La lezione esemplare che viene dalla decisione della Consulta sull’autonomia differenziata è che esiste un Giudice a Roma. Che questo Giudice non è solo il garante della Costituzione, ma è il custode del «cuore» di quel testo, vale a dire di quel patto fondativo fra tradizioni, culture, ideologie e identità diverse, che oggi ci viene riproposto come unica possibilità per ritrovare le ragioni dello stare insieme.
Questa è la sola lezione che occorre comprendere (ci sarà tempo per sedimentare nel dettaglio i tanti passaggi tecnici anticipati dal comunicato). Anche noi avevamo perso tanta parte del nostro tesoro. Ci avevano ripetuto che è giusto che il Governo decida in splendida solitudine e in modo arbitrario ciò che occorre garantire ai singoli; che la politica deve perseguire gli interessi di una parte anche al prezzo di prevaricare l’altra; che basta una vittoria elettorale per decidere del destino economico delle minoranze; che anche l’eguaglianza poteva essere differenziata (LEP diseguali per regioni diseguali: un po’ come nella “Fattoria degli animali” di Orwell, dove tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri!); che le diversità territoriali e i relativi sciagurati ritardi storici e politici devono essere pianti solamente dalle popolazioni coinvolte, lasciando le altre libere di andare per la propria strada (anche se con parte dei soldi comuni); che occorre dare di più a chi è più ricco e meno a chi è più debole (la proposta del Comitato Cassese, che invocava il “costo della vita” quale criterio per monetizzare i LEP e fomentare le differenze territoriali, resterà nella storia repubblicana quale simbolo di una tale vergognosa ipocrisia); che insomma, sì, la Costituzione è una bella cosa, ma che quel patto che l’aveva originata ormai è cosa antica, come le foto in bianco e nero che lo ricordano, mentre invece per vincere le urgenze contemporanee serve il photoshop. Ce ne avevano dette talmente tante, che oramai sembrava inevitabile doversi rassegnare, smettere di indicare la Luna a una moltitudine che ha paura di guardare il Cielo per il timore di antiche e mai sopite nostalgie di verità.
Ecco cosa ci restituisce la decisione della Consulta: il tesoro che avevamo perso, la formula per recuperare le ragioni dello stare insieme, per riprendere una strada comune esiste, ed è quella antica, quella dei nostri Padri che la sperimentarono nella miseria e nella forza del dopoguerra. Basterebbe leggere le prime parole del testo per avvedersene: l’art. 116 riguardante la c.d. autonomia differenziata «deve essere interpretato nel contesto della forma di Stato italiana. Essa riconosce, insieme al ruolo fondamentale delle regioni e alla possibilità che esse ottengano forme particolari di autonomia, i principi dell’unita della Repubblica, della solidarietà tra le regioni, dell’eguaglianza e della garanzia dei diritti dei cittadini, dell’equilibrio di bilancio». E poi aggiunge, quasi come parole scolpite nella pietra: «La distribuzione delle funzioni legislative e amministrative tra i diversi livelli territoriali di governo (deve) avvenire in funzione del bene comune della società e della tutela dei diritti garantiti dalla nostra Costituzione».
Solidarietà, eguaglianza, garanzia dei diritti, bene comune: parole antiche, che la Consulta ci restituisce come nuovamente sperimentabili, come necessarie per riprendere un cammino comune. Le riforme non si fanno gli uni contro gli altri. Nessuno è più uguale dell’altro. Epperò, per recuperare la coesione sociale non basta ripetere quelle parole. Occorre riscoprirle, occorre riandare alle ragioni che le resero possibili: il sacrificio di una parte di sé come condizione per accogliere una parte dell’altro, la fatica del compromesso come unica possibilità di progettare una comunità per tutti.
[Una più ampia versione è pubblicata sul “Nuovo quotidiano di Puglia” del 15 novembre 2024]