IDEATO E DIRETTO
DA ANTONIO CANTARO
E FEDERICO LOSURDO

IDEATO E DIRETTO DA ANTONIO CANTARO E FEDERICO LOSURDO

Attualità e problematicità della teologia politica

Per Preterossi la secolarizzazione non può essere priva di un “resto”. Tuttavia, questo “resto” non può essere di natura religiosa, nemmeno secondo la prospettiva habermasiana di cercare un'eredità etico-normativa delle religioni universalistiche. Un quasi ossimoro osserva Marco Cangiotti, in "convergente disaccordo" con l’autore di Teologia politica e diritto.

Il libro di Geminello Preterossi, Teologia politica e diritto, è un libro non solo importante, ma anche bello. Non stupisca l’uso dell’aggettivo bello per un libro di filosofia politica e giuridica. Con esso voglio intendere, insieme ai contenuti che sono importantissimi e direi decisivi per il nostro presente e per la nostra riflessione, voglio intendere, dicevo, l’andatura della scrittura che è profondamente logica, serrata, coinvolgente. Purtroppo, non capita spesso di imbattersi in un lavoro come questo, per cui sono grato non solo all’autore, ovviamente, per averlo scritto, ma anche ai colleghi Cantaro, Guidi e Losurdo che hanno voluto invitarmi a discuterlo.

L’ordine della polis, una questione permanente della politica

Se dovessi indicare una formula riassuntiva, e spero non riduttiva, di questo libro, direi che la questione fondamentale di cui si occupa è quella dell’ordine politico, dell’ordine della polis. Tale questione, per un verso, viene affrontata nella prospettiva della modernità, ma, nel contempo, viene rappresentata come una questione permanente della politica.

Prima di tentare un sia pur rapido dialogo con le tesi sostenute da Preterossi, ritengo possa essere utile cercare di delineare in maniera sintetica, certamente troppo sintetica ma spero non deformante, la complessiva andatura del suo discorso. La tesi di Preterossi è ad un tempo semplice e perentoria: il tema della teologia politica si presenta come il punto focale attorno a cui si intreccia la questione dell’ordine. Pertanto, la teologia politica è inestinguibile, e così essa si presenta come il tema centrale da discutere e da analizzare. È questa una sorta di ritorno a posizioni premoderne? No: finito l’ordine tradizionale in quanto diventato controverso – e proprio qui nasce la modernità politica –, per stabilizzare un nuovo ordine è stato necessario sostituire i vecchi assoluti con un artificio efficace, sia per capacità di coazione che per riconoscimento razionale. La teologia politica è esattamente il terreno in cui avviene la costruzione di tale artificio efficace; anzi, è l’unico terreno a disposizione. Il concetto stesso di artificio efficace mostra come la teologia politica vada intesa in un senso immanente, secolarizzato. E difatti, sono tre gli autori sotto il cui segno viene collocato il concetto di teologia politica: Schmitt, Hegel, Gramsci; autori profondamente diversi fra di loro, ma proprio per questo capaci di fornirci una complessa e complessiva mappa di ciò che si debba e si possa intendere con la nozione di teologia politica e dei problemi che in essa rimangono aperti.

Teologia politica tra immanenza e trascendenza

Allo stesso tempo, però, il ricorso a questa nozione rende evidente che, per Preterossi, l’ordine della polis necessiti di essere fondato, come lui stesso dice, su di una “funzione simbolica istitutiva”, ossia, e detto in altri termini, su qualcosa che sia sovraordinato rispetto all’intreccio dei poteri “indiretti”, o meglio degli interessi immediati, che costituiscono la trama della società civile. Per essere sovraordinato deve necessariamente collocarsi su di un piano assolutamente diverso da quello puramente immanente, anche se la dimensione trascendente in senso essenziale e come dicevamo non è più disponibile. Se venisse meno questa sovraordinazione, verrebbe meno la doppia funzione della politica, quella di katechon che frena la violenza e la pretesa e quella di mediazione dialettica dell’immediatezza, ovvero di funzione ordinatrice attraverso un trascendimento. Perché senza trascendimento, si permarrebbe nello stato di natura, cioè prima o dopo o comunque fuori dalla politica. In tutto ciò – altra tesi forte di Preterossi ma, come è ovvio, non solo sua -, si rende evidente il punto di contatto fra politica e religione, il fatto che politica e religione occupino la medesima regione. Ebbene, se nella società tradizionale le fonti del trascendimento erano fornite dalla religione, la modernità è caratterizzata dalla secolarizzazione, ovvero dalla rottura del rapporto “concorrenziale” – nel senso giuridico del termine – fra religione e politica, e nella conseguente sostituzione della religione con la politica e la mediazione giuridica, diventate del tutto autonome.

