conflitto dentro la polis e distinguendolo dal polemos, e cioè la
guerra con i nemici esterni.
La stasis é il sotterraneo onnipresente germe di discordia che percorre la vita della città, quel conflitto a bassa intensità che cova nella polis tra le tribù e le famiglie di diversa origine che la abitano. Essa è, quando esplode, guerra civile, che ha sempre, come epilogo, una “vittoria cattiva” (Eschilo, Le Eumenides, cfr Nicole Leroux. La città divisa) perché segna la lacerazione nella città tra vincitori e vinti e dunque tradisce l’idea (oggi diremmo l’immaginario simbolico) della polis come unità “perfetta”. È quella ritratta nel mezzo campo dello scudo fabbricato da Efesto per Achille (Omero, Iliade), intenta serenamente alle occupazioni ordinarie, quando l’altro campo illustra la vicenda della guerra contro i nemici esterni. In quest’ultimo caso la vittoria, quando arriva, è gloria, epos, è “buona”, non altrettanto, dicevo, è la vittoria di
una fazione sull’altra in caso di guerra civile. Diremmo che è per questo che il ciclo delle Orestiadi (Eschilo), dopo tragedie crimini e lutti endofamiliari, si chiude con la trasformazione delle Erinni in Eumenidi, deputate a proteggere la concordia nella città sanando, con l’intervento di Atena (dea del razionale) e l’estromissione di Ares (dio della guerra) le lacerazioni intestine.
Addomesticare il conflitto
Trasporre in tragedia è “strategia di contenimento”, esibizione controllata di ciò che la città ideale non può sopportare, e cioè la violenza endofamiliare, ma anche sperabilmente strumento di esorcismo nei confronti della stasis, addomesticatrice di conflitto.
Perché è questo il punto: per i greci antichi, la polis ideale è di composta e pacifica grandezza, e tale essa deve restare per continuare ad esistere e primeggiare. Ma il germe della discordia è inevitabilmente sempre presente, pronto ad esplodere e, dunque, come contenerlo, come, appunto, “addomesticare” il conflitto? E quando sia esploso, avendolo poi composto, come cancellarne le tracce che inevitabilmente ha lasciato nella comunità, come scansare la vendetta e la collera che non dimentica?
Abbiamo dunque più livelli su cui operare, strumenti diversi da escogitare e può aiutare rifarsi alle antiche esperienze. Il primo livello consiste, come dicevo, nel disporre di strumenti per governare, addomesticare il conflitto, ma preservandone la potenza trasformativa. Operazione sofisticata che non ammette finzioni.
È quello che facciamo con gli strumenti della democrazia ( e che sia pure in maniera imperfetta facevano gli Ateniesi), sia con il riconoscimento di uguaglianza, diritto di libertà e manifestazione del pensiero, diritto di liberamente associarsi, diritto di voto, sia con le forme proprie della democrazia rappresentativa. È anche quello che facciamo con gli strumenti della legge (ne civis ad arma veniant), con la giurisdizione indipendente e i diritti processuali. Strumenti tutti che rispondono al disordine che il conflitto porta con sé (ancora Tucidite) ordinandolo entro percorsi previsti dalla legge e, dunque legittimi. Illegittimo è, in un sistema democratico, soffocare il dissenso che genera conflitto. È il conflitto che va governato, non il dissenso.
Elogio dell’amnistia
Per la democrazia ateniese del V secolo a.C. (che noi giudichiamo decisamente imperfetta per l’esclusione delle donne, degli schiavi e degli stranieri) restava però presente il dubbio che una votazione assunta a maggioranza dall’Areopago lasciasse dietro di sé residui di conflitto, punte di risentimento nocive per la vita armoniosa della città, e questo sia
concretamente che simbolicamente. Questa idea del conflitto “resistente” al componimento democratico è un’idea antica, che conduce a preferire soffocare piuttosto che comporre il conflitto secondo procedure legittime, e sceglie di nasconderlo, di vietarlo.
Un’idea assai rischiosa, e cara oggi ai sistemi illiberali, ne abbiamo evidenze ogni giorno e ovunque nel mondo. Gli ateniesi, che avevano da preservare, come dicevamo, l’idea della città “perfetta” usarono l’oblio.
Così l’omicidio di Efialte (426 a.C), che era stato uno dei fondatori della democrazia ateniese, e che aveva spostato le leggi di Solone dalla collina dell’Acropoli al meson politico dell’agorà, venne cancellato dalla memoria della città. La democrazia ateniese, alle prese con la sua storia, ne sacrificò la memoria per rappresentare lo sviluppo armonioso della polis, non turbato dal delitto. L’oblio come chiave del politico, ci dice Nicole Leroux, come strumento di costruzione di un’identità, ma, appunto di una identità IDEALE, non reale. Il reale è la stasis, il conflitto che continuamente increspa l’immagine perfetta.
