IDEATO E DIRETTO
DA ANTONIO CANTARO
E FEDERICO LOSURDO

IDEATO E DIRETTO DA ANTONIO CANTARO E FEDERICO LOSURDO

L’autonomia come interesse esclusivo della Repubblica

La Corte costituzionale ha preannunciato l’illegittimità di diversi articoli della legge “Calderoli” di attuazione del “regionalismo differenziato”. Il tema è stato al centro del seminario su “Autonomia differenziata e Stato sociale” svoltosi all’Università di Urbino il 26 novembre 2024.

Nella doverosa attesa del deposito della sentenza, che consentirà la formulazione di considerazioni più compiute, un filo rosso di connessione tra tutti i rilievi che la Corte costituzionale ha mosso alla legge n. 86/2024 sembra potersi riconoscere già dalla lettura del consueto comunicato: l’autonomia non è nell’interesse particolaristico dell’Ente a cui è attribuita o che la rivendica, ma riguarda, in ogni caso, l’intero Paese, rappresentando interesse esclusivo della Repubblica nel suo complesso.

Sembra questa la concezione di fondo del principio autonomistico che emerge dalla lettura del comunicato e che la Corte riconosce impressa nella Costituzione italiana, non ritenendola evidentemente mutata a seguito della c.d. “riforma del Titolo V” (legge cost. n. 3/2001).

Tale concezione si evince già dalla parte iniziale del comunicato, in cui si afferma che «la distribuzione delle funzioni legislative e amministrative tra i diversi livelli territoriali di governo, in attuazione dell’art. 116, terzo comma, non debba corrispondere all’esigenza di un riparto di potere tra i diversi segmenti del sistema politico, ma debba avvenire in funzione del bene comune della società e della tutela dei diritti garantiti dalla nostra Costituzione».

L’art. 116, comma 3 Cost.: una concezione “privatistica” dell’autonomia?

Questa presa di posizione non era affatto scontata. Invero, l’opposta concezione di un’autonomia come interesse particolaristico degli Enti territoriali, da negoziarsi con lo Stato centrale – anch’esso portatore, nell’ambito della negoziazione, di interessi (potenzialmente) contrapposti – pare poter emergere dalla lettera dell’art. 116, comma 3 della Costituzione novellato nel 2001. In particolare, la circostanza che il procedimento di richiesta di «Ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia» di cui alla citata disposizione sia attivato su «iniziativa della Regione interessata» sembra a tal proposito significativa: l’utilizzo dell’aggettivo «interessata», in questo contesto semantico, sarebbe rivelatore di una concezione “privatistica” dell’autonomia, tesa non già ad accrescere la democraticità del sistema, bensì a realizzare interessi particolaristici.

È pur vero che questa terminologia non è stata scelta soltanto dal legislatore costituzionale del 2001: l’art. 132 (modificato dalla stessa l. cost. n. 3/2001), l’art. 133 (mai modificato), nonché l’XI disposizione transitoria della Costituzione, infatti, fanno riferimento alle «popolazioni interessate» (il primo, anche nella sua formulazione originaria). In tali disposizioni, tuttavia, il vocabolo sembra utilizzato in una diversa accezione. Esse, infatti, disciplinano procedure di coinvolgimento delle popolazioni interessate “dalle”, e non “alle” modifiche dei confini di Regioni, Province e Comuni. Il primo comma dell’art. 132, ad esempio, riguardante «la fusione di Regioni esistenti o la creazione di nuove Regioni», prevede che la richiesta provenga da «tanti Consigli comunali che rappresentino almeno un terzo delle popolazioni interessate». In tal caso, il significato di “portatrici dell’interesse alla modifica dei confini regionali” non sembra si adatti sufficientemente all’aggettivo «interessate», riferito al sostantivo «popolazioni», poiché i soggetti dell’azione di richiesta – i Comuni, nella predetta quantità – non coincidono con quelli – le popolazioni – chiamati a pronunciarsi «con referendum», per il quale è previsto il quorum della «maggioranza delle popolazioni stesse». Non potrebbe, invero, presupporsi che queste ultime siano portatrici del medesimo “interesse” dei Consigli comunali che hanno avanzato la proposta.