Capacità di trascendimento e connessa “funzione simbolica istitutiva” sono i target assegnati alla teologia politica, che cerca di centrarli attraverso la costruzione di un artificio efficace, e questa triade di trascendimento, funzione simbolica e artificio trova la sua declinazione e solidificazione nella sovranità, con il che essa si mostra come analogo e sostituto della trascendenza divina, ossia come la portatrice di una funzione di trascendimento simbolico sul piano dell’immanenza, come il luogo della politica moderna. Fin qui, il modello teoretico; e sarebbe interessante e assai istruttivo vedere le sue variabili nei tre autori citati, perché non si tratta solo di variazioni, ma anche di vere e proprie problematizzazioni del modello stesso.

Natura tragica” della teologia politica e sua inestinguibilità

 Non essendo qui possibile condurre questa ricognizione, basti dire che, comunque, Preterossi parla di una “natura tragica” della teologia politica laicizzata, ossia del suo essere necessaria e, nel contempo, del suo essere sempre deficitaria in quanto “bisognosa di un surplus di senso che non è in grado di garantire appieno ma alla cui parziale mancanza si trova a dover supplire”. A questa condizione di tragicità, che a mio avviso rappresenta uno dei nodi teoretici più interessanti e quindi meritevoli di approfondimento, si associa poi il fatto che sul piano della concretezza della vita storica il modello ha incontrato una sorta di progressiva erosione – “la machina teologico-politica si è inceppata” -, un deperimento che ha reso evidenti le problematizzazioni che Preterossi ha individuato ricostruendo la declinazione della teologia politica laicizzata in Schmitt, Hegel e Gramsci. Si badi bene, si tratta di un deperimento che non ha annullato la persistenza della necessità di una teologia politica, tanto che essa è stata replicata surrettiziamente in forme politicamente inefficaci; tali forme sono quelle che Preterossi definisce come teologia tecno-economica e come teologia giuridico-morale – che per l’appunto sono ancora “teologie politiche – che oggi dominano la scena. Si tratta però di modelli inefficaci che incarnano, in modi diversi, quello che l’autore definisce “l’assolutismo capitalistico”, e il risultato della loro prestazione è quello di un progressivo svuotamento della politica, di un “inaridimento della sfera pubblica” che lascia spazio al predominio della burocrazia tecnocratica.

Teologia tecno-economica, teologia giuridico-morale, populismo

Per dirla in termini sintetici la teologia tecno-economica sorge dalla struttura metafisica del capitalismo, che è una religione senza trascendenza e quindi puramente e unicamente cultuale, “puro culto”, ovvero qualcosa che risiede e si realizza solamente a livello rituale, dove il rito in questione è quello dell’incessante e circolare autoriproduzione di se stesso. L’elemento centrale e mortifero di questa teologia economica risiede nella sua pretesa di monopolizzare e di esaurire la domanda di senso dell’uomo nella sola dimensione dell’economico, cosa che genera una finta esaltazione dell’autonomia individualistica, o meglio egotica, che depriva di senso il concetto stesso di comunità. Perentorio è il giudizio dell’autore: “tanto il collettivo quanto la libertà soggettiva in relazione non esistono; ci sono solo individui disincarnati in competizione, in un orizzonte storico e sociale privo di alternative”. Siamo al paradosso contraddittorio dell’immanenza resa un assoluto, a cui fa da necessario pendant la riduzione della dimensione politica a semplice governamentalità, in cui il potere si riveste dei panni di una presunta neutralità della tecnica. Tutto questo permette di comprendere come la teologia politica tecno-economica sia “una teologia politica dissimulata che serve e a fare politica contro ‘la’ politica”. Con il concetto di teologia giuridico-morale non ci si trova in un terreno diverso, ma nel territorio della copertura ideologica del fallimento della rimozione della trascendenza o, se si vuole, dell’assolutizzazione dell’immanente che ha fatto deperire comunità e politica. Si tratta del processo di “moralizzazione” del diritto che opera attraverso una utilizzazione strumentale del tema dei diritti umani stressati sino alla fuoriuscita di un nuovo presunto assoluto, quello dell’umanitarismo, utilizzato per coprire la perdita di autorità e quindi l’infondatezza dell’ordine sociale capitalistico, imponendo all’opinione pubblica “le visioni ritenute corrette”, “una pericolosa omologazione del dibattito pubblico”, una “restrizione della libertà di pensiero”. Anche il fenomeno del populismo, che in sé rappresenta una reazione alle due spoliticizzazioni sopra ricordate, è, sia pure con tratti paradossali, una forma di teologia politica, comunque inadeguata al compito, per vari motivi, ma soprattutto per la possibilità di una deriva leaderistica. Così, il destino dell’esperienza politica occidentale, e dunque della civiltà occidentale, sembra essere consegnato alla cifra del nichilismo, ovvero, per dirla con le parole di Preterossi, di una vicenda umana imprigionata “dalle ritualità meccaniche del capitalismo come religione del consumo, dell’omologazione narcisistica, dell’ideologia dell’assenza di alternative, dell’esibizionismo mediatico”.