Con la stessa logica, nel 403 a.C., viene concessa amnistia ai Trenta Tiranni, sconfitti dai democratici guidati da Trasibulo . È destinata a ricomporre la lacerazione gravissima intervenuta nella città a seguito della guerra civile e
ha una sua straordinaria politicità, perché non si limita ad amnistiare gli oligarchi, ma, per la prima volta, richiede a ciascun cittadino di impegnarsi, ogni anno e ritualmente, a non ricordare ciò che di male è avvenuto.
Torniamo all’oblio come categoria del politico. Peraltro le parole amnesia e amnistia hanno la stessa radice. Non so se Togliatti conoscesse questa vicenda, ma certo siamo in grado di ricostruire la necessità politica che condusse il primo governo dell’età repubblicana a quella scelta, in un Paese che aveva visto un’ adesione massiva degli italiani al regime fascista, diremmo senza distinzione di ceto, censo, provenienza territoriale, così che non solo popolo, ma impiegati e funzionari pubblici, magistrati, docenti di ogni ordine e grado avevano sostenuto Mussolini. Fu la decisione del ” voltare pagina ” perché fosse possibile ricominciare.
Ci vorranno decenni per ” depurare ” dalle scorie di quel passato, nonostante la Resistenza, nonostante la Costituzione. Eppure era l’unica soluzione possibile in quel contesto, per suturare la lacerazione, per ricominciare a vivere senza conflitto. E non fu perdono. Fu scelta squisitamente laica, politica, appunto, a cui si accompagnò (e ancora si accompagna) la memoria.
Le guerre odierne. O dell’incapacità di gestire il conflitto
La moderna amnistia non consiste della cancellazione della colpa, bensì della sua non punibilità. Per questo, a differenza dell’amnistia ateniese del 403 a.C. non esige la rimozione della memoria, non impegna a dimenticare, piuttosto rappresenta una risposta altra al conflitto generato nella comunità dal delitto. Quel conflitto trova una soluzione politica, come dovrebbe accadere in caso di guerra, trovando le soluzioni nelle stesse ragioni del conflitto che ha condotto alla guerra. Questo ci sottrae all’esito obbligato che dividerà vincitori e vinti. Perché il punto è, secondo me, proprio questo: non solo conflitto e guerra non sono sinonimi, ma alludono a stadi ontologicamente e temporalmente diversi delle relazioni tra gli umani. Quanto il primo è fisiologicamente presente, latente o esplicito, brezza che impercettibilmente increspa la superficie dell’acqua o vento robusto che la squassa, tanto più la guerra si conferma come esito non naturale e evitabile del conflitto, perché il conflitto è l’occasione, ma la guerra nasce dalla incapacità di gestirlo quanto più sovraneggi la prevaricazione e l’ancestrale sentimento dell’ira (e dell’odio, suo sodale).
Riflettevo che l’ira di Achille apre l’Iliade, e l’ira divina subito si manifesta nella Bibbia. La risposta al sentimento è, per Achille, l’oblio. Dirà ad Agamennone “lasciamo andare le cose passate “ (XIX libro Iliade), e il re acheo attribuirà all’influenza nefasta della dea Ate la decisione di rapire Briseide. L’ira sottrae il raziocinio per Omero, l’oblio è razionale, dunque politico. La dottrina cattolica conoscerà il perdono, e sarà questo a pareggiare i conti nella vicenda degli umani e nella loro relazione con Dio.
Non è dunque la sopraffazione della guerra, la irriducibilità del conflitto la soluzione obbligata. Al contrario, nel conflitto accettato, mostrato ma governato, sia pure con i suoi costi, e nella opposizione sta la radice e la possibilità del progresso delle cose umane, il motore del cambiamento e delle soluzioni innovative, la capacità di trovare nuovi registri nelle relazioni, di giungere ad una migliore distribuzione delle risorse materiali e immateriali, di produrre soggettività sociale e politica di chi si ritiene estraneo o addirittura “scarto” della comunità, di produrre cultura e originare diritti.
Ma viviamo il tempo che ospita la guerra come accadimento ineludibile e cancella il conflitto come occasione di cambiamento. Lo cancella proprio per la sua potenza disordinatrice di un ordine dato storicamente nelle sue forme
economiche, culturali, sociali e politiche. Un ordine che non comprende tutti, però. Che non è a misura degli individui e delle comunità nel mondo che precipitosamente e radicalmente cambia e che, appunto, per tentare di impedire
la possibilità del conflitto, deve penalizzare il dissenso, rafforzare i confini, erigere muri, confinare “gli altri”.
Nel frattempo, come dice Amleto, “time is out of joints”, perché tutto cambia, con la rivoluzione tecnologica, con le scoperte scientifiche che impattano l’umano, per le migrazioni imponenti e i cambiamenti climatici, perché il mondo fuori dai nostri confini è così prossimo e appare così minaccioso e l’uomo spaesato, che perde ogni giorno consapevolezza di sè e del proprio destino, ancora di più teme il conflitto, che lo troverebbe inerme, impreparato. E plaude, plaude a chi glielo toglie dalla vista e così lo rassicura che non c’è bisogno di agitarsi perché, tanto, c’è qualcuno che ci pensa.