Pare, allora, che il significato più adatto al vocabolo «interessate», in questo contesto semantico, sia quello di “toccate”, anche perché è l’unico che consente di delimitare la platea di cittadini chiamati a pronunciarsi tramite referendum: quelli sui quali la proposta, se approvata, produrrebbe effetti. Un discorso analogo può applicarsi anche al comma 2 dell’art. 132 – nella sua formulazione precedente alla revisione del 2001 –, al comma 2 dell’art. 133, mai modificato, nonché all’XI disposizione transitoria.

Invece, nei casi degli artt. 116, comma 3 e 132, comma 2 modificati nel 2001, l’aggettivo “interessato” è riferito al soggetto promotore della richiesta e non alle popolazioni: «Ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia […] possono essere attribuite […] su iniziativa della Regione interessata» (art. 116, comma 3); «Si può […] consentire che Provincie e Comuni, che ne facciano richiesta, siano staccati da una Regione ed aggregati ad un’altra», «con l’approvazione della maggioranza delle popolazioni della Provincia o delle Province interessate e del Comune o dei Comuni interessati» (art. 132, comma 2, come novellato).

Per tale motivo, in questi casi il significato più adatto da attribuire al vocabolo sembrerebbe quello di “portatore dell’interesse alla modifica” o, comunque, di “desideroso della sua approvazione”: sarebbe senz’altro più coerente con il fatto che l’aggettivo sia riferito al soggetto o ai soggetti che avanzano la richiesta. Il significato di “toccato”, invece, non parrebbe adeguato, in quanto il “soggetto attivo”, che avanza la richiesta, non sembra possa fungere, nel medesimo contesto semantico, anche da “soggetto passivo”, “toccato” dagli effetti di una propria iniziativa.

L’interpretazione alla luce del «contesto della forma di Stato italiana»

Se, però, l’art. 116, comma 3 «deve essere interpretato nel contesto della forma di Stato italiana», come si afferma nel comunicato della Corte, andando dunque oltre la possibile apparenza della sua formulazione letterale, potrebbe esso rappresentare invece l’espressione di un’opposta concezione dell’autonomia, intesa come interesse esclusivo della Repubblica?

Una delle chiavi di lettura, per tentare di suggerire una risposta a questo interrogativo, sembra rappresentata dalla riflessione sulla tipologia delle principali fonti che disciplinano il sistema delle autonomie e, segnatamente, sulla fonte prevista per disporre la differenziazione dell’autonomia ex art. 116, comma 3 e sulle sue essenziali caratteristiche procedurali.

Che l’autonomia costituisca interesse esclusivo della Repubblica nella sua interezza e non interesse particolaristico, oggetto di negoziazione tra lo Stato centrale e gli altri Enti che compongono la Repubblica stessa sembra, infatti, testimoniato proprio dalla tipologia delle fonti del diritto deputate a disciplinare l’autonomia, tutte in vario modo sovraordinate rispetto alla legge ordinaria. Invero, se i cardini del sistema autonomistico italiano fossero disponibili ad una “formale” legge ordinaria, di mera “ratifica” di decisioni prese, nella sostanza, attraverso intese tra lo Stato e l’Ente interessato, l’autonomia sarebbe di conseguenza oggetto di una negoziazione paritaria, in cui ciascuno dei soggetti coinvolti persegue il proprio interesse particolaristico.

Costituzione, leggi costituzionali e rinforzate sono, invece, le fonti sulla e dell’autonomia. Esse non sono disponibili alla maggioranza di governo del momento, né agli Enti autonomi, il che testimonia che l’autonomia attiene alle fondamenta della Repubblica, ossia alla forma di Stato, non potendo formare oggetto di azioni tese alla tutela né dell’interesse particolaristico dello Stato né di quello degli Enti territoriali.

Rispetto a questo quadro, la fonte dell’autonomia differenziata non fa eccezione: una legge ‘rinforzata’, da approvarsi a maggioranza assoluta dei componenti delle Camere. In confronto alla Costituzione e alle leggi costituzionali tale fonte rappresenta, certo, una garanzia minimale. La sua previsione, tuttavia, sembra rispondere alla medesima logica di un’autonomia intesa, appunto, come interesse esclusivo di tutta la Repubblica, e non delle sue articolazioni singolarmente considerate, in competizione tra loro. La competizione tra Enti sul terreno dell’autonomia, d’altra parte, sarebbe incompatibile con la stessa ragion d’essere della Repubblica, rappresentata dall’attuazione del principio di solidarietà, alla quale tutti gli Enti che la compongono sono preposti, nelle diverse funzioni ad essi attribuite. Non avrebbe senso, dunque, una competizione tra soggetti afferenti ad un più ampio soggetto unitario – la Repubblica – deputati allo svolgimento della medesima funzione: ciò si risolverebbe, citando parole usate nel comunicato in un diverso ma connesso contesto, nell’inammissibile «indebolimento dei vincoli di solidarietà e unità della Repubblica».