 “In convergente disaccordo”

Se arrivati a questo punto mi è consentito cercare di entrare in un momento di dialogo con l’autore, occorre muovere dal fatto che Preterossi non chiude il suo discorso con la prospettiva del nichilismo come ineluttabile destino, ma al contrario con una netta opposizione a tale possibile destino. Il punto di avvio di tale opposizione risiede nella lucida e sofferta consapevolezza che il moderno non è rappresentabile come una “neutralizzazione globale”, ovvero che la secolarizzazione non può essere estrema, non può rimanere priva di risorse “esterne”, non può essere priva di un “resto”.  Tuttavia, la cosa è complessa, o meglio quasi ossimorica, perché subito dopo, ricompare il perentorio giudizio per il quale questo “esterno”, questo “resto”, non può essere di natura religiosa nel senso proprio del termine, nemmeno secondo la prospettiva, portata avanti da Habermas, di cercare un’eredità etico-normativa delle religioni universalistiche e, segnatamente, del cristianesimo. Dunque, un “no”, a cui però, forse ancora in virtù della forza di quello che ho chiamato un quasi ossimoro – e la cosa diventa per me centrale -, si accompagna l’indicazione di un bisogno ben individuato, quello di “visioni politiche ambiziose che non temano di confrontarsi con le cose ultime”.

Davanti a tutto ciò, sono convinto che possa essere interessante, almeno per la mia riflessione, ritornare sul concetto di ordine, tenendo bene in vista che il punto teoreticamente centrale del discorso è quello della connessione tra trascendenza e immanenza. So di non avere spazio e quindi so che sarò riduttivo, spero non criptico. Procederò per punti, 7 per precisione.

La storia ha senso “etsi Deus daretur”.

Seguendo l’interpretazione di Eric Voegelin, la comunità politica non può essere ridotta a un semplice elemento di ordine esterno, ma deve essere riconosciuta come un “piccolo cosmo, reso trasparente dal significato che, dal di dentro, le conferiscono gli esseri umani che continuamente la creano e la perpetuano come modo e condizione della loro autorealizzazione”. Così concepita, la polis si presenta come una realtà dotata di due essenziali caratteristiche, quella di essere un ordine, e quella di possedere un significato di tipo simbolico. La dinamica simbolica che innerva l’ordine politico c’è proprio perché “attraverso tale simbolizzazione, i membri di una società la esperimentano come qualcosa di più che un disagio o una comodità: la esperimentano come parte della loro stessa essenza umana”. Dunque, la comunità politica riveste per l’esistenza umana un valore costitutivo, e se ci chiediamo quale possa essere l’elemento da essa apportato, la risposta che Voegelin dà è estremamente chiara: si tratta dell’elemento dell’universalizzazione e della connessa tensione al trascendimento di sé. “L’uomo è pienamente uomo grazie alla sua partecipazione a un tutto che trascende la sua particolare esistenza, in forza della sua partecipazione allo xynon, alla comunità”. Risulta del tutto evidente che con ciò compare la relazione fra sfera religiosa e sfera politica: infatti, entrambe si presentano come funzioni della dinamica del trascendimento che realizza il contatto con quello che, Voegelin chiama l’“ordine dell’essere”. Pertanto, religione e politica sono due “casi differenziati dell’attività di forze fondamentali dell’uomo strettamente imparentate” tra di loro.

Occorre domandarsi che cosa descriva il concetto di ordine. Indicativa è l’etimologia del termine dal latino ordo, che “si riferiva in origine alla disposizione dei fili nella trama e appartiene alla famiglia lessicale del verbo latino ordiri ‘disporre la trama di un tessuto’”. L’ordine è una relazione sensata.

La storia è tutta segnata dal tema delle relazioni fra i suoi attori, dal tema dell’ordine e, pertanto, il tema dell’individuazione dell’ordine da parte della ragione umana diventa “assiale”. Come ben sintetizza Voegelin, “a ogni società spetta il compito di creare, nelle proprie condizioni concrete, un ordine che conferisca significato, vale a dire fini divini e umani, alla sua esistenza […] la storia, pur non avendo un andamento semplice, […] è pur sempre intelligibile come lotta per il vero ordine”. Dunque, nella storia è presente un costante conflitto ermeneutico.

Qualsiasi siano i contenuti che vengono dati al concetto di ordine, tutti essi hanno una radice formale comune rappresentata dalla concezione dell’uomo che sta alla loro base, perché come afferma Platone, la polis è un macroanthropos, ossia l’uomo e la polis hanno strutture parallele, e pertanto l’ordine di una polis ha la sua fonte non nel paradigma delle istituzioni ma nella “psiche” umana. Con il che il terreno del conflitto interpretativo si mostra come un terreno fatto di etica e di religione. Questa affermazione non è dottrinale, ma trova fondamento in un dato universalmente accessibile: ogni essere umano, in forza del proprio potere di autocoscienza, è impegnato con due quesiti esistenziali, quello sulla propria origine, da cui deriva la possibilità della propria identificazione, e quello sul proprio futuro, da cui deriva la necessità di scoprire ciò che risulti essere il proprio bene adeguato. Solo rispondendo a queste due domande può prendere avvio il processo di autodeterminazione. La sfera della religione rappresenta il luogo dove viene elaborata la risposta alla prima domanda, e ciò non significa affatto che l’elaborazione sia di tipo “affermativo”, potendo benissimo essere anche una elaborazione che conduce a una posizione pienamente ateistica. La sfera dell’etica rappresenta, invece, il luogo della individuazione e del perseguimento del “bene” che permetta la propria realizzazione. E anche qui occorre sottolineare che non è affatto necessario che il registro dell’esperienza etica sia pensato come “oggettivo”, potendo benissimo darsi il caso di una sua identificazione in termini “soggettivistici”.

Questa indecisione sta ad indicare che, seppure si possa credere che esista una verità dell’ordine – e io ne sono filosoficamente persuaso -, il suo riconoscimento e la sua edificazione politica sono affidati come compito alla ragione e alla libertà umane. Dunque, la verità dell’ordine non può mai essere pienamente “identificabile con l’ordine di una qualsiasi delle società concrete che partecipano al processo storico”, ma neanche con nessun modello ideale. Questa opacità conoscitiva della verità dell’ordine rappresenta una condizione ineludibile del pensiero umano. Quando si sono accesi i tentativi di abolirla perentoriamente, l’esito è stato sempre tragico, e va o sotto il nome di fondamentalismo religioso o sotto il nome di totalitarismo politico. La giusta posizione rimane quella ancora una volta indicata da Voegelin: “I filosofi della storia parlavano di questa realtà chiamandola provvidenza quando vivevano ancora nell’orbita del Cristianesimo, o List der Vernunft [astuzia della ragione] quando erano sotto il traumatico effetto dell’Illuminismo, ma in entrambi i casi avevano in mente una realtà che trascende i piani degli esseri umani concreti, una realtà la cui origine e fine è ignota e che proprio per questo non può essere trattenuta nella presa dell’azione finita”.

Tutto questo permette di dire che il prendere le mosse, come io faccio, dal convincimento che la storia ha senso solo “etsi Deus daretur” non significa ritenere di conoscere i pensieri e i piani di Dio, ma solo di volere cercarli e assecondarli in un processo che persegue l’ordine, ma che, insieme, mantiene la consapevolezza della condizione di finitezza del soggetto umano e di ogni possibile realizzazione storica.

Per concludere, chiedo al filosofo Preterossi se questa posizione, così sommariamente descritta, appartenga a una ormai perduta tradizione o possa, invece, partecipare ad un dialogo razionale su quelle che lui ha chiamato “le cose ultime”?

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