L’opposta conclusione rispetto a quella, appena suggerita, della riconducibilità della legge rinforzata ex art. 116, comma 3, alla medesima logica garantistica delle altre fonti sulla e dell’autonomia non appare convincente, neanche se si pone l’accento sul carattere “minimale” della garanzia stessa offerta dalla legge rinforzata. Potrebbe, in effetti, sostenersi che, visto che la “semplice” previsione dell’approvazione di una legge a maggioranza assoluta dei componenti non rappresenta, in fondo, una garanzia così intensa, il legislatore costituzionale del 2001 ha inteso considerare il sistema autonomistico non come un elemento strutturale della forma di Stato, da tutelare, bensì come terreno sul quale l’innesco di una competizione tra Enti che compongono la Repubblica è ammissibile. Ciò, a maggior ragione in presenza di un sistema elettorale caratterizzato, in parte, da una formula maggioritaria, che rende ancor più agevole l’approvazione della legge a maggioranza assoluta e che era già presente nel 2001. Pertanto, delle ricadute di un siffatto sistema elettorale sull’“efficacia garantistica” delle maggioranze qualificate il legislatore costituzionale non ha potuto non tener conto, ai fini della scelta della fonte da utilizzarsi per la disciplina delle «forme e condizioni particolari di autonomia» ulteriori (art. 116, comma 3, Cost.) rispetto a quelle delle Regioni a Statuto speciale di cui all’art. 116, comma 1, Cost. L’opzione per una forma di garanzia “minimale”, in tale ottica, potrebbe essere riconducibile, dunque, alla volontà del legislatore di imprimere nella Costituzione una concezione “privatistica” dell’autonomia.

Del dato oggettivo della debolezza della garanzia offerta dalla “semplice” legge rinforzata, tuttavia, sembrerebbe opportuno dare una diversa lettura. Accedendo all’impostazione della Corte, secondo cui l’art. 116, comma 3 «deve essere interpretato nel contesto della forma di Stato italiana», può sostenersi in primo luogo che, per quanto minimale, la previsione della legge rinforzata rappresenta pur sempre una forma di garanzia, che conferma l’approccio generale della Costituzione al tema dell’autonomia. Partendo, dunque, dalla premessa che essa rappresenta un interesse esclusivo della Repubblica, in quanto elemento strutturale della forma di Stato, la circostanza che per le ulteriori «forme e condizioni particolari di autonomia» sia prevista una fonte che offre garanzie minimali dovrebbe indurre a concludere – come in effetti fa la Corte – che l’ampiezza dell’autonomia devolvibile ai sensi di questa disposizione non possa essere paragonata a quella di cui la legge costituzionale può disporre in relazione alle Regioni a Statuto speciale. In altre parole, le «forme e condizioni particolari di autonomia» ulteriori, disciplinabili tramite legge rinforzata ai sensi dell’art. 116, comma 3, Cost. avrebbero un’ampiezza senz’altro inferiore alle «forme e condizioni particolari di autonomia» disciplinabili tramite legge costituzionale ai sensi dell’art. 116, comma 1, Cost. In base a questa interpretazione, dunque, alla medesima espressione utilizzata dai commi 1 e 3 dell’art. 116 non potrebbe corrispondere il medesimo significato.

Ciò trova conferma, come anticipato, nella pronuncia della Corte che, come si evince dal comunicato, ha ravvisato l’incostituzionalità della legge n. 86 sotto il profilo della «possibilità che l’intesa tra lo Stato e la regione e la successiva legge di differenziazione trasferiscano materie o ambiti di materie, laddove la Corte ritiene che la devoluzione debba riguardare specifiche funzioni legislative e amministrative e debba essere giustificata, in relazione alla singola regione, alla luce del richiamato principio di sussidiarietà».

Il ruolo del Parlamento alla luce dell’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 116, comma 3 Cost.

Se quanto precede è vero, dunque, la funzione del Parlamento non può essere relegata a quella di mera “ratifica” di accordi conclusi in altra sede non emendabili: ciò sarebbe coerente, infatti, con un’autonomia concepita come oggetto di negoziazione tra Enti, ciascuno dei quali agisce allo scopo di perseguire il proprio interesse particolaristico. L’esautorazione del Parlamento, che deriverebbe da un’interpretazione dell’art. 2 della legge 86 nel senso dell’inemendabilità degli «schemi di intesa» tra governo e Regione «interessata» sembra, infatti, il logico corollario della premessa rappresentata da questa concezione dell’autonomia. Se, invero, l’autonomia è assunta come terreno di trattativa condotta nel perseguimento di un interesse di stampo sostanzialmente “privatistico”, che spazio potrebbe mai residuare per il dibattito parlamentare in materia? Esso non si presta affatto a questa impostazione: in primo luogo, è pubblico, laddove le trattative necessitano solitamente di riservatezza; in secondo luogo, ha sede nell’ambito di organi collegiali, che non sono i più adatti alla conduzione di una trattativa, funzione che richiede che ciascuno degli interessi in gioco sia preferibilmente rappresentato da un soggetto singolo; in terzo luogo, si risolverebbe in un aggravio procedurale non pertinente e dalla difficile gestione, rispetto ad una trattativa tra esecutivi altrimenti priva di intralci: i termini dell’accordo dovrebbero essere discussi in Parlamento ex ante, senza però conoscere la posizione della “controparte”, ovvero ex post, tuttavia a seguito di una trattativa, magari complessa, già portata a compimento, la riapertura dei cui termini potrebbe condurla al fallimento.

Sembra evidente che, partendo dalla premessa di una simile concezione dell’autonomia, la compatibilità di un dibattito parlamentare che includa la facoltà di emendare il disegno di legge di differenziazione risulta problematica. Assumendo, invece, come premessa l’opposta concezione, il centro della procedura di approvazione della legge di differenziazione non è più l’intesa tra esecutivi, bensì il dibattito parlamentare, comprensivo dell’emendabilità del disegno di legge.

In questo quadro, l’intesa tra esecutivi, da fulcro della procedura, potrebbe considerarsi derubricata a “parere obbligatorio”, ma non strettamente vincolante. Ciò troverebbe conferma nel testo del comunicato, in cui si legge che la Corte, attraverso un’interpretazione costituzionalmente orientata delle disposizioni sindacate, ha affermato che «l’iniziativa legislativa relativa alla legge di differenziazione non va intesa come riservata unicamente al Governo» e che «la legge di differenziazione non è di mera approvazione dell’intesa (“prendere o lasciare”) ma implica il potere di emendamento delle Camere; in tal caso l’intesa potrà essere eventualmente rinegoziata» (corsivo aggiunto). Difficile prevedere con certezza se, per la Corte, il Parlamento possa giungere ad approvare una legge di differenziazione in contrasto con le statuizioni riportate nello schema di intesa o, addirittura, in assenza di un qualunque tipo di accordo tra esecutivi: per questo occorrerà attendere la lettura della sentenza. La risposta affermativa, tuttavia, apparirebbe coerente con la solida premessa di un’autonomia concepita come interesse esclusivo della Repubblica.

Il seminario urbinate su Autonomia differenziata e Stato sociale del 26/11/2024

Su questo e su molti altri aspetti  è stata posta l’attenzione nell’incontro urbinate, che si è tenuto nell’ambito dei “Seminari (ri)costituenti”, nell’Aula Magna della Scuola di Giurisprudenza (Viale Matteotti, n. 1) mertedì 26 novembre.

Il seminario, presieduto e coordinato dal Prof. Paolo Polidori, docente di Scienza delle finanze presso l’Università degli Studi di Urbino Carlo Bo, ha visto le relazioni della Prof.ssa Roberta Calvano, docente di Diritto costituzionale presso l’Università di Roma Unitelma-Sapienza, dell’on. Stefano Fassina, già Vice Ministro dell’Economia e delle Finanze e del Prof. Vincenzo Tondi della Mura, docente di Diritto costituzionale presso l’Università degli Studi del Salento, nonché componente del “CLEP”.

Sono, inoltre,intervenuti il Dott. Gianluca Trenta, dottore di ricerca nell’Università degli Studi di Urbino Carlo Bo, oltre chi scrive.

Per accedere alla registrazione completa, è possibile collegarsi a questo link.